Chi lo avrebbe mai detto che prima o poi, la Russia, pur avendo continuità geografica con l’Europa, si sarebbe staccata per sempre. L’Ucraina non è soltanto un teatro macabro di guerra ma è diventato il punto di rottura tra la Terra e il Mare. Quelle coordinate che il giurista tedesco Carl Schmitt ci aveva lasciato per leggere le meccaniche del mondo sono diventate due poli contrapposti, che ora rischiano di non toccarsi più. I principali pensatori strategici nonché decisori politico-istituzionali statunitensi, da Henry Kissinger a John Mearsheimer, ci avevano avvertiti che il conflitto armato, prima o poi, sarebbe arrivato se avessimo proseguito su questa strada. Ora però non si torna più indietro.
Anche perché a Mosca, molto più che a Bruxelles, c’è questa consapevolezza. Vladimir Putin non è impazzito, non gli interessa il consenso dell’opinione pubblica occidentale, non vuole vincere la battaglia della comunicazione, che Volodymyr Zelensky ha magistralmente giocato, tantomeno vuole convincere gli analisti nel comprendere le sue ragioni. Altrimenti non si spiegherebbero tutta una serie di azioni ingiustificabili nella società della trasparenza: dall’invasione militare fino ai bombardamenti aerei passando dal sabotaggio dei corridoi umanitari e dalle violazioni degli accordi di cessate il fuoco. Altrimenti alla guerra totale in assenza di un “casus belli” – un incidente, un fotogramma, una prova – avrebbe agito infiltrandosi nelle linee del nemico per provocare, orientare, fabbricare, una qualsiasi giustificazione, oppure sarebbe dovuto intervenire militarmente col pretesto di “denazificare” il Paese, nel maggio del 2014, dopo il rogo di Odessa. E invece nulla di tutto questo. Accanto alla percezione di tradimento, accanto al risentimento – tutte emozioni che rientrano nella sfera privata e intima – c’è una decisione unilaterale perfettamente razionale, cinica, disinteressata delle conseguenze. Vladimir Putin ha deciso che la Russia deve iniziare a Kiev, finire a Vladivostok, come ha suggerito anche lo storico Roj Medvedev sulle colonne del Corriere della Sera. E che il suo destino, ora che si è saldata l’integrazione tra l’Unione Europea e l’Alleanza Atlantica, è staccato da quello del Vecchio Continente. Geograficamente, politicamente ma anche spiritualmente. Da qui la necessità, o meglio la legittimazione spirituale del potere temporale del patriarca ortodosso Kirill, che ancora una volta ha giurato fedeltà allo Zar. Mosca non è più la Terza Roma, ma vuole essere una Prima Mosca. Nel suo sermone – ha fatto notare Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica – c’è un passaggio decisivo che è passato inosservato ai più: “Siamo entrati in una lotta che ha un significato metafisico”. Un’immagine che ci ha riportati di riflesso all’immagine di George W. Bush quando impugnò la Bibbia per santificare la sua guerra contro il mondo islamico.
Il Grand Continent, ha di recente recuperato un articolo di Vladislav Surkov, eminenza grigia del Cremlino, in cui quattro anni prima dell’invasione dell’Ucraina, già spiegava la teoria del “sanguemisto” della Russia, cioè un Paese che per quanto storicamente legato a Ovest come a Est, rimane tuttora un’entità separata. E il primo passo di questa secessione sembra proprio internet. Se è vero che la Russia diventerà “un’isola”, almeno sul piano commerciale e finanziario, sarà costretta a rafforzare l’integrazione euroasiatica (in particolare con la Cina). Questo isolamento a Oriente potrebbe durare il tempo di Vladimir Putin, o persino il tempo dello scioglimento dei ghiacci nell’Artico. Quando accadrà, le nazioni – in particolare gli Stati Uniti, Cina e Russia appunto – che si affacciano in questo spazio geografico, ricco di giacimenti di petrolio e gas naturale, dovranno inevitabilmente rivedere le loro alleanze. Fino a quel giorno, l’Eurasia, sarà a trazione cinese. Da qui la prudenza di Pechino nell’appoggiare l’intervento e di mediare tra le parti in campo.
In queste ore, la diplomazia sembra fare passi avanti anche se l’offensiva militare di Vladimir Putin prosegue imperterrita. E il fatto che i “peacemaker” più attivi, per ragioni e con interessi diversi, siano israeliani e turchi è abbastanza indicativo. Europa e Russia, sono destinate a separarsi per sempre, e non intendono trovare una soluzione. E a differenza dei tempi dell’Unione Sovietica, la Federazione di Vladimir Putin, non sembra più interessata a esercitare fascinazione, in tutte le sue forme, su di noi. Non vuole essere compresa, biasimata, sostenuta. Il problema non è tanto se continueremo a studiare Dostoevskij, perché a questo punto farcelo leggere sarà del tutto relativo. Così, persino per un diplomatico russo, Parigi, Roma, Berlino, diventeranno sedi secondarie. Anche il maccartismo risulta un’espressione fuori luogo perché non siamo tornati indietro di trent’anni. Al massimo potrà esserci una caccia alle streghe che non rispondono a nessun apprendista stregone. Da ora in poi, ognuno se ne va per la sua strada. È la storia, che fa i conti col passato e ora deve fare i conti col futuro.