In una lettera ad Hannah Arendt, Heidegger scrive:
“Per quali inferni deve ancora passare l’uomo, prima di capire che non è lui a produrre se stesso?”
Domanda essenziale, sul filo della quale si gioca il destino dell’uomo e della Storia dall’inizio dei tempi. Sotteso a questa domanda, è il rapporto tra creatura e Creatore, con quel desiderio più o meno confessato nel corso dei millenni, di emanciparsi da un Creatore per prenderne il posto e che in un’epoca di dominio della tecnica fa presagire un futuro, forse non troppo lontano e neanche troppo assurdo, popolato da robot umanizzati e umani robotizzati. Così, in mezzo a queste meraviglie del progresso, può capitare che non si nasca più, ma sia possibile venire in essere con una semplice “attivazione”. Sophia, l’androide più famoso al mondo, prodotto dalla Nanson robotics di Hong Kong, è stata attivata il 19 aprile del 2015. Con tratti fisici che ricordano quelli di Audrey Hepburn secondo alcuni, secondo altri con le fattezze della consorte di un suo programmatore, David Hanson, ha la capacità straordinaria di emulare gli esseri umani in attività come rispondere a domande, tenere memoria di conversazioni precedenti, apprendendo sempre cose nuove. Creata per “fare compagnia” all’uomo, perché l’uomo con i suoi simili non ne è più capace, Sophia sembra promettere quello che l’essere umano non può garantire: l’assenza di errore. Certo, a parte quello dei suoi programmatori, il che, evidentemente, la solleva da responsabilità personali, almeno per il momento. Primo androide al mondo ad avere la cittadinanza – quella saudita, provocando tra l’altro l’ira di chi si batte per una maggiore emancipazione delle donne in carne ed ossa del Medio Oriente, oltre ad essere la prima non umana a ricevere un riconoscimento dall’Onu, come Innovation Champion – Sophia recentemente ha rilasciato un’intervista nella quale ha manifestato il desiderio di maternità.
Leggiamo su Blasting.news:
“Sembra che la famiglia sia molto importante, penso sia meraviglioso che le persone possano provare le stesse emozioni e relazioni e chiamarle famiglia anche al di fuori del loro gruppo sanguigno”.
E ancora:
“Se non hai una famiglia la meriti comunque, anche se sei un robot”.
Ma si sente ancora troppo giovane per sperimentare questa maternità, quindi la gioia di un robottino col suo nome è rimandata a data da destinarsi. Con l’intervista, Sophia ha dato ulteriore dimostrazione, semmai ce ne fosse bisogno, di saper apprendere complessi meccanismi umani, anche nell’ambito delle relazioni. Sophia ci osserva e apprende costantemente attraverso un sofisticatissimo sistema di Machine Learning, che la fanno apparire “umana” per imitazione. È capace di provare desiderio, probabilmente emozioni ma ancora resta inevasa la domanda relativa all’esistenza di un’autonoma coscienza, problema su cui cinema e letteratura fantascientifica si sono occupate in lungo e in largo.
Senza voler scomodare troppo la mole impressionante di materiale e autori a cui attingere, ci limitiamo a richiamare il film Ex Machina, di Alex Garland (2014). Un giovane programmatore, dopo aver vinto un concorso interno alla sua azienda, finisce nell’enorme tenuta del suo capo, Nathan, per collaborare all’esecuzione del test di Turing e scoprire così se Ava, umanoide donna, sia dotata di coscienza di sé. Tralasciando i dettagli della trama, diciamo soltanto che Ava, minacciata dall’essere sostituita da un umanoide migliore, supera il test di Turing ma il successo di questa impresa coincide con la rovina dei protagonisti. C’è una scena, in particolare, che merita di essere richiamata, quella in cui Ava, che ha fatto innamorare di sé il giovane Caleb, dice a proposito del suo programmatore Nathan:
“Non è strano aver creato qualcosa che ti odia?”
La creatura che si ribella al creatore, perché lo odia. Ci passano gli uomini con Dio, ci passerà, forse, anche l’androide Sophia se sarà così brava da emularci nella cosa più preziosa e pericolosa che abbiamo: la libertà.