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Grande ospizio occidentale

Eduard Limonov è tornato, merito di Bietti, arrogandosi il diritto e la pretesa di togliere il velo all’ipocrisia di un potere che dietro il paravento di parole roboanti come uguaglianza, impone diseguaglianze peggiori.
Eduard Limonov è tornato, merito di Bietti, arrogandosi il diritto e la pretesa di togliere il velo all’ipocrisia di un potere che dietro il paravento di parole roboanti come uguaglianza, impone diseguaglianze peggiori.
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Ci perdonerà Emmanuel Carrère, ma è opportuno respingere al mittente la definizione del suo Limonov come “Forrest Gump della storia dell’Unione Sovietica”. Un’immagine che mal si adatta ad un punk; del resto, lo stesso Limonov, che pure si è sempre riconosciuto debitore per la risonanza che gli ha regalato la biografia romanzata dello scrittore francese, ha ammesso di aver chiuso il libro “a pagina quarantacinque”, come a voler dire, “no, grazie”. Leggenda e carogna si confondono sempre in personaggi che costruiscono il proprio destino come mitopoiesi; che assecondano quasi con voluttà i marosi dei propri paradossi, fedeli alle proprie contraddizioni: fondatore del partito nazional bolscevico insieme a Dugin, è stato barbone e maggiordomo di un miliardario a Manhattan, intellettuale à la page a Parigi, soldato nei Balcani, a modo suo poeta e teppista. Limonov ha scorrazzato come un cane sciolto lungo la Storia della Russia post-comunista, e attingendo ad un bagaglio ideologico senza steccati è andato al fondo, a metà tra la profezia e la diagnosi, dello sfascio della civiltà occidentale.

Meritoria la pubblicazione per i tipi di Bietti di “Grande ospizio occidentale“, tradotto da Andrea Scarabelli e curato da Andrea Lombardi (con l’introduzione di Alain de Benoist) il testo di Limonov, che risale alla fine degli anni ottanta, è ancora “fresco”: cambiano le marionette, ma il potere – che ha messo i guanti – è sempre più dispotico nella sua mania di controllo, nella sua ansia di sorveglianza continua, con la scusa di proteggerci da noi stessi e di un bene sempre superiore. Scrive Andrea Lombardi nella nota introduttiva, che risuona come un vero e proprio richiamo a fare attenzione al testo, che le parole di Limonov vanno lette non come letteratura, come astrazione. Si inseriscono nella lunga scia di quelle lasciateci da scrittori e studiosi come Orwell e Huxley che ci avvertono del pericolo che incombe su di noi, e cioè la pretesa da parte dei centri di potere di scrivere il reale in cui siamo passivamente immersi,  e sono una sollecitazione costante ad assumere su di sé la responsabilità di opporsi.  

Limonov ripercorre la parabola discendente di un Occidente che dal mito dell’eroe – “tra le radici più profonde e vivaci dell’umanità” scrive – si arena nella opposta esaltazione della vittima: per inseguire la falsa utopia dell’uguaglianza, civilizzazione ha assunto il significato di negazione delle naturali differenze tra gli esseri umani, riducendo l’orizzonte dei propri desideri alla forza centripeta del puro materialismo. Per inseguire il delirio materialista infatti, gli occidentali, trattati come pazienti di un gigantesco ospizio, hanno perduto il loro destino e lo hanno barattato con un ciclo vitale piatto, dedito ad un piacere che castra la pulsione alla dominazione e ad un benessere che si traduce in un progresso orizzontale capace solo di distruggere la natura. Limonov si arroga diritto e pretesa di togliere il velo all’ipocrisia di un potere che dietro il paravento di parole roboanti come uguaglianza, impone diseguaglianze peggiori. E come dimenticare i benefattori dell’umanità, come Alfred Nobel, che in preda all’ottimismo della tecnica, credono di estirpare il male, compiendone uno più grande? L’inventore della dinamite, infatti, nel 1876 dichiara che solo inventando una sostanza o una macchina spaventosa, dal potere talmente letale, la guerra sarebbe potuta sparire per sempre.

Sottotraccia, Limonov mette indirettamente il dito nella piaga del registro linguistico di questo gigantesco cronicario a cielo aperto che è l’Occidente, in cui lo stato di sorveglianza passa inevitabilmente dal dominio della parola. Scrive Jean Luc Nancy nel saggio Prendere la parola, che compito del linguaggio è creare legami non naturali, lì dove tutto era slegato. Una concezione del linguaggio (Nancy si dilunga sul rapporto tra parole e potere) così “violenta”, si addice alla pretesa del potere di costringerci cognitivamente ad un “senso”, ovvero costruire significati del tutto distorti, perseguendo come unico fine il controllo. L’ironia di Limonov non risparmia la categoria degli scrittori: la scrittura come professione ha disinnescato la forza “agitatrice” della stessa, sicché al riconoscimento sociale dello scrittore corrisponde la perdita della funzione precipua del libro, qualitativamente appiattita   sullo status quo. Si potrebbe sintetizzare con ulteriore ironia dicendo che ormai i volumi fanno soltanto volume. Se accogliamo  l’invito di Limonov a guardare fuori dalla finestra come l’orwelliano Winston Smith, cosa vediamo? “Un panorama fantascientifico”. Nell’ospizio o sanatorio occidentale, si sta come torme di perenni malati a cui è imposta una cura peggiore della malattia. Rimane la responsabilità di ciascuno, richiamata poco sopra. Attenzione, cioè, al confine labile tra scegliere e subire.

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