OGGETTO: Il ritorno della guerra totale
DATA: 27 Dicembre 2023
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Visioni
AREA: Altrove
La guerra è di nuovo un fatto esistenziale. E così, dall’Ucraina alla Striscia di Gaza, sui campi di battaglia più caldi del mondo nessuno è al sicuro. La logica della guerra come atto politico ha ceduto il passo a quella della distruzione assoluta: si punta ad annientare l’avversario in quanto tale, e si teme d’essere annientati a propria volta.
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Inas Abu Maamar se ne sta inginocchiata sul pavimento sporco dell’ospedale Al Nasser, il volto nascosto nella piega del gomito mentre stringe tra le braccia un lungo fagotto bianco dal vago profilo umano. È la silhouette di sua nipote Saly, cinque anni, uccisa dalla tempesta d’acciaio che da oltre due mesi si abbatte quasi senza interruzione sulla Striscia di Gaza: il terribile bilancio dei bambini periti come risultato dei raid aerei israeliani è appena aumentato di una unità. Sarebbero non meno di ottomila (!) i minori rimasti vittime dell’operazione militare lanciata da Tel Aviv in risposta agli attentati terroristici dello scorso ottobre, insieme a circa tredicimila adulti; cinquantamila i feriti, molti dei quali gravemente menomati, mentre secondo le Nazioni Unite il numero degli sfollati avrebbe toccato il milione e mezzo. Una vera e propria marea umana, che dopo essere stata convogliata a suon di bombe nella porzione sud della Striscia se ne sta ora accalcata al confine con l’Egitto, effimero miraggio di salvezza in mezzo allo squallore dei campi profughi.

L’orrore torna così a fare brevemente capolino nelle coscienze di noi fortunati, ormai assuefatte alla barbarie novecentesca del fronte ucraino; anche sulle città del Paese invaso continua a grandinare morte, di più in effetti che sulla prima linea, congelata dal freddo e dalla reciproca stanchezza delle parti. Dall’Europa al Medio Oriente, dal fango alla sabbia, cambia la scenografia ma lo spettacolo è il medesimo: sangue, sangue e ancora sangue. A fare da malaugurati protagonisti sono sempre ed ovunque loro, i civili, vittime designate — insieme a medici, cooperanti, cronisti — delle loro circostanze prima ancora che della guerra in sé. Non hanno armi con cui rispondere agli attacchi di cui vengono fatti oggetto, e neppure dispongono della rete di sostegno che è invece appannaggio del soldato moderno; la fame, la sete, le malattie e talvolta i loro stessi compagni di sventura possono rivelarsi un pericolo al pari delle pallottole e delle granate. Essere indifesi è per assurdo l’unica difesa dei cosiddetti non-combattenti; quando cade, il desiderio di sopravvivere lascia il posto al fato.

À la guerre comme à la guerre, direbbero in maniera assai calzante oltralpe. Questo è l’eterno destino dei deboli dove regna la forza, e nulla si può fare per cambiarlo; il destino, però, ha tutto sommato poco a che vedere con quanto si sta consumando a Gaza e in Ucraina. Perché in un inferno e nell’altro gli inermi soffrono spessissimo per scelta cosciente dei belligeranti: vecchi, donne e bambini non sono cioè i danni collaterali cui vorrebbe ridurli l’asettico gergo della burocrazia militare, ma piuttosto dei bersagli selezionati scientemente, proprio come si farebbe col nemico. Difficile credere altrimenti davanti al ripetersi costante delle carneficine; i tentativi di derubricarle ad incidenti sporadici — fermo restando che la supposta accidentalità di certi episodi costituisce in termini normativi un dato attenuante, non scriminante — cozzano altresì con la retorica muscolare del Cremlino e dello Stato ebraico, tanto più che entrambi si fanno vanto nel contempo della precisione chirurgica dei propri sistemi d’arma.

C’è dunque del raziocinio nell’apparente follia di questi massacri; si muore a caso, non per caso. E seppure è vero che fatti come quelli di Bucha o della Cisgiordania si possono ascrivere nel loro svolgersi concreto al puro e semplice sadismo dei singoli, la percezione di una regia di fondo resta nel complesso invariata. Lungi dal voler dare credito alle incaute accuse di genocidio circolate in riferimento ad ambo i conflitti — ricordiamo che detta fattispecie giuridica sussiste solo quando all’atto delittuoso sottende un chiaro intento appunto genocida — non si può tuttavia fare a meno di constatare come le violenza diretta contro le popolazioni civili abbia assunto un carattere sistematico che l’allontana da ogni normale considerazione strategica. Lo scopo ultimo dell’azione militare sembra in ciascun caso non essere più meramente spezzare la volontà di battersi dell’altro, chiudendo per mezzo della sopraffazione la controversia che sta all’origine dello scontro; la logica della guerra come atto politico pare aver ceduto il passo a quella della distruzione assoluta.

È il segno inconfondibile che la contesa è entrata in una dimensione esistenziale: si punta ad annientare l’avversario in quanto tale, e si teme d’essere annientati a propria volta. Vale senza dubbio per israeliani e palestinesi, impegnati da tre quarti di secolo a mettere in discussione l’identità etnico-religiosa, le prerogative politiche e la stessa umanità gli uni degli altri, e anche per russi ed ucraini, oggi al centro del sempre più aspro braccio di ferro ideologico tra i fautori dell’ordine mondiale liberale e quanti vorrebbero rovesciarlo. La posta in gioco è invariabilmente la sopravvivenza del gruppo, comunque lo si intenda, e l’intero gruppo è pertanto chiamato a farsene carico: così ad esempio nella Francia rivoluzionaria minacciata dalle vicine monarchie la Convenzione ebbe a decretare che «tutti i Francesi [sarebbero stati] in requisizione permanente per il servizio nell’esercito». Iniziava l’epoca della guerra totale; per la prima volta il distinguo tra partecipanti ed estranei alle ostilità veniva sfumato in funzione della necessità bellica.

Da allora la massificazione della società industriale, lo sviluppo dell’arma aerea e l’affermarsi di forme di contrapposizione asimmetrica hanno progressivamente fatto sì che quel confine, fisico e non, sbiadisse fino a svanire. Il campo di battaglia si è trasformato in un piano inclinato di brutalità via via maggiore, in fondo al quale stanno Grozny, Dresda, Hiroshima; che ci tornino alla mente le immagini apocalittiche di quei luoghi dà una misura tangibile del livello d’intensità dei due principali conflitti in corso e, soprattutto, di quanto sia facile raggiungerlo. Tanto la situazione in Ucraina, partita come disputa territoriale per evolversi di colpo in campagna su vasta scala e poi in lotta all’ultimo uomo, quanto le circostanze di Gaza, prosieguo di una lunghissima storia di odio legata a doppio filo con quella di soprusi ed arbitrio che accomuna le grandi potenze, dimostrano che ogni guerra contemporanea, non importa quanto sia circoscritta la sua portata iniziale, può da un momento all’altro esplodere in uno scontro privo di limiti definiti.

Imporne dall’esterno è d’altronde evidentemente impossibile. Il sistema di sicurezza onusiano, paralizzato come sempre dai propri pesantissimi squilibri interni, si conferma vittima pressoché passiva delle medesime dinamiche di potere che vorrebbe contrastare per tramite di un impianto giuridico in larga parte aspirazionale e anche per questo scevro di reale cogenza; farvi appello significa cadere nella trappola di un approccio legalistico ai rapporti tra Stati, cui unico risultato è rinforzare, celandoli dietro la lettera formale della legge, l’intrinseca diseguaglianza ed il relativismo ad essi connaturati. «Non è il diritto internazionale ad instaurare la pace, ma è piuttosto un’autentica pace il fondamento del diritto internazionale», scriveva lucidissimo Carl Schmitt nel suo saggio sull’allora neonata Società delle Nazioni: non tocca così alle norme — o parimenti alle sole armi, come sostengono invece gli immancabili falchi — il compito di delineare questa pace, bensì alla politica, unica in grado di operare (se lo desidera) al di fuori della spirale nichilista della guerra totale.

Roma, Maggio 2023. VIII Martedì di Dissipatio

Occorre, in altre parole, un ritorno alla diplomazia. Sia in Ucraina che in Israele si inizia ad intravedere qualche sottile spiraglio per delle soluzioni mediate. L’accennato stallo operativo e le incertezze dell’imminente stagione elettorale americana — e russa: voto truccato o no, sulla spetsoperatsija Putin deve decidersi ad offrire ai russi una chiara strategia d’uscita — potrebbero spingere Kiev e Mosca ad intavolare un tenue negoziato, se non per mettere fine al conflitto, forse per un cessate il fuoco. Quanto al Medio Oriente, c’è poco da aspettarsi nell’immediato, anche a causa dell’improvviso espandersi della crisi al Mar Rosso; ma il tramonto assai probabile di  Netanyahu lascia spazio a formazioni e figure più propense  a riaprire nel prossimo futuro il dialogo con i palestinesi moderati, di fatto rimasto fermo alla fallimentare iniziativa di Oslo. Facile a dirsi: di certo la strada delle trattative è ovunque in salita, e chi volesse intraprenderla dovrà essere pronto a pagare un alto prezzo politico e verosimilmente anche umano.

Il divario tra teoria e prassi è in sostanza quantomai ampio, e nel cercare di attraversarlo si corre spesso il rischio di scivolare nelle sabbie mobili dell’ideologia. Resta a tal proposito un’ultima considerazione da fare. Il negoziato è uno strumento certamente preferibile alla violenza; ma può  essere efficace solo se lo si considera ed adopera come alternativo ad essa. Non così fa l’assetto internazionale vigente, alla cui base sta anzi una cultura politica che sembra incapace finanche di  concepire la possibilità del ricorso deliberato alla coazione quale parte inalienabile della soggettività statuale e, quindi, della vita internazionale. La diplomazia si trova allora ridotta ad una forma di basso mercimonio, il diplomatico a venditore di tappeti. E la forza bruta, lo vediamo dalle tragedie di questi anni, domina incontrastata. Si sa: il trucco più diabolico del demonio è convincerci che non può esistere.

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