Perché si va al Grande Nord, nell’incommensurabile bianco? Forse per vedere il cranio calvo di Dio, forse per scoprire, nel freddo accecante, la propria nudità. Secondo lo Pseudo-Longino gli Iperborei “hanno gli occhi nelle stelle e l’anima nel mare”: pare che Apollo, “in connessione a motivi sciamanici, a capacità divinatorie, magiche, di guarigioni” (Giorgio Colli), il dio di glaciale sapienza, venga da Nord. Si dice ci siano spazi, nella smisurata Siberia, dove l’altro mondo sfocia in questo: pianure di spettri, morti che tornano a parlare, a partorire. “Quando l’attraversammo, mi sembrò di dire addio al mondo”, scrive, telegrafica, Lucy Atkinson, nel 1848, viaggiando verso l’empireo siberiano. Marzio G. Mian ha fatto dell’Artico – a cui ha dedicato un libro, nel 2018, per Neri Pozza – la propria terra d’elezione giornalistica. Intrepido, antico, Mian va nei luoghi di cui nessuno parla: prima di altri ha capito che l’Artico è il cuore nevralgico delle grandi battaglie geopolitiche, nel Risiko del millennio. Basti pensare alla Norhern Sea Route, la rotta commerciale che va dallo Stretto di Bering al Mare di Barents, sfociando sulla Groenlandia e l’Atlantico: più rapida e dunque redditizia della tratta consueta, a Sud, con il climax nel canale di Suez. Gli accordi tra Russia e Cina ne dimostrano la validità, lo scioglimento dei ghiacci velocizza i ricavi e la mole di transito. D’altronde, “Quasi il sessanta per cento del Pil della Russia arriva oggi dal Grande Nord. L’Artico è l’assicurazione sulla vita per il Cremlino, un bottino da saccheggiare, presidiare e difendere”, scrive Mian nel reportage andato recentemente in onda su Sky Tg24, Pevek, l’azzardo di Putin nell’Artico. Pevek è la città più a nord della Federazione Russa, nel Circondario autonomo della Čukotka, l’estremo oriente russo, il Far East, dove le temperature, d’inverno, toccano di media i -35 gradi.
“È il luogo più remoto che abbia mai raccontato, inaccessibile ai giornalisti, pressoché militarizzato, sotto stretto controllo dell’FSB, il servizio di sicurezza russo”,
mi racconta Mian. E tu come hai fatto ad arrivarci? “Perseveranza, pazienza, conoscenze, tentativi – a volte vani – per trovare la via adatta a ottenere il visto. Ho passato in Čukotka il compleanno più assurdo della mia vita, esattamente un anno fa, bevendo di tutto, al buio, con il Polo Nord che ti offre la guancia…”.
A Pevek, nel porto, è ancorata l’Akademik Lomonosov, la “prima centrale nucleare galleggiante al mondo”. Poco più in là, a terra, una scuola, “all’avanguardia, con affreschi sui muri che raccontano i fasti della letteratura russa”, frequentata da 500 ragazzi. “La radioattività della Akademik Lomonosov è 25 volte inferiore a Chernobyl, ma le conseguenze di un incidente, secondo Jan Haverkamp, esperto nucleare di Greenpeace, sarebbero ingigantite dai venti artici e dalle correnti del mare di Siberia: ‘Sarebbe la fine per l’ecosistema più fragile del mondo’”. Il bianco, in Artico, concede alle forme una stabilità eterea, ai movimenti una sorta di eternità. Eppure, tutto si muove, lassù, a una velocità contraria al gelo, frenetica. “A un certo punto, la preside mi ha fatto fare un giro della scuola. In palestra alcune ragazze erano impegnate in una lezione di danza. Dalle vetrate, enormi, spiccava quel gigantesco transatlantico, la centrale, pronta a centrarti: nel cuore del buio, un’esplosione di modernità. Eppure, i nativi, in Čukotka, sono più vicini all’età del ferro che all’era nucleare…”.
La centrale alimenta la città di Pevek, il cui porto diviene sempre più importante nell’ottica della “Via della seta polare” cinese, ma soprattutto l’attività estrattiva. “La Čukotka è ricchissima di materie prime: oro e rame in particolare, ben più che in Alaska. I giacimenti, scoperti negli anni gloriosi dei geologi sovietici, vengono ora sfruttati a dovere”. Lo zar di quest’area di mondo, all’apparenza lontana dalla Storia, è Roman Abramovič, che prima di diventare il padrone del Chelsea è stato, fino al 2008, governatore della Čukotka. “Portando lavoro e denaro in una zona per lo più abbandonata dopo il crollo dell’Unione Sovietica”, mi dice Mian, “ma soprattutto comprando a prezzi irrisori terre ricchissime. Che ora, grazie alle centrali prêt-à-porter ideate con l’amico Putin, possono essere sarchiate con adeguata potenza”.
Il viaggio di Mian in Čukotka è durato un paio di settimane. “Finché le forze di polizia russa non hanno usato metodi degni del Kgb”. Spiegati. “Nel corso del viaggio io e il mio operatore abbiamo subito tre interrogatori, piuttosto duri. Finché un giorno, alle cinque del mattino, alcuni membri dell’FSB non hanno fatto irruzione a casa di chi ci ospitava, Igor Ranav, un nativo, un Čukči, oppositore del putinismo, mandriano di renne che ha fatto i soldi con piccola edilizia, servizi funebri, commercio di ferrivecchi. Insomma, hanno cercato di farci firmare una dichiarazione che sarebbe stata il pretesto per sequestrare il materiale giornalistico raccolto. Ne è nata una specie di rissa. Abbiamo capito che era il momento di andarcene, e così abbiamo fatto, il giorno dopo. Forse per la prima volta nei miei viaggi, mi sono sentito come lo straniero assoluto, solo”.
Di recente, Mian ha firmato, con Francesco Battistini, inviato del “Corriere della Sera”, un libro sulla Bosnia, “a trent’anni dalla guerra che ha davvero cambiato il mondo: ha battezzato il Novecento e inaugurato il nuovo millennio”. Uscirà tra un mese, per Neri Pozza. Tuttavia, non molla il Nord. “Sto cercando di andare ad Archángel’sk, dove il vescovo ortodosso, che gestisce una parrocchia grande due volte l’Italia, è un filologo, esperto di Puškin e di Shakespeare, benedice le operazioni artiche di Putin e gira con una slitta trainata dai cani”. Pare l’abbrivio di un romanzo.
Come è nel suo stile, Mian misura i grandi capovolgimenti della storia con le vicende locali, rurali, le spietate strategie dei nuovi oligarchi con i riti del villaggio. In Čukotka a essere sacrificati sull’altare dell’economia globale sono i nativi. A tre ore da Pevek i mandriani Čukči portano le renne al pascolo in una zona che chiamano “il grembo del mondo”, fertile di vita, intorno a cui furoreggiano miti. “Quando la tundra esplode, in estate, pare sia un luogo davvero incredibile, ricco di acque. Beh, lì costruiranno un porto, dove attraccheranno altre piattaforme nucleari. Così, il luogo magico dei Čukči, il luogo della loro identità, frequentato da almeno cinque secoli, sarà destinato, entro il 2025, a sparire. E con quello, le renne e la vita dei mandriani, comprati con qualche televisore, qualche giocattolo e la promessa di un’esistenza meno aspra”. Pare agghiacciante. “Ma è inevitabile. In Russia non si specula troppo sull’inclusività: ti danno un po’ di soldi, costruiscono una strada, devi andare via”. Un’altra stirpe di piccoli Omero, di cantori del tempo primordiale crolla. “Ah, appuntati questo nome. Jurij Rytcheu. È il padre della letteratura ciukcia; figlio di uno sciamano, è cresciuto in Russia, è morto nel 2008 a Pietroburgo. I suoi romanzi sono eccezionali: nell’era del ‘realismo socialista’ sovietico, che idolatrava le grandi ‘opere pubbliche’, Rytcheu è stato un ambientalista ante litteram, ha narrato le epopee di quei territori desolati, duri, bellissimi. Pensa, uno di quelli che lo ha fatto ripubblicare è proprio Abramovič…”. Già. Quando il fuoco languisce, si spegne, agitiamo le ceneri, e trova grazia una obliqua nostalgia.