OGGETTO: Unifil, storia di una linea blu
DATA: 11 Ottobre 2024
SEZIONE: Difesa
Il terreno di scontro libanese fra Iran e Israele riporta alla ribalta i dilemmi sulle missioni di pace e le regole d’ingaggio delle Forze Armate italiane che nella Storia recente hanno perpetuamente dimostrato capacità di combattimento con risorse spesso opinabili e un’opinione pubblica contraria. Il Dpp 2024-26 ha il merito d’avere grandi ambizioni, ma risulta ancora evanescente sul piano strettamente strategico e tattico.
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Da circa un decennio e certamente con l’occasione della guerra d’Ucraina, l’Italia tenta di fissare tra le priorità dell’agenda politica la questione della Difesa in tutte le sue forme: dall’industria all’equipaggiamento, dal pensiero all’addestramento. Se l’aggressione russa del febbraio 2022 ha interrotto bruscamente la ricreazione dal pensiero militare che durava grossomodo sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, riportando le bestialità della guerra e dunque della storia sotto gli occhi nostrani, l’inasprimento delle spallate fra Iran e Israele che ha visto e vede come teatro di scontro armato anche il territorio libanese, ha attratto con maggior sgomento e apprensione l’attenzione dei Ministeri degli Esteri, della Difesa e degli apparati militari italiani poiché in questo caso Roma è direttamente coinvolta. L’Italia ha oramai una lunga relazione ed esperienza di cooperazione umanitaria e di pace col “Paese dei Cedri”.

Successivamente la preventiva azione israeliana che conduce la Tsahal ad occupare i territori meridionali del Libano, dopo i colpi terroristici per mano palestinese che in quegli anni trovava rifugio nel “Paese dei Cedri”, Roma interviene nel 1979 unendosi alla missione Unifil (Union Nations Interim Force in Lebanon), lanciata un anno prima, che aveva lo scopo di verificare la ritirata d’Israele. Prima operazione militare all’estero della repubblica. 

Nel 1982 le Forze Armate israeliane rilanciano una nuova offensiva giungendo ad assediare le periferie di Beirut e il contingente italiano, assieme al resto degli elementi onusiani, rimane a svolgere compiti d’assistenza sanitaria alla popolazione locale.

Dopo una quindicina d’anni, sul crinale del XX secolo e l’alba del XXI, le truppe d’Israele lasciano i territori “dei Cedri” nel 2000, ma tuttavia nel 2006 deflagra un nuovo conflitto armato asimmetrico causato dagli irregolari di Hezbollah, fra questi e la Tsahal. Agente di prossimità sciita di Teheran che negli anni intanto s’è fatto partito politico e partecipa alle elezioni libanesi. Israele reagisce con una nuova offensiva che però viene sbaragliata dai “Partigiani di Dio” dalla quale prende spunto Frank Hoffman per coniare il concetto di “guerra ibrida”, ossia una miscela di tattiche irregolari (terrorismo e guerriglia), con tattiche regolari (artiglieria e manovre di fanteria sul campo).

Sorge la II fase di Unifil e Roma è presente con circa duemila effettivi, i compiti sono sempre i medesimi: pattugliare la “Linea Blu” stabilita dalle Nazioni Unite e accertarsi del ritiro israeliano, insieme con l’attività d’addestramento delle Forze libanesi.

Negli ultimi anni l’Italia ha continuato a presenziare la missione con 1.256 unità di personale militare, 374 mezzi terrestri e 6 unità aeree. Dal 1979 non ha mai sostanzialmente lasciato il territorio libanese, seguendo le rotazioni decise in seno alle Nazioni Unite.

«Dall’inizio della seconda fase della missione UNIFIL (agosto 2006), per quattro volte è stato scelto quale UNIFIL Head of Mission e Force Commander (HoM/FC) un Generale Italiano» fino al 2018, poi per più di tre anni il Generale Del Col e infine ora, dallo scorso 7 agosto, il Generale Messina.

L’Italia s’è perennemente guadagnata un ruolo rilevante nelle storiche missioni multinazionali sotto l’egida delle Nazioni Unite e lo stesso è avvenuto sotto quelle della Nato o dell’Unione europea. La ragione sta nella continua dimostrazione di professionalità e affidabilità delle Forze Armate italiane. Lo si è visto in Libano, in Afganistan, in Iraq, ma pure in mare nel golfo di Aden e in quello di Guinea, piuttosto che nel più recente teatro del Mar Rosso con l’operazione Aspides, al momento a guida tattica italiana e sotto il cappello di Bruxelles.

Non sono mancate neppure le battaglie e pure molto aspre, come la celebre “battaglia dei ponti” in Iraq contro l’Esercito del Mahdi, braccio armato del movimento politico-religioso del Sadr, e prima offensiva italiana dalla Seconda guerra mondiale. «Maggiore scontro a fuoco sostenuto da reparti militari italiani dalla fine della Seconda Guerra Mondiale».

Successivamente l’attentato più grave e drammaticamente ricordato a Nassirya il 12 novembre del 2003 – alla caserma Maestrale, una delle due basi operative di Carabinieri ed Esercito di stanza in Iraq – per mano di al-Qaeda; anche la milizia sciita del Sadr vuole colpire lì poiché tatticamente più conveniente. Gli italiani sottostanno a stringenti limiti d’ingaggio e sono scarsamente equipaggiati.

Il 6 aprile del 2004, nella notte, due compagnie dell’11° reggimento bersaglieri; una compagnia del 132° reggimento carri Ariete (priva di carri Ariete e utilizzata come fanteria); uno squadrone del 3° reggimento Savoia Cavalleria (equipaggiata con blindo pesanti B1 Centauro) e una compagnia di fucilieri del reggimento anfibio San Marco, sbaragliano in inferiorità e per metà a bordo di VM90, quindi totalmente sguarniti di difesa dall’artiglieria, la milizia avversaria.

Altri esempi si potrebbero prelevare dall’esperienza afgana, sia ad opera dell’Esercito che dell’Aeronautica.

Fra il 2008 e il 2010 nella regione del Badghis in località Bala Murghab, gli scontri a fuoco fra le milizie insorgenti talebane e le truppe italiane della compagnia Aquile del 66° reggimento aeromobile della brigata Friuli; alcune unità del 183° reggimento paracadutisti Nembo; fanteria della brigata Sassari e unità degli Alpini, trovano il climax nella battaglia svoltasi il 27 dicembre e nei giorni successivi insieme a reparti statunitensi col fine di liberare e conquistare la strada del valico occlusa e dominata dagli insorgenti.

Questi sono soltanto alcuni degli esempi di situazioni di combattimento che le Forze Armate italiane sono trovatesi ad affrontare e che sono state scarsamente narrate, ma soprattutto celebrate e che danno perfettamente la misura delle capacità e della versatilità dei militari italiani.

Il Libano, negli ultimi giorni, è stato dibattuto a livello istituzionale a causa dell’aumento della tensione, come s’è accennato, fra Hezbollah, Iran e Israele.

Roma starebbe valutando l’ipotesi d’evacuare il contingente italiano di Unifil che al momento attende nella base di Shama, tra il fiume Leonte e la “Linea Blu” di confine con Israele.

Ovviamente il punto non è tanto quello dell’evacuazione, vale la pena ricordare che i piani non vengono decisi all’ultimo minuto o con il mutare e l’acuirsi della perturbazione, se il rischio è troppo alto rispetto agli equipaggiamenti, ai mezzi e alle regole d’ingaggio dei militari è meglio rimpatriarli senza dubbio. Inoltre, va aggiunto che negli ultimi mesi il Governo italiano, per merito del ministro della Difesa, ha domandato più volte maggiori orizzonti d’azione per i propri militari, malgrado non sembra possibile vista la carta delle Nazioni Unite e l’iter decisionale con i suoi veti dei permanenti. Ed è anche comprensibile: maggiore assertività nelle attività coercitive significa allontanarsi dal principio di pacificazione; viceversa assumere una postura maggiormente diplomatica e meno militare.

Il punto è decisamente un altro: il ritorno politico di tante missioni italiane all’estero. Un interrogativo che ritorna costantemente.

«Gli obiettivi della missione sono molti e ambiziosi. Tra i principali: favorire una distensione dei rapporti diplomatici tra Israele e Libano; scoraggiare le incursioni militari verso nord dell’esercito israeliano e le attività militari di Hezbollah; fare in modo che l’area meridionale del Libano, tra il fiume Leonte e il territorio israeliano, sia sostanzialmente demilitarizzata, e che gli unici autorizzati a portare armi siano, oltre ai militari di UNIFIL, quelli delle autorità governative libanesi; prevenire il traffico illegale di armi, finalizzato perlopiù a rifornire Hezbollah; assistere la popolazione civile che si trova in quell’area».

Un altro interrogativo sorgerebbe poi sull’efficacia di queste missioni, le “missioni di peacekeeping” che nella maggior parte dei casi: o si concludono con esiti fallimentari, oppure continuano a procrastinare la propria data di scadenza con risultati spesso scarsi rispetto alle attese delle Nazioni Unite.

Tornando all’Italia, nelle scorse settimane è stato pubblicato il Dpp 2024-2026 (Documento Programmatico Pluriennale per la Difesa) che tenta, almeno nelle parole, di stimolare una maggiore sensibilità, non soltanto economica, verso la Difesa: parlando di Patria e sottolineando quanto le missioni di polizia non possano più esser il solo scopo delle Forze Armate italiane. Tuttavia, ancora una volta, non dà una visione veramente chiara sul piano strategico e si limita a dati di bilancio e considerazioni spesso ambiziose, ma altrettanto evanescenti o lacunose nella sostanza rispetto all’interesse nazionale e agli sviluppi. L’esempio dell’accordo sui carri Leopard 2A8 che il Ministero avrebbe dovuto acquisire entro il 2037, ma che è saltato nell’estate scorsa venendo rimpiazzato con un’altra iniziativa relativa al «nuovo Main Battle Tank (MBT) e alla nuova piattaforma Lynx per il sistema di combattimento della fanteria corazzata (AICS)», probabilmente più all’avanguardia, ma che al di là delle ombre industriali sulle volontà istituzionali e sulle esigenze degli operatori, come riporta Alberto Scarpitta (ex Ufficiale dei Lagunari) per «Analisi Difesa», riporterà la questione dell’addestramento come ha sostenuto in un’intervista per «Difesa Online» il Generale Morabito: senza adeguati spazi d’addestramento si riveleranno scarsamente utili. Possibili scontri con l’opinione pubblica e le amministrazioni locali.

Roma, Marzo 2024. XVI Martedì di Dissipatio

Sempre seguendo il Generale, inoltre, pare ancora abbastanza evidente che i capisaldi strategici italiani dai quali declinare le tattiche, rimangano: un Mediterraneo, a partire dallo stretto di Sicilia, che veda liberi i propri “colli di bottiglia” e una spiccata capacità di controguerriglia e controterrorismo, legati al caos saheliano e l’instabilità che da lì si riverbererebbe sull’Europa meridionale, quindi sull’Italia; insieme ad una chiara volontà d’influenza su quei Paesi. Ciò non significa non investire in tecnologie, quindi anche ricerca scientifica; equipaggiamenti; mezzi; come considerare anche altri ipotetici scenari, ma tuttavia non dimenticare in base alle “febbri di stagione” che per la Nazione, gli scenari russo-ucraino e mediorientale, ancor più il Pacifico, certamente si presentano come minacce, ma al momento più remote.

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