Ucraina, giorno cento. Esauritosi lo slancio iniziale di ambo le parti, le grandi offensive e controffensive generali sembrano aver ceduto il passo ad operazioni tattiche limitate: l’esercito di Kiev si è ripreso Kharkiv, i russi sono entrati a Lyman, gli uni e gli altri consolidano le rispettive posizioni. Beninteso, in prima linea, per le strade di città e villaggi ridotti in polvere o nelle campagne deturpate dallo zigzag delle trincee, si continua ad uccidere e a morire come cani randagi; la diffusa impressione è però che su questo moderno Fronte Orientale sia infine calata l’impasse. E così, al terzo mese di carneficina, sulle due sponde dell’Atlantico comincia a farsi strada la consapevolezza che le cose non stanno andando per il verso giusto.
La strategia occidentale, interamente incardinata sul sostegno indiretto alla resistenza ucraina, si poneva il semplice obiettivo di arrestare l’avanzata russa e, sventati i piani del Cremlino, costringerlo a cercare una soluzione mediata che chiudesse la partita — se non altro per il momento. L’enorme afflusso di armi e denaro, va detto, ha assolto allo scopo: il colpo di mano progettato dai russi, che speravano di raggiungere la capitale dello sfortunato vicino in pochi giorni e installarvi un governo fantoccio, è fallito. Sarebbe stata l’occasione per trattare da una posizione di forza relativa e, plausibilmente, ottenere garanzie credibili rispetto all’integrità territoriale e all’autonomia politica ucraine, incluso l’assenso di Mosca all’ingresso del Paese nell’Unione Europea, vexata quaestio già al centro delle rivolte di Piazza Majdan del 2014. Ma davanti alla goffaggine delle forze armate russe, che ha reso quella che era stata concepita come una trionfale campagna lampo una marcia lenta e costosa attraverso una terra ostile, nelle cancellerie della coalizione occidentale ha finito per prevalere la volontà, mai del tutto sopita, di regolare una volta per tutte i conti rimasti in sospeso con l’eterno rivale dalla caduta del Muro.
Memori degli infelici trascorsi dell’Unione Sovietica in Asia Centrale (e dimentichi dei nostri, assai più recenti), i fautori dello scenario afghano si sono convinti di poter trasformare l’Ucraina in una palude in cui dissanguare una Russia che s’immaginavano paralizzata dall’inaspettato rovescio militare e da un repentino collasso economico, catalizzatori a loro volta di una crisi politica che sarebbe dovuta culminare con la rimozione (anche fisica, se necessario) di Vladimir Putin. Questi i fondamenti di una lunga serie di pronostici sul futuro evolversi della situazione, figli di un’aperta parzialità filoucraina e sovente votati ad un incauto ottimismo, ascrivibile più ai reconditi desideri e ai pregiudizi ideologici di quanti se ne sono fatti portatori che alla disamina ragionata di circostanze che oggi scopriamo essere ben diverse da come abbiamo voluto raccontarcele.
Dato conto degli innegabili effetti sortiti dalle sanzioni, l’economia russa — che continua comunque a poter contare sulle corpose entrate derivanti dall’esportazione di gas ed idrocarburi, specie verso la Cina e l’India — pare ancora lontana dal prospettato tracollo, mentre molti interpretano la misteriosa scomparsa del Ministro della Difesa Sergei Shoigu all’inizio dell’invasione, e la serie di morti a dir poco sospette che ha visto coinvolti diversi oligarchi del settore energetico, come parte di un’epurazione interna volta a scoraggiare potenziali tentativi digolpe. Per quanto poi concerne l’azione sul campo, agli insuccessi delle prime settimane i russi hanno risposto con un evidente ridimensionamento degli obiettivi strategici, che ha consentito loro di concentrare le forze, rimpossessarsi dell’iniziativa e guadagnare terreno prezioso nel Donbas. In tutto ciò non può sfuggire una certa ironia; bisogna prendere atto, pur con imbarazzo, che siamo stati vittime della medesima hubris che ha spinto il Cremlino ad avviarsi alla guerra.
Sicuri della nostra superiorità materiale (e morale) abbiamo rinunciato alla diplomazia, optando per un approccio oltranzista le cui tempistiche, necessariamente ristrette, hanno nondimeno smesso di combaciare con quelle sempre più dilatate del conflitto. Basti pensare che i soli Stati Uniti hanno finora destinato all’Ucraina ben cinquantaquattro miliardi di dollari, parte a loro volta di un gigantesco incremento del deficit pubblico approvato nonostante la crescita record del tasso d’inflazione; frattanto, perfino la poderosa macchina da guerra a stelle e strisce sta incontrando difficoltà nel rispondere all’emergenza, con le scorte di armi gravemente intaccate e la produzione ancora troppo lenta per rifornirle. Proseguendo di questo passo, entro la fine dell’anno gli USA spenderebbero l’equivalente di quasi un quarto del loro budget per la difesa, e darebbero altresì fondo alle citate riserve.
Per l’Europa la questione è invece anzitutto politica. Il notevole sforzo compiuto per presentare un’immagine di compattezza è riuscito solo in parte a mascherare le evidenti fratture nel blocco UE, ancora una volta alla mercé dei giochi di potere franco-tedeschi: sia la Francia che la Germania seguono sul dossier ucraino una linea autonoma, ciascuna orientata da interessi geopolitici ed economici in aperto contrasto con quelli di Bruxelles. Se Macron guarda al conflitto come ad all’ennesima opportunità per affermare la primazia diplomatica e militare francese in seno all’Unione, Scholz tentenna nel malcelato intento di mantenere aperti gli importanti canali commerciali con la Russia, forte da par suo di una preponderanza sul mercato energetico europeo che ha finora parzialmente blandito tutte le iniziative comunitarie — ultimo in ordine di tempo l’embargo sul petrolio — nei suoi confronti. Preoccupa infine la Turchia, che al netto di serissime problematiche economiche vede il proprio equilibrismo in politica estera nuovamente premiato da una centralità inedita tanto nelle trattative con il Cremlino, quanto nella NATO, ove tutto fa pensare che le spetterà l’ultima parola sull’ingresso di Svezia e Finlandia; esiste la possibilità che la Sublime Porta riesca ad accreditarsi la soluzione di una questione eminentemente europea, scalzando Washington — che con Erdogan è ormai ai ferri corti — dal proprio ruolo di arbitro del Vecchio Continente.
Che fare, dunque? La domanda ha dei connotati quasi euripidei; le opzioni a nostra disposizione sono poche e tutt’altro che ottimali. Escluso a priori un intervento diretto, potremmo scegliere di proseguire con la strategia attuale, rimodulata in modo tale da dotare l’Ucraina di una maggior potenza di fuoco e livellare così una disparità di forze che, nell’attuale contesto di attrito, sarebbe altrimenti insormontabile. Sebbene diversi Paesi — inclusa l’Italia — abbiano deciso per un incremento quantitativo e qualitativo delle forniture di armamenti, esse da sole potrebbero non bastare a rompere lo stallo; ne è consapevole per primo Volodymir Zelensky, le cui reiterate richieste di far arrivare sul fronte delle batterie MLRS (Multiple Launch Rocket System) hanno però suscitato l’apprensione degli alleati. Vi è timore non tanto della paventata risposta russa, quanto della possibilità che tali sistemi vengano impiegati in un tentativo di riconquistare il Donbas e la Crimea, esacerbando (e prolungando) lo scontro. In definitiva, senza la certezza che armi nuove e più potenti possano sbloccare la situazione a favore di Kiev il rischio è di ritrovarsi entro breve al punto di partenza, stante l’intensificarsi dei combattimenti e degli attacchi missilistici russi sui civili che sarebbe il risultato pressoché inevitabile di una policy simile.
Rimane allora l’ultima spiaggia del negoziato. Le ultime vicende belliche paiono aver ammorbidito Zelensky, che in più occasioni ha fatto appello ad una trattativa come unica strada percorribile per mettere fine alla guerra. Ma è una strada in salita: difficile credere che Mosca sia disposta a rinunciare al vantaggio tattico acquisito, tanto più che le aperture diplomatiche mancano al momento di reale concretezza — forse perché ci si è resi conto che per il dialogo è troppo tardi. Soddisfatte le proprie istanze territoriali con l’annessione pressoché definitiva delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Luhansk e il rafforzamento del controllo sulla Crimea, è probabile che in cambio della pace il Cremlino pretenda delle garanzie di natura politica. Quali che siano — ipotizziamo la neutralità ucraina con conseguente disarmo — concederle significherebbe accettare un’influenza che l’Occidente ha a lungo lavorato per erodere, facendo leva anche sul principio dell’autodeterminazione, il quale ne uscirebbe assai sminuito insieme all’intero ordine internazionale che vi poggia. Soprattutto, ciò equivarrebbe ad un tacito riconoscimento della Russia come polo geopolitico alternativo agli Stati Uniti, e dunque del multipolarismo tout court; una condizione inaccettabile per Washington, il cui impegno in Ucraina ha come fine ultimo proprio il mantenimento di un’egemonia globale sotto attacco da più di un lato. La Casa Bianca guarda anche all’Asia Orientale: Biden e i suoi sanno che vacillare in Europa inviterebbe la Cina a mettere alla prova la loro risolutezza nel difendere gli interessi americani nella regione, Taiwan in primis.
Prevedere cosa decideranno le grandi potenze dell’Ovest è ad oggi impossibile. Proseguire una guerra dall’esito incerto o cercare una pace umiliante: chiamate a scegliere tra questi due mali, potrebbero infine non decidere affatto, contentandosi di aver provato mentre un sole rosso sangue gli tramonta, spenglerianamente, davanti. Ad Est.