Dopo i fatti di Washington del 6 gennaio scorso, con l’assalto al Campidoglio da parte di alcuni fanatici sostenitori di Trump, in molti si sono interrogati sullo stato della democrazia, americana e non solo, di fronte al populismo. Se certi episodi si manifestano, è ingenuo addebitarli soltanto alla responsabilità, pur marcata, di una sola persona. Qualcosa di più ampio e grave sta covando sotto. E non da oggi, perché gli Stati Uniti stanno vivendo con una frequenza sempre più intensa esplosioni di violenza urbana, non sempre arginabili nell’arco di poche ore, come è infine accaduto con l’occupazione del palazzo del Congresso.
Chi ha parlato di diseguaglianze sociali alla base di quanto accaduto nella capitale federale statunitense è stato liquidato con aspre critiche perché avrebbe sostanzialmente avallato quanto accaduto. Eppure, quando si verifica un’alluvione non sempre si riesce a spiegarla soltanto con piogge di particolare durata ed intensità. Oltre alle caratteristiche del territorio e ai fenomeni meteorologici, alcuni interventi umani, oppure omissioni, aumentano il rischio alluvionale. La prevenzione può ridurre questo rischio. Proprio la lungimiranza è una preziosa virtù politica, merce che si fa sempre più rara, anche perché non la si vende a buon mercato, ma solo dentro un sistema di educazione rigidamente istituzionalizzato, refrattario alle mode, severo ed esigente.
Se in America la cultura politica sostanzialmente annaspa, l’arte sta da tempo intercettando il crescente disagio di una società sempre più depressa, incattivita e conflittuale. La forma d’arte ancora viva negli Stati Uniti è il fumetto, assieme a certo cinema non ancora asservito alla logica neopuritana del politicamente corretto o neolibertina dell’intrattenimento istupidito. Sempre per ribadire come la letteratura di fantasia sia oggi capace di fornire, meglio di altri generi, degli strumenti di interpretazione e comprensione di alcune dinamiche in atto nella società occidentale contemporanea, lasciatemi tornare ad un film uscito nelle sale italiane nell’autunno 2019, dopo essere stato premiato con il Leone d’oro alla 76ª Mostra del cinema di Venezia. Sto parlando di Joker, ispirato al personaggio fumettistico della DC Comics.
Partiamo dalla trama. Si narra la genesi del più irriducibile nemico di Batman, sul come e perché sia diventato un criminale. La rilettura del tutto inedita del Joker produce inevitabilmente un ripensamento anche della figura di Batman, del suo ruolo, della sua funzione nella società di Gotham City. Ma proseguiamo con ordine. La considerazione iniziale che emerge dalla visione del film è la distinzione tra malato e malvagio. Prima di diventare il nemico numero uno di Batman, Joker è un anonimo Arthur Fleck, individuo alienato con forti disturbi psicotici che riesce a malapena a tenere in equilibrio attraverso l’assunzione di ben sette diversi psicofarmaci ed una seduta settimanale presso una depressa assistente sociale fornita dal servizio sanitario pubblico (che verrà poi bruscamente licenziata per improvvisa mancanza di fondi). Arthur vive con l’anziana madre Penny nei bassifondi della città, in un palazzo che ricorda ora un carcere, ora delle strutture fatiscenti post-apocalittiche da 1997: Fuga da New York di Carpenter (tra parentesi: film del 1981, stesso anno in cui si ambienta questo Joker) e un po’l’Overlook Hotel dello Shining di Kubrick.
Arthur sogna di diventare un cabarettista famoso, acclamato dalle folle televisive. Nel frattempo sbarca il lunario come clown per una ditta che lo manda a fare pubblicità per negozi oppure presso gli ospedali pediatrici, come una sorta di Patch Adams. Non è dunque un cattivo di natura, ma solo un malato che cerca aiuto in ogni modo, e in ogni dove. La società di Gotham City è lacerata da profonde e crescenti diseguaglianze sociali, da un’élite politica ed economica sempre più distante dalla gente comune, un’élite che disprezza il popolo, anche quando si tratta di persone autorevoli e pubblicamente rispettate come imprenditori illuminati e mecenati (tra cui Thomas Wayne, il padre di Bruce, il futuro Batman).
È talmente malmessa, questa società, che non può curarsi di uno come Arthur e di tantissimi altri come lui. Una società molto hobbesiana, che stimola tutti ad essere lupi mannari gli uni a danno degli altri, ma anche una società corrotta fin nelle midolla, tenuta a malapena assieme da una legge sempre meno uguale, generale ed astratta. Comandano i ricchi, insomma. Dunque è la società ad essere malvagia. È la società che renderà malvagio il malato Arthur. Lo trasformerà in Joker. E fin qui la filosofia che anima la prima parte del film non entusiasma. Tutt’altro. Hobbes da una parte, Rousseau dall’altra. Uomini buoni, istituzioni cattive. Gli ipocriti comandano, gli ingenui subiscono. Oppure: tutti cattivi, nessuno innocente, se non forse il futuro criminale dei criminali. Niente di nuovo sotto il sole. Tesi già sentite, scene già viste, si dirà. In parte è così. C’è però una torsione a metà del film, e c’è soprattutto il contesto storico in cui questo film appare. Contesto odierno, intendo: statunitense, europeo, occidentale.
Senza anticipare nulla del prosieguo della trama, accenno solo al fatto che la personale crisi di Arthur e la sua malattia mentale intercettano la rabbia che cova tra i ceti meno abbienti, che cresce di anno in anno, mai arrestata e anzi inconsapevolmente alimentata, presso ceti medi sempre più impoveriti. Risentimento che predispone alla cattiveria, a rispondere con la violenza ad una società che viene lasciata scivolare nella violenza, sempre più gratuita (vedi l’episodio dei ragazzini e del pestaggio con cui si apre il film). Insomma, assistiamo a due disagi che, trasformatisi in rabbia, si incontrano come la miccia detonante che s’innesta in un ordigno esplosivo. L’alienato che diventa, suo malgrado, il leader carismatico della società del rancore (di cui il Censis, venendo all’Italia, sta parlando sempre più insistentemente nei suoi ultimi rapporti annuali, almeno dal 2018). La scintilla che accende la miccia.
A questo punto la rabbia sociale s’identifica con la violenza omicida del disturbato psicotico, peraltro casualmente scatenata dall’arroganza e dalla prepotenza di giovanotti yuppie vestiti in giacca, cravatta e in possesso di alcol e droghe. La vittima, della società e di sé stessa, si ribella. Ecco così che, colpendo l’élite che sta bellamente tradendo la democrazia, il Joker diventa qualcosa di molto simile ad un eroe. Il film vi allude, più o meno velatamente. È una sorta di eroe populista che, con la propria schizofrenia (peraltro – così pare – generata da un’infanzia maltratta, violentata), consente ad un disagio sociale, fino a quel momento disarticolato, di potersi aggregare rapidamente e diventare così movimento, protesta di massa (peraltro con maschere, e qui c’è tutta l’ironia della storia per le assonanze con le tragiche vicende che, nelle stesse settimane di programmazione di Joker nei cinema italiani, stavano travagliando Hong Kong e i giovani oppositori alla stretta della dittatura cinese).
Evidente e di facile, immediata comprensione è il messaggio di fondo. La società, o coloro che la rappresentano nelle istituzioni ai vari livelli, dal più basso al più alto, si è mostrata così sorda alle sofferenze e alle richieste d’aiuto che anche uno psicotico criminale risulta infine simpatico allo spettatore del film e credibile punto di riferimento, dentro la trama, per cittadini inascoltati e abbandonati. Due crisi di abbandonismo, quella di Arthur e quella della cittadinanza comune di Gotham City, che si abbracciano tra le fiamme della rivolta urbana. A questo punto il problema passa a Bruce Wayne. Dove trovare legittimità alla propria scelta di combattere il crimine, quella che lo porterà a vestire i panni di Batman? Si tratterà solo di vendetta personale, anche qui trasformata in giustizia a vantaggio dei più deboli?
Già Christopher Nolan aveva saputo ben cogliere il lato oscuro dell’uomo pipistrello, ma dopo questo Joker la figura del cavaliere nero andrà comunque ripensata. E, passando ad un piano più squisitamente politologico: se una società scardinata finisce per legittimare, o comunque offrire argomenti potenti di grande efficacia persuasiva ad una rivolta illegale violenta e selvaggia, cosa dovrà fare chi intende difendere la rule of law liberal-costituzionale senza con questo voler conservare una situazione esistente che si sa inequivocabilmente e profondamente corrotta? Come riequilibrare un assetto sociale che fornisce possenti e radicate ragioni ad una furia irrazionale che può ritrovarsi a cavalcare una massa di tante piccole ragionevoli eruzioni?
Tornando alla letteratura fantastica, tra mitologia e fumettistica, restano ancora due domande da consegnare al lettore. Le vicende dei supereroi sono solo una lunga catena di vendette personali, un po’come per gli dèi nell’antica mitologia greca? E può dirsi lo stesso per la storia di tutti noi, comuni mortali? Le libertà individuali creano disparità sociali, che a loro volta favoriscono superbia ed invidia, soprusi e frustrazioni. Periodicamente arriva il vendicatore e si passa ad un nuovo squilibrio. Il senso di un regime giusto sta nella ricerca di un equilibrio, tanto instabile, perché sempre minacciato dalla stessa libera natura umana, quanto necessario, proprio al fine di spezzare il ciclo della vendetta. La libertà maleducata è licenza. La libertà ammaestrata è schiavitù. Educare la libertà senza snaturarla è la sfida del nostro tempo, così illusoriamente libertario, ma sicuramente compresso e dolente.