Come scrive nel suo libro, ogni volta che l’Italia “incappa in una delle sue ricorrenti crisi di governo, sono in molti a vedere per Draghi qualche incarico a Palazzo Chigi o al Quirinale”. Questo momento è arrivato. Nel 2011, Mario Draghi co-firmò la durissima lettera di Jean-Claude Trichet inviata all’Italia, oggi Mario Draghi sale a Palazzo Chigi, a dover programmare il Recovery Plan. È cambiato Mario Draghi o è cambiato il contesto europeo in cui si muove?
Più di quanto sia o non sia cambiato Draghi, è anzitutto cambiato il contesto europeo in cui Draghi si muove. Dieci anni fa quando venne scritta quella lettera non c’era traccia dell’Europa di adesso e della capacità europea di rispondere alle crisi. Non esisteva il MES, erano quasi impensabili gli acquisti dei titoli di stato da parte della Bce, non c’era il Next Generation Eu né la supervisione bancaria. I passi di integrazione europea, che hanno reso la struttura più solida e interconnessa, non erano ancora stati fatti. Il momento attuale permette anche all’Italia di avere una posizione diversa. Come diciamo nel libro, la lettera firmata da Trichet e Draghi, fu scritta proprio in ragione dell’assenza della struttura che oggi conosciamo; la Bce non disponeva della base legale per comprare i titoli di Stato, arginando così l’aumento dei tassi. La lettera – una decisione unilaterale della Bce – permetteva questa spiegazione interna: noi faremo questi acquisti, ma ci aspettiamo che l’Italia faccia determinate cose. Questo era lo schema rozzo, embrionale, di quel che poi è stato costruito da Draghi stesso con il MES e da Draghi stesso con l’OMT, ovvero l’Outright Monetary Transactions; lo strumento della Bce che traduce in pratica il famoso whatever it takes, con la Bce che – in determinate condizioni – può comprare illimitatamente titoli di Stato dei Paesi dell’Eurozona, così da scoraggiare qualsiasi attacco speculativo. Una delle condizioni affinché ciò accada è che il Paese sia all’interno di un programma di aggiustamento da parte del MES, quindi c’è una condizione oggettiva, regolata, con l’accordo di tutti i Paesi membri.
Il “whatever it takes” proferito al Global Investement Conference a Londra nel luglio del 2012, lei lo descrive come “l’immagine paradigmatica di un nuovo attivismo dei banchieri centrali pronti a colmare il vuoto di leadership nei momenti cruciali”. Come si potrebbe trasformare l’ormai proverbiale “tutto il necessario” nel contesto che ha appena descritto?
È un punto interessante, perché a quell’epoca il whatever it takes lo dicevano i banchieri centrali, dal momento in cui i ministri delle Finanze o i capi di Stato non avevano il coraggio di dichiararlo così esplicitamente, oppure non avevano gli strumenti per farlo. Come raccontiamo nel libro, va comunque ricordato che prima di quelle tre incisive parole, Draghi aveva aspettato che gli arrivasse il segno tangibile di un impegno reale a proseguire nel progetto della moneta unica da parte dei capi di Stato dell’Unione Europea. In quel caso fu la decisione di mettere in comune la supervisione bancaria, all’epoca uno degli aspetti più importanti e preziosi per i governi. E questo fu, come si usa dire, il “backing” politico del whatever it takes. Oggi, davanti alla crisi dovuta alla pandemia, il whatever it takes, più che dalla Bce che comunque – dopo qualche esitazione di Christine Lagarde – ha fatto la sua parte con gli acquisti illimitati di titoli di stato che hanno calmato i mercati, la vera risposta strutturale, quella che ha invertito la crisi, è arrivata questa volta dai politici, dall’Unione Europea, dalla commissione, e dai capi di stato, con il Next Generation Eu e il Recovery Fund. E soprattutto con la decisione senza precedenti per cui la Commissione, cioè gli Stati dell’Ue, raccolgono fondi sul mercato a prezzi molto convenienti, e poi passano questi soldi, una parte a fondo perduto, agli Stati membri. Ecco, volendo si può dire che davanti alla pandemia, il whatever it takes lo hanno detto gli Stati e non è stato più necessario per i banchieri centrali assumersi questo ruolo. In sostanza, la lezione della crisi del debito sovrano e poi della crisi greca, in cui ci si aspettava che a “salvare la giornata” fossero i banchieri centrali, è stata imparata.
Una frase di Draghi recita; “più invecchio, più mi accorgo che non c’è nulla che cambi come il passato”. Quanto, secondo lei, è rimasto in Draghi dei suoi anni alla Sapienza al fianco del professore keynesiano Federico Caffè?
Come ogni essere umano, Draghi è cambiato, ma secondo me molto di quegli anni è rimasto. Draghi ama spesso citare una frase generalmente attribuita a Keynes: “When facts change, I change my mind. What do you do, sir?”, tradotta; quando cambiano i fatti, io cambio le idee. Draghi è stato sicuramente a favore dell’austerity durante la crisi del debito sovrano, è stato a favore dell’interventismo delle banche centrali perché lo ha praticato in prima persona, però chiedendo con forza che fossero gli Stati, le politiche fiscali, ad intervenire. Adesso da Presidente del Consiglio dirà cose in parte simili e in parte diverse, perché rappresenta uno Stato e non tutti gli Stati dell’Eurozona. Mi sembra un’evoluzione coerente. Per esempio, nella distinzione tra debito buono e debito cattivo; Draghi crede che per rispondere alla crisi provocata dalla pandemia, che lui paragona esplicitamente alla guerra, non bisogna aver paura di far debito, di spendere, perché è necessario salvare prima di tutto l’economia, ovvero salvare i posti di lavoro, evitare che le persone perdano di che vivere, rimangano fuori dal mercato del lavoro per un periodo troppo lungo da sostenere. Questa distruzione permanente deve essere evitata. Pur rimanendo al passo con i propri tempi, questo è un tratto di continuità rispetto alle sue origini intellettuali.
“Super Mario, il più tedesco tra gli italiani, il salvatore dell’euro e oggi della Patria, Draghi con il suo bazooka”. Cosa ne pensa di questa narrazione? Ma soprattutto che giudizio ha del riposizionamento repentino della stampa italiana, da Conte a Draghi?
Non ho un giudizio sulla stampa italiana se non per il fatto che i giornalisti, soprattutto quelli che arrivano a stretto contatto con il potere e magari in parte ne dipendono anche economicamente, ascoltano sempre, almeno all’inizio, con particolare attenzione e anche una punta di indulgenza il rappresentante del potere dell’ordine costituito. E, per molti versi, è anche giusto che sia così; le istituzioni vanno rispettate. Sicuramente c’è adesso una narrativa miracolosa, come ci fu con Monti, che rischia di creare aspettative irrealisticamente alte e che quindi vengono poi facilmente deluse.
E invece, la narrazione inversa che da di Draghi l’uomo del Britannia, delle privatizzazioni e della finanza internazionale?
Draghi è oggettivamente un uomo della finanza internazionale; è stato presidente della Bce, ha lavorato alla Goldman Sachs. È dalla metà degli anni Ottanta che Draghi ha un ruolo di spessore all’interno dell’élite finanziaria internazionale. Chi contesta il Britannia lo fa seguendo una propria visione del mondo, per cui episodi come quelli del Britannia sarebbero da associare a un qualcosa di ambiguo. Chi invece crede – come anche Draghi – che la libera circolazione di merci, di idee, persone e capitali, in un ordine internazionale aperto e governato da regole condivise da tutti, non sia una congiura internazionale, ma uno schema capace di creare condizioni realistiche per la prosperità di tutti (e dove chi è più abile possa avere qualcosa in più, come è giusto che sia), vede l’essere membri della finanza internazionale non come uno stigma, ma come una posizione del tutto legittima.
La BCE si sta ora (e aggiungiamo, finalmente) comportando come tutte le banche centrali del mondo, eppure il precedente governo non ha realmente “sfruttato” questa opportunità. In che modo Draghi può sfruttare questo cambio di rotta?
In questo momento, ma già da anni, la Banca Centrale Europea fa una cosa fondamentale per l’Italia; con i suoi acquisti garantisce una stabilità ai titoli di Stato, e rende improbabile spirali di aumento dei tassi, anche di fronte a crisi politiche – come quella che c’è stata recentemente – o anche alla crisi iniziata a marzo quando tutto il mondo è entrato in lockdown. L’Italia senza questa rete di sicurezza sarebbe molto più fragile, e questa rete l’ha contribuita a metter su Draghi, non con l’obiettivo di farlo soltanto per l’Italia ovviamente, ma – svolgendo il compito di presidente della Bce– per cercare di creare le condizioni economiche giuste per l’Eurozona. Sinceramente non sono d’accordo nel dire che il precedente governo non ha realmente “sfruttato” questa opportunità; credo che, in questo, il governo precedente non abbia peccato in modo particolare, a marzo per esempio ne ha beneficiato. Ma, senza dubbi, se c’è una persona che sa bene come funzionano questi meccanismi è Draghi; conosce alla perfezione i limiti come le possibilità di questa situazione.
Nel suo libro scrive; “la sua attenzione al dettaglio è tale che Draghi non smette mai di sorprendere i collaboratori con la capacità di porre l’unica domanda alla quale i loro meticolosi memorandum non sono in grado di rispondere”. Chi sono i fedelissimi (e stimatissimi) da Mario Draghi che potrebbero avere ruoli di primo piano e di cui sentiremo parlare?
I fedelissimi di Draghi sono i nomi che girano; Daniele Franco, al suo fianco a Banca d’Italia, Dario Scannapieco, Fabio Panetta e altri. Sono tutte possibilità, anche probabili. Una cosa importante però su questo punto è che Draghi ha sempre lavorato portandosi dietro uno staff molto ridotto, magari ha continuato a sentire persone dai suoi incarichi precedenti, ma il suo metodo non è mai stato quello di portarsi con sé una struttura da sovraimporre a una struttura preesistente. Finora basti vedere come ha lavorato alla Bce o in parte anche in Banca d’Italia; si è sempre misurato con la struttura preesistente, prendendosi il tempo per capirla e in caso adoperando alcuni cambiamenti, dove ce n’era bisogno. Per intenderci; non è un uomo da “spoils system”. È presumibile, vista l’urgenza delle cose che ci sono da fare, che si comporterà così anche al governo, anche se naturalmente non si può mai sapere.
La fiducia che i mercati hanno in Draghi, indicata immediatamente dai dati sullo spread, potrà porre fine al dibattito sul MES, che per i suoi sostenitori era più vantaggioso principalmente poiché i tassi d’interesse erano lievemente più bassi di quelli del mercato?
I tassi del MES rimangono comunque più vantaggiosi di quelli che può avere l’Italia sul mercato, in maniera considerevole, anche se naturalmente molto meno rispetto a prima. La questione è: se il MES è diventato, probabilmente a torto, un argomento che divide estremamente la politica italiana, Draghi deciderà di combattere questa battaglia oppure deciderà di farne altre? Se ci si trovasse in una situazione in cui l’utilizzo del MES fosse capace di liberare risorse indispensabili per altri capitoli di spesa, allora immagino che – come sarebbe logico – potrebbe essere preso. Il punto è capire se si arriverà in un momento di costrizione di questo genere.
Per ora, la volontà di Draghi sembra quella di formare un governo che non sia puramente tecnico. Senza dimenticare che il 2021 non è il 2011, ciò lo distanzia dal governo Monti. Cos’altro cambierà?
La differenza di congiuntura tra Draghi e Monti riguarda anzitutto la differenza dell’entità del problema; Monti doveva attuare politiche economiche di austerity, doveva aumentare le tasse, tagliare le pensioni; misure che servivano a riacquistare una credibilità completamente persa, dello Stato italiano sui mercati internazionali, da cui dipendiamo tutti per finanziarci. Ciò in un momento difficilissimo di crisi che sarebbe continuato fino all’estate del 2012, quando Draghi per l’appunto disse whatever it takes. Attorno, molti investitori scommettevano contro la sopravvivenza dell’euro. Oggi, Draghi si trova a fare il primo ministro in un momento diametralmente opposto; il problema non è avere risorse da spendere, ma trovare la capacità di progettazione e di esecuzione per spendere bene soldi che ci sono. Il suo obiettivo è stimolare l’economia, non certo adoperare nuovi tagli. Nessuna delle due azioni è facile, ma l’ottica completamente diversa contribuirà a cambiare, nei mesi a venire, la percezione del governo Draghi rispetto al governo Monti. Il governo Draghi, rispetto al governo Monti, sarà meno portato ad incontrare un repentino cambio d’umore popolare, che la disparità tra aspettative e risultati creò nei confronti di Monti. Questo non significa che sarà più facile; anche su Draghi vertono molte aspettative, i soldi da spendere sono tanti, e quando ci si renderà conto che questi soldi vengono assieme a riforme difficili, a progetti a lungo termine per cui non si vedono subito i risultati, potrebbe esserci un’ondata di insoddisfazione. Le attese messianiche non vengono mai realizzate, però ci troviamo dinnanzi a un ordine di aspettative diverse rispetto alle sfide di Monti.
Draghi ha tenuto in piedi il vecchio sistema finché c’erano i margini per farlo. La sensazione è che oggi il dogma del pareggio di bilancio, porterebbe ad un’implosione con conseguenze estreme. Non trova che oggi Draghi abbia come unica possibilità per salvare l’integrità delle economie europee, quella di cambiare totalmente le regole del gioco, generando il paradosso di approdare a soluzioni di gran lunga più in linea con chi fino ad oggi nutriva nei confronti dell’euro-scetticismo?
Non sono pienamente d’accordo su questo punto, sul fatto che il dogma del pareggio di bilancio potrebbe ad un’implosione. È tutta una questione di congiuntura attuale, in questo momento, e Draghi l’ha detto, non avrebbe senso, sarebbe contro produttivo, e alla lunga indebolirebbe l’economia. Poi, c’è un dibattito più ampio a livello europeo sulla revisione di queste regole di bilancio e Draghi – se rimarrà in carica abbastanza a lungo – avrà sicuramente una parte in questo dibattito. Ma la vera questione, sostenuta anche da Draghi nel discorso di Rimini, è che adesso bisogna spendere. Ma non dimentichiamoci che questo debito da qualcuno verrà ripagato, e verrà ripagato dalle generazioni giovani. C’è il compito di spendere bene, ma anche di creare con questa spesa un’economia dinamica e che cresce per chi in futuro dovrà ripagare quello che si è speso.
La sua personalità da leader – ben descritta nel suo libro – è indubbia. Draghi è riuscito a far apprezzare a chiunque la retorica dell’uomo solo al comando, sempre osteggiata da chi oggi lo incensa. Un altro suo “potere” è stato quello d’aver fatto crollare tutto d’un colpo il racconto mainstream di Giuseppe Conte quale grande statista dei nostri tempi. La psicologia e l’economia sono più legate di quanto non si creda, di cos’altro sarà capace Draghi?
Questo non lo so, sono sempre scettico per deformazione professionale, anche di una persona di indubbia capacità com’è Draghi. La realtà non sarà mai all’altezza di aspettative messianiche, se non in una prospettiva escatologica, per metterla sul ridere, quindi non so di cosa sarà capace. Quello che si può dire, in maniera abbastanza ragionevole e realista, è da rintracciare nel suo breve intervento dopo l’incarico conferitogli da Mattarella. Draghi ha indicato una serie di priorità non minimaliste, ma di certo non un vasto programma. Fermare la pandemia, attuare un serio piano di vaccinazione, spendere bene i soldi europei, rilanciare l’economia senza dimenticare la coesione sociale. Ecco, secondo me, questo mantenere una prospettiva abbastanza limitata, che per esempio non tocca affatto le questioni delle annose riforme costituzionali, che sono costantemente nell’agenda politica italiana e sono un cantiere mai finito, è una prospettiva più pragmatica. Fare quello che si può fare invece che cercare di fare tutto, è un modo realistico per affrontare i problemi, ed è compatibile con i suoi precedenti.
Un’intervista a cura di Maria Castellitto e Sebastiano Caputo