Oggetto di un’attenzione speciale da parte del governo Meloni, il Made in Italy e la promozione del prodotto italiano nel mondo sono stati caratterizzati da interventi apparentemente mirati. Dall’idea di un Liceo del Made in Italy, all’istituzione di uno specifico Ministero delle imprese e del Made in Italy. Tali provvedimenti, uniti alla crescente attenzione di Confindustria alla esportazione del genio italiano all’estero, ad esempio con il recente trasporto dei disegni delle macchine e delle invenzioni di Leonardo da Vinci in esposizione negli Stati Uniti, rappresentano certamente dei significativi segnali a sostegno di una più decisa esposizione dello Stato a protezione del comparto culturalmente ed economicamente più significativo dell’Italia.
Tuttavia, come si evince anche da talune critiche piovute dalle opposizioni ma anche dalle realtà direttamente toccate dalle iniziative del governo, quali le scuole e in particolare i licei economico-sociali quasi “spinti” a riconventirsi in licei del Made in Italy, tali iniziative peccano di un eccesso di retorica e di una carenza di sostanza. Specialmente, se di promozione di un elemento fondante l’identità italiana si deve parlare, dal governo che più di ogni altro, da decenni, sottolinea di incarnare tale identità, sembra che il sostegno al Made in Italy sia ancora poco più che di facciata. L’istituzione del nuovo liceo appare arrangiata. Oltretutto, un’iniziativa praticamente a costo zero – come da tradizione in decenni di depauperamento della scuola italiana – che appare anzi lesiva nei confronti di altri indirizzi liceali. Peraltro con un comparto di materie umanistiche, necessarie e funzionali ad una reale promozione della cultura e dell’identità stilistica ed economica italiane, del tutto insufficiente e addirittura inferiore a quelle di altri licei – come si deduce dalle ore destinate allo studio della storia dell’arte.
E se l’istituzione di un ministero specifico appare anch’esso poco più che propagandistico (al pari del Ministero del mare, laddove la presenza marittima italiana è quantomeno irrisoria), manca una visione d’insieme strategica. Manca persino, al di là di macchiette nazionaliste che non hanno poco o niente a che vedere con l’afflato culturale, storico, geografico della cultura italiana, un autentico sostegno all’impresa quale perno geopolitico, economico e culturale che in uno Stato profondamente post-storico ovvero, tra le altre cose, privo di altri strumenti di influenza e totalmente incluso nella sfera americana, è quantomai decisivo.
Come scrive Romano Benini ne Lo stile italiano, si può analizzare la profondità dello stile italiano a partire dalla sua storia, contraddistinta sin dagli Etruschi, passando per i Romani e poi per la grande civiltà italiana medievale e moderna, dalla ricerca della bellezza e dal legame tra quest’ultima e il benessere dell’uomo. Una tensione che è profondamente esistenziale, che trova agganci con le fondamenta stessa del pensiero filosofico occidentale. Così nel De Monarchia Dante Alighieri sottolinea come l’etica dell’operosità e del lavoro si connettono, già a partire dal Medioevo, con una più profonda riflessione, con una vita activa che oltre a rendere l’uomo creatore al pari di Dio, si connette alla ricerca del benessere proprio e dell’intera comunità. Il tutto unito ad una ricerca estetica che non ha avuto storicamente eguali nel mondo.
Non è solo e non è tanto il raggiungimento del profitto a caratterizzare l’umanesimo economico italiano, quanto una vera e propria spinta alla realizzazione di sé. Come individui e come cittadini. Il capitalismo italiano, originatosi nel clima vivace dei Comuni e poi delle Signorie e degli Stati Regionali tardo medievali e moderni, più alla ricchezza come obiettivo ultimo, si rivolge dunque alla combinazione di quest’ultima con la cultura e le relazioni sociali. Si traduce nella costruzione di una civiltà raffinata, quella rinascimentale, in cui la prosperità e lo sviluppo artistico andavano di pari passo. Un capitalismo destinato tuttavia ad essere sovvertito dalla linea calvinista-settentrionale, dall’affermazione della borghesia nord-europea, dal trionfo della rivoluzione industriale anglosassone e della produzione in massa. Se l’economia artigianale italiana, diretta emanazione del rigoglio artistico del Bel Paese, è figlia di un’ostentata affermazione della propria personalità, il consumo di massa annulla tutto in favore dell’omologazione. Alla bellezza subentra l’efficienza. L’etica e l’estetica, unite dalla cultura e dall’arte italiane, vengono in questo modo separate. Questo processo ha interessato l’Ottocento e, specialmente, la prima metà del Novecento europeo. Solo a partire dalla crisi petrolifera degli anni Settanta, che mette in difficoltà buona parte della grande industria euro-occidentale e dunque italiana, la risposta economica del Bel Paese è quella di una progressiva riscoperta e valorizzazione dell’impresa artigianale, fatta di piccole e medie imprese, spesso e volentieri a conduzione familiare e profondamente radicate sul territorio.
Connesso alle secolari e millenarie stratificazioni che dalla cultura etrusco-romana, dal pensiero filosofico antico, cristiano e umanistico-rinascimentale, al saper fare che dal tessile, passando per la metallurgia, la produzione di vetro, carta, automobili per arrivare ovviamente al settore enogastronomico, si afferma il Made Italy. Diviene, anzi, la ragione della potenza manifatturiera italiana, legata oggi a doppio filo a quella tedesco-renana, eppure in grado di esprimere, con meno risorse e con l’atavico problema dei rifornimenti energetici, una poderosa capacità di innovazione; in grado di rispondere persino alla sfida quantitativa ed alienante sul modello di Amazon o Deliveroo. Con l’obiettivo di valorizzare ulteriormente il fattore umano. Storia, territorio e cultura, sono dunque i tre pilastri di questo primato italiano. Connaturati all’anima stessa degli italiani, in grado di esprimere nella propria capacità di adattamento, nel proprio pragmatismo e nella propria operosità delle vette forse ineguagliabili nel campo dello stile e del buon vivere. Il che ha permesso all’Italia di dettare, priva della potenza politica e militare, il proprio stile e il proprio gusto a tutto il mondo.
Impossibile da separare dal proprio territorio e dalle proprie maestranze, il Made in Italy è la pura passione sottesa a qualsiasi calcolo meramente imprenditoriale e razionale. Come sostiene Benini, «Essere consapevoli del senso e della grandezza dello stile italiano, significa comprenderne le implicazioni profondamente umane». Si tratta di un modo di produrre su piccola scala, che appare più in grado di rispondere alle sfide ambientali, più resistente al cambiamento e maggiormente adatto a recuperare quel senso di umanità e di umana bellezza oggi sepolte dai luoghi e dai prodotti alienanti del tardo capitalismo. Significa sostituire la quantità con la qualità. Significa, infine, recuperare contatto con il territorio e con i propri concittadini, giacché il gusto italiano è specialmente condivisione e comunità, è – per citare ancora Benini – il «far bella figura», essere in grado di valorizzare la propria individualità. Lo stile italiano è anche Il Galateo o Il Cortegiano. Significa attenzione alla salute – senza la quale non sarebbe spiegabile l’altissima aspettativa di vita – nell’alimentazione e nella vita urbana, pur sconvolte dalla moda del fast food e dal turismo di massa.
Sostenere il Made in Italy, più che in pomposi elogi e in retoriche iniziative, significa sostanzialmente esaltare il carattere “geniale” di ogni individuo, assecondando le basi culturali già esistenti e perpetuando la tradizionale capacità italiana di ibridazione culturale e di apertura internazionale, senza perdere contatto con le proprie radici. Significa valorizzare la propria lingua, una delle poche al mondo in grado di “manifestare e spiegare in modo pieno ogni forma di emozione, pensiero e riflessione”, molto più del tanto amato inglese. Così i licei italiani, emblema di una cultura e di una educazione umanistiche uniche nel loro genere in Europa e in Occidente, sono già di per sè alla base dello stile italiano, senza bisogno di ulteriori licei privi di quel bagaglio formativo e metodologico; così anche negli istituti tecnici e professionali, spesso intimamente legati alle imprese, e che costituiscono un pilastro di innovazione e di vocazione all’artigianalità e al lavoro ben fatto.
Tale formazione è tuttavia spesso svilita dalle condizioni di lavoro successive alla formazione, laddove due settori chiave come il turismo o la ristorazione, sono oggi caratterizzate dallo sfruttamento e da paghe non all’altezza. Farsi davvero promotori del Made in Italy significa dunque intervenire sulle sue storture e sulle sue zone d’ombra, farsi promotori di un turismo di qualità e attento alla preservazione della vita urbana locale, riportando al centro del dibattito l’attenzione ai cittadini di città come Firenze o Venezia, trasformate in puri parchi giochi. In un’epoca di competenze votate ad una digitalizzazione fine a sè stessa e ad una spinta all’inserimento nel mondo del lavoro monolitica, cui si associa la progressiva decapitazione ed umiliazione del comparto scolastico e l’indebolimento delle materie umanistiche, proporre dunque un liceo o un ministero del Made in Italy non sono che diversivi, se non accompagnati da interventi sostanziali. D’altra parte, la valorizzazione dell’impresa italiana di qualità passa da un ritrovato status internazionale e dalla consapevolezza del valore dell’Italia e della sua cultura nel mondo, degli elementi comunitari, culturalmente universalistici che l’hanno da sempre caratterizzata. Specialmente, intervenire sul Made in Italy significa acquisire auto-consapevolezza: Il modo migliore per esaltare il Made in Italy è di assecondare profondamente il proprio essere italiani, quale modello che vada al di là dei confini nazionali.
Un orgoglio che non è nazionalismo, ma consapevole accettazione di ciò che l’Italia e gli italiani possono dare al mondo, rimanendo semplicemente sè stessi: «La crisi dell’Occidente contemporaneo è in buona parte da vedere proprio nel suo rapporto con gli aspetti dell’identità, dell’uniformità, della bellezza e della verità. Il percorso verso l’uscita da questo disagio passa anche attraverso le regioni italiane, le botteghe artigiane, le imprese dei distretti, le produzioni della biodiversità agricola, le città nelle quali è ancora possibile trovare opportunità e insieme quell’umanità che ci fa vivere meglio.»