Denso di significati e di simboli forse al di là di ogni opera mai prodotta in Occidente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il Silmarillion è oggi tra le più complesse produzioni di J.R.R. Tolkien. Opera di cosmogonia, di epica e di mitologia. In grado di richiamarsi a molteplici tradizioni che spaziano dai miti platonici, alla tradizione norrena, che abbracciano la cultura cristiana ed ebraica e che riflettono l’animo cattolico-conservatore, nonché le sterminate conoscenze filologiche del suo autore.
Soprattutto, al pari di tutta la produzione letteraria tolkeniana, il Silmarillion non smette di parlarci: privilegio che solo le grandissime opere conservano attraverso i decenni. Tanto da essere oggetto di mistificazioni e fraintendimenti, di diventare stendardo di una fazione piuttosto che di un’altra. Celebre è ormai da qualche decennio l’appropriazione da parte di alcune destre europee e della destra italiana soprattutto, dell’eredità di Tolkien. Dai Campi Hobbit alla recente mostra sullo scrittore di origine sudafricana a Roma, attraverso due generazioni di militanti, dal Movimento sociale passando per Alleanza Nazionale e oggi Fratelli d’Italia, Tolkien è diventato veicolo identitario imprescindibile.
Spesso tali interpretazioni sono risultate in contraddizione con la stessa volontà di Tolkien. Ciò che invece permane dalla complessità del pensiero del professore di Oxford è l’ancestrale contrapposizione tra il Bene e il Male, in cui certamente il Bene è rappresentato dalla diretta emanazione – con sfumature neoplatoniche, oltreché che cristiane – di Eru Ilúvatar, Dio Unico da cui dipendono le manifestazioni angeliche dei Valar, il cui potere e la cui sapienza derivano direttamente dalla Conoscenza della cosmogonia primigenia; il Male è al contrario il puro Dominio, come Tolkien scrisse in una lettera a Milton Waldman nel 1951:
«Questo male spaventoso può nascere, e di fatto nasce, da una radice apparentemente buona, e il desiderio di fare del bene al mondo e agli altri in fretta e secondo i progetti del benefattore è un tema ricorrente.»
Uscire dal Destino deciso da Eru non significa soltanto abbandonare il disegno misterioso, che nella cosmogonica musica iniziale dei Valar resta nascosto alla conoscenza delle entità angeliche. Significa, altresì, abbracciare le forze avverse. Scambiare l’Oscurità per la Luce. Nella Terra dei Valar, a Valinor, la Luce rappresenta l’arte che non è scissa dalla ragione o dalla scienza. Privata di questo legame sacro, la Luce diviene altro. Sancisce il passaggio terrestre, lunare e solare, simboli rispettivamente dell’avvento dei Primogeniti Elfi e dei Secondogeniti Umani. Al valore della Luce per la Luce si sostituisce, infine, la brama di potere, che corrompe originariamente la stirpe degli Elfi cacciati dal Paradiso, alla ricerca disperata dei Silmarillion, unici gioielli a preservare intatta al proprio interno la Luce di Valinor. La Sapienza originaria si declina poi nella scienza di Sauron, che scimmiottando la maestria artigiana degli Elfi di Valinor, produce gli Anelli del Potere. Nella duplice offensiva di Sauron per dominare gli Elfi con gli Anelli e per corrompere gli uomini della potente Numenor, sta l’estrema lontananza delle Creature dal disegno originario di Iluvatar:
«Egli negò l’esistenza di Dio, affermando che l’Unico era una mera invenzione dei gelosi Valar dell’Occidente, semplice oracolo dei loro desideri. Il vero capo degli dèi era infatti colui che dimorava nel Vuoto, il quale alla fine di tutto avrebbe trionfato e che nel vuoto preparava dominii senza fine per i propri servi.»
Il Vuoto è la negazione stessa dell’Essere. Nel Vuoto viene rinchiuso Morgoth – soprannome di colui che era stato il più potente dei Valar, Melkor. Al Vuoto cede la potenza di Nùmenor, la più gloriosa stirpe di uomini, in cui riecheggia la mitologia di Atlantide. Cedendo alle lusinghe del Male, gli uomini già mortali vivono sempre meno e si fanno più deboli, illusi di vivere l’apogeo della propria civiltà, forti del loro progresso tecnico e delle proprie ricchezze ed esacerbati, invece, dalle violenze e dalle crescenti miserie.
La mitologia di Tolkien si fa dunque critica del potere e della volontà di potenza in quanto tali. Diviene elogio della vita, in qualunque forma si manifesti, anche in quanto caducità della stessa. La mortalità degli uomini è descritta da Tolkien come un dono, del quale gli Elfi a lungo proveranno – inutilmente – a convincere gli ambiziosi numenoreani. La mortalità, nelle parole di Tolkien, è «libertà dai cerchi del mondo», pone gli uomini al di là del tempo, addirittura rendendo invidiosi gli Elfi immortali, destinati a non lasciare mai veramente il mondo. Eppure emerge anche un altro motivo, che è la convergenza tra tradizione e dispiegamento (geo)politico della stessa. Da inglese, originario dell’estrema propaggine dell’impero britannico, il Sudafrica, Tolkien guarda al mare e all’oceano dalla prospettiva marittima della prima superpotenza mondiale. La prospettiva è tuttavia diversa dalla pura manifestazione imperiale.
I Valar, pur vivendo sull’isola di Valinor nell’Occidente estremo, divengono progressivamente estranei alle vicende della (futura) Terra di Mezzo, governata da Melkor/Morgoth, se non per intervenire in soccorso degli Elfi e per punire le smodate ambizioni dei numenoreani. Al mare guardano per primi gli Elfi. Senza presunzione di dominio, fusi con l’elemento marittimo, sintetizzano ancora quel nesso tra Scienza e Luce di Valinor. La stessa che manca a Melkor: il mare resta in effetti elemento ostile e fuori dal controllo della potenza terrestre del Signore Oscuro. Sono infine gli uomini a tentare una via – per così dire – talassocratica.
Portando inizialmente le proprie conoscenze agli uomini della Terra di Mezzo, perseguono poi nella propria degenerazione una esclusiva volontà di dominio tecnico e militare, lanciandosi infine verso la smodata ambizione di raggiungere l’Immortalità dei Valinor. Laddove la violenza diviene veicolo di Dominio e non strumento di opposizione al Male originario, con conseguente separazione tra Scienza e Fede in Eru, come avvenuto tra i numenoreani, si apre un abisso che conduce alla rovina. Destino maledetto, che accomuna Elfi, Uomini della Terra di Mezzo e Uomini del nostro tempo è per Tolkien la successiva, continua, irreperabile fuga da Eru, dall’Unico – che richiama ancora le ere di Esiodo, quelle platoniche e tutte le tradizioni dalle norrene alle indo-iraniche.
Imperscrutabile rimane il fine ultimo, presente nella mente originaria di Eru, cui solo le stirpi mortali degli uomini, al termine di tutti i tempi, di tutte le dispute, le ambizioni, i progressi apparenti, avranno accesso. Specialmente, saranno gli Uomini più modesti, come gli Hobbit della Terra di Mezzo, dai desideri meno smodati rispetto a tutte le razze vivente, gli ultimi a farsi carico della Salvezza della creazione di Eru.