OGGETTO: Requiem per i conservatori
DATA: 13 Novembre 2023
SEZIONE: Politica
FORMATO: Analisi
AREA: Italia
La questione palestinese ha messo a nudo le contraddizioni di una destra italiana che non offre alternative, mentre giura fedeltà all'atlantismo e diventa sempre più simile a quella repubblicana in stile Usa.
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«Israele ha tutto il diritto di difendersi e di contrattaccare, con l’obiettivo di mettere un nemico
bestiale nella condizione di non nuocere più. Ma ciò che più conta è che Gerusalemme si sta
muovendo mantenendo la testa lucida e rispettando le norme internazionali»

Così dichiarava Daniele Capezzone – direttore editoriale di Libero – su Il Tempo, il 14 ottobre scorso. Una settimana esatta dagli eventi del 7 di ottobre. Peccato che, nel frattempo, di testa lucida e di rispetto delle norme internazionali da parte del governo di Tel Aviv ve ne sia stato poco o nulla. L’antica battaglia della destra – o dei “conservatori” – per la difesa e la preservazione di Israele a tutti i costi e contro chiunque, ha trovato nell’ultimo mese e mezzo terreno fertile. Si è fusa con le rivendicazioni ai soliti e sempre conclamati “valori” di una civiltà occidentale in pieno scontro – o presunto tale – con un mondo islamico in ascesa. Poco importa se l’Italia sia stata sempre, tradizionalmente, e pur tuttavia in maniera contraddittoria, un Paese in grado di dialogare con le diverse anime e con le diverse sponde del Mediterraneo. Poco importa che il concetto di “scontro di civiltà”, sia un prodotto delle componenti più atlantiste dell’opinione pubblica conservatrice, traslato nei deliri della Fallaci spesso riecheggianti nei colorati programmi televisivi a trazione Rete 4:

«Illudersi che esista un Islam buono e un Islam cattivo ossia non capire che esiste un Islam e basta, che tutto l’Islam è uno stagno e che di questo passo finiamo con l’affogar dentro lo stagno, è contro Ragione.»

Parole al veleno, nutrite di una profonda misconoscenza del mondo islamico, da una profonda alterazione della percezione di un universo composito, pieno di sfumature. Il concetto monolitico di un Occidente contrapposto agli “altri” trova nel dibattito e nell’apologia unilaterale delle azioni (del “diritto a difendersi”) di Israele il proprio culmine. La destra italiana, divenuta repubblicana in stile USA, lontana dal retroterra culturale e spirituale che pur l’ha partorita, e la sinistra, più cauta ma lontane dal prendere una posizione di critica a quello che agli occhi di un’opinione pubblica vastissima è forse uno dei più gravi genocidi perpetuati nel nuovo millennio, si son rese simili e a tratti indistinguibili.

Sono lontanissimi i tempi in cui un socialista come Craxi, pur ritenendo che il terrorismo non avrebbe risolto il problema palestinese, osava ritenere “legittima” la lotta armata condotta per la liberazione della Palestina. Ancora più lontani i tempi in cui intellettuali di stampo conservatore e tradizionale, citati a sproposito e forse neanche pienamenti compresi, anziché attaccarsi alla difesa di un immaginario Occidente, ne descrivevano il tramonto e ne delineavano disillusi la caduta. C’è chi addirittura, come l’esoterista, filosofo, tradizionalista René Guénon, ha descritto più abilmente di altri la contraddizione massima insita in ogni concetto di scontro di civiltà:

«Oggi da più parti si parla molto di “difesa dell’Occidente”; ma, purtroppo, sembra che non si sia capito che è innanzitutto da sé stesso che l’Occidente ha bisogno di essere difeso, che è dalle sue proprie tendenze attuali che provengono i principali e i più formidabili pericoli che lo minacciano davvero.»

Quale “Occidente” difendono gli epigoni del pensiero conservatore? Quali “valori” difendono coloro che parlano di Spengler e del “Tramonto dell’Occidente”, come se in esso fossero contenute conferme al loro concetto di un blocco euro-atlantico in perenne lotta contro i barbari del mondo non-libero? Capezzone, Porro, Giordano, Belpietro, Sallusti, Minzolini, ma anche, su posizioni più liberali che conservatrici, Cerasa, Parenzo, o a sinistra se si guarda a Rampini, convergono in un unico calderone in cui le uniche varianti sono nelle parole e non nei contenuti. La difesa della democrazia si fa lotta alla barbarie. Si lega alla fedeltà atlantica. Si incunea nel sostegno ad Israele, quasi che l’esercito di Netanyahu abbia davvero qualcosa da spartire con i sopravvissuti all’olocausto. Quasi che i criminali di guerra fossero soltanto al Cremlino. Gli aggressori sono vittime non in quanto tali, ma per un senso di colpa collettivo, che serve a coprire interessi economici (curioso come ad Eni siano stati promessi lauti guadagni in termini di estrazione di gas presso la striscia di Gaza) ed obblighi geopolitici dati dal “vincolo esterno” della sudditanza italiana ed europea agli Stati Uniti.

Per citare il plurimenzionato e tanto frainteso Spengler, emerge come il leitmotiv sia semplicemente l’inutilità e l’impossibilità di salvare qualcosa di non salvabile. Un ciclo biologico è giunto a termine. Ciò a cui bisogna guardare non sono le manifestazioni più esteriori. La grande politica è scomparsa dai riflettori di chi deve a legami esterni di tipo economico e geopolitico, le autorizzazioni a perseguire una reale influenza nelle dinamiche interne od esterne. Si plaude al pragmatismo, all’accettazione del dato di fatto di un’economia di mercato capitalistica e liberista, all’accettazione dell’atlantismo come unica possibile strada percorribile. Se talvolta sembra sussistano differenze tra quotidiani conservatori come “Libero”, “La Verità”, “Il Giornale” e l’ultra liberale “Il Foglio”, tali differenze vanno sfumando, laddove il governo di Fratelli d’Italia, che sarebbe dovuto essere il più a destra nella storia repubblicana, accetta sostanzialmente lo status quo. Qualsiasi discorso sul rispetto dei diritti civili, sulle politiche conservatrici interne, perde consistenza e non ha improvvisamente alcuna importanza, laddove la politica estera di un governo – di qualsiasi governo – si allinea in pianta stabile alla fedeltà atlantica. Come a dire che a nessuno importa realmente che cosa faccia uno Stato dei propri cittadini, purché lo faccia da alleato degli Stati Uniti e della NATO.

Qualunque partito, qualunque leader, non può muoversi uscendo dai ranghi di tali imprescindibili concetti, in Italia come in altri Paesi europei. Un unico partito liberale diviene la forma politica necessaria dell’Occidente. Un simbolo necessario, tenuto insieme dalla tecnica e dal denaro, con poche e apparenti sfumature tutte ideologiche, incapaci di mutare la sostanza del tempo presente.

La difesa dell’Occidente si nutre allora di un’ipocrisia di fondo, della piena e totale accettazione dell’ordine prestabilito. E se i conservatori hanno imbracciato per alcuni anni il fucile degli “antisistema”, la vicenda israeliana ne ha disvelato nuovamente il bagaglio culturale, rendendoli vittima della loro stessa retorica. Avviene così che i paladini della difesa dalla censura del “politicamente corretto” tacciano dinanzi alla censura – più evidente – di contenuti e idee pro-Palestina, dell’irrisione totale nei confronti delle migliaia di manifestazioni, delle politiche poco chiare di piattaforme come Meta, in merito alla diffusione di storie e post vagamente anti-israeliani. Avviene inoltre che apostoli del pensiero reazionario, più che conservatore, come il critico d’arte “controcorrente” Camillo Langone, descrivano l’assedio di Gaza paragonandolo all’assedio del “prefetto di ferro” Cesare Mori alla città di Gangi, paragonando i mafiosi ai terroristi di Hamas chiusi a Gaza; la criminalità organizzata paragonata alla – pur violentissima – lotta armata terroristica. Con i civili palestinesi che lungi dall’essere considerati vittime di una spropositata repressione ad opera dei pilastri di quel modo liberal-capitalista tanto inviso alla cultura reazionaria – Israele e Stati Uniti – sono considerati carne di macello.

Il problema non sono le vittime palestinesi, ma l’esplosione dell’antisemitismo in Europa. Il problema non è la condizione della Palestina prigioniera nel suo stesso territorio, ma il fatto che da questa prigione sia scaturita un’imprevedibile reazione. Nel mondo al contrario – quello realmente al contrario – l’aggressore diviene una vittima. E chi è in pericolo è sempre e solo l’Occidente con la sua protuberanza israeliana. Verrebbe da chiedersi cosa ne sia stato dei timori della sostituzione etnica sul suolo europeo, laddove – nel più assordante silenzio – una sostituzione etnica vera è in corso da anni nei territori della Cisgiordania e viene preparata nella martoriata Gaza, come si evince dai documenti e dagli accordi tra Israele ed Egitto.

Magistrale è la constatazione, che Il Blast ha delineato, del totale e completo scollamento tra queste opinioni, qualunque opinione, di qualunque cultura politica ufficiale e mediatica, e una massa di milioni di persone che vanno – davvero – controcorrente:

«Salvo qualche terzopolista impenitente e qualche figlioccio della Fallaci, nessuno nel paese reale ama Israele; eppure possiamo stare certi che nessun personaggio di rilievo istituzionale sarà mai in grado di quantomeno sollevare dei dubbi sulle politiche interne israeliane.»

Si sostanzia allora il dilemma di un pensiero conservatore che lungi dal voler divenire un contro-pensiero alla cosiddetta “ideologia dominante”, pur nella modestia di molti dei suoi esponenti intellettuali, ha dimostrato di non aver nulla di alternativo, ma di essere solo il sussulto della parte più illusa di un complesso moribondo: estremo inganno dei reazionari, citando Di Dario nel “Declinare del mondo”. Estremo inganno di un sistema geopolitico in inarrestabile trasformazione e di un mondo euro-occidentale che è già decrepito e che non riesce a vedere oltre le proprie mortali spoglie sempre in pericolo di vita, tanto da dimenticarsi di migliaia di bambini sepolti sotto le bombe dell’unica democrazia del Medio Oriente

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