L'editoriale

I disorganici

Alberto Asor Rosa e gli altri.
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La folla (quasi totalmente maschile) che il 5 novembre del 1975 debordava da largo Argentina si era data appuntamento per l’ultimo saluto a Pier Paolo Pasolini, ucciso tre giorni prima all’idroscalo di Ostia. Sulla sua bara, trasportata a braccia dalla Casa della Cultura, campeggiava la bandiera del PCI. Il messaggio era chiaro: Pasolini, uno di noi. Una bara che sapeva tanto di gabbia. Togliatti non c’era più, ma di sicuro avrebbe approvato. Era la stessa operazione di impossessamento da lui compiuta con Antonio Gramsci.

Era, quello, il PCI che aveva avuto talmente successo alle elezioni regionali da far immaginare che potesse perfino superare la DC l’anno dopo alle politiche. Era un PCI sul quale, grazie a Berlinguer, l’ombra sovietismo si sentiva meno ma gravava sempre la tirannia del “centralismo democratico”, se è vero che aveva colpito perfino uno come Ingrao qualche anno prima, in occasione dei fuoriusciti del Manifesto. Era il PCI di politici come Natta, Iotti e Ingrao, di artisti come Renato Guttuso, di critici d’arte suoi amici come Duccio Trombadori, di storici come Paolo Spriano, di critici letterari come Natalino Sapegno, Carlo Salinari o anche, Alberto Asor Rosa, deputato del Pci dal 1979 al 1980, scomparso or che è poco all’età di 89 anni, dopo aver condotto una lunghissima attività accademica, dal 1972 al 2003.

Una decina d’anni prima, proprio lui si era beccato randellate “organiche” proprio da Salinari, già responsabile dal 1951 al 1955 della politica culturale del PCI, quando a lui era toccato ergersi a difensore del canone comunista contro Scrittori e popolo, un saggio dal sapore pamphlettistico pubblicato da una casa editrice giovane e ardimentosa come Samonà e Savelli, il cui autore poco più che trentenne con quel curioso cognome palindromo aveva scosso gli ambienti non solo letterari. Suo obiettivo polemico, il populismo di certa critica letteraria, ma prima ancora il popolo, considerato una fiacca proiezione piccolo-borghese tipicamente italiana, ostacolo a una classe operaia viceversa invincibilmente antagonista. A far le spese di questa aggressiva vivacità, i vari Vittorini, Pratolini e Bilenchi ma soprattutto Gramsci e Pasolini, ai suoi occhi colpevoli entrambi di aver ostacolato l’affermazione di una politica autenticamente rivoluzionaria, ma anche -tra le righe- di appartenere proprio a popolo dal quale ci si sentiva aristocraticamente lontani. Era un Asor Rosa in evidente odore di eresia, in particolare rispetto a quel Gramsci padre spirituale del PCI e de L’Unità su cui Togliatti aveva costruito il suo progetto cultural-nazionale. Un’eresia che la cultura comunista di allora, così rigida e insieme così dominante, non poteva certo tollerare. 

A quel tempo, eravamo a metà dei Sessanta, Asor Rosa era un giovane intellettuale da poco uscito da una rivista per molti versi chiave nella storia del marxismo italiano come Quaderni rossi, autentico laboratorio intellettuale di quella teoria diventata poi nota come operaismo, grosso modo riassumibile così: la sola contraddizione rivoluzionaria, l’unico limite al potere del capitale è la resistenza della classe operaia; il popolo, in quanto prodotto di una cultura della mediazione se non proprio del compromesso, non può che neutralizzarla.

Da quella rivista (sei numeri appena, dal 1961 al 1965) fondata da Panzieri e Tronti (il primo dissidente socialista già condirettore della rivista Mondo operaio e in seguito docente universitario nonché consulente Einaudi; il secondo laureato con Ugo Spirito ordinario di Filosofia teoretica con tesi sulle opere giovanili di Marx) si erano dipartite infatti le due anime forti di quella sconfinata galassia della sinistra contraddistintasi, fin dal dopo Hegel, prima ancora che per la profondità delle elucubrazioni, per un’insopprimibile litigiosità ancora oggi perfettamente funzionante (le rocambolesche avventure politiche degli ultimi lustri lo dimostrano ampiamente, l’unica differenza era che allora si studiava e oggi no).

Insieme ai compagni di lotta (e in futuro anche di governo) Massimo Cacciari e Mario Tronti e al ben più estremista Toni Negri, Asor Rosa si era allontanato da Renato Panzieri per fondare Classe operaia, un nuovo giornale dall’eloquente sottotitolo: «mensile politico degli operai in lotta». Senza star qui ora a perderci negli imperscrutabili sotterranei del ventre dell’extraparlamentarismo di sinistra all’italiana, basti dire che il distinguo base, stringi stringi, riguardava il modo di intendere il pensiero e le opere di Marx, autore già di suo “eretico” a se stesso: un economista e per estensione, sociologo o piuttosto un filosofo a tutti gli effetti? Un’alternativa dirimente che avrebbe contrapposto in modo definitivo, qualche anno più tardi, la concentrica, severa rigidità del PCI al più libertario nonché spregiudicato mondo gravitante intorno al PSI, sintetizzato a dovere dall’incontro clandestino tra il ministro De Michelis e il latitante Oreste Scalzone a Parigi, nel gennaio del 1985 (svelato sulle pagine di Famiglia cristiana da un giovane David Sassoli).

Panzieri era dalla parte di Galvano Della Volpe, studioso marxista di Meister Eckhart, poco irregimentabile e per questo ostracizzato dalla dirigenza PCI (come anche lo stesso Lucio Colletti, ancora lontano dalla svolta berlusconiana); lui pensava a un marxismo che interpretasse il capitalismo contemporaneo in funzione della lotta di classe, diffidando della riduzione di Marx al filone filosofico hegeliano: trascinare Marx in una dimensione filosofica significava hegelianizzarlo, ovvero, per dirla con un altro irregolare come Giuseppe Semerari, manipolarlo.

Tronti, Asor Rosa e Cacciari sostenevano invece il primato delle idee rispetto alle cose e dello Stato sopra ogni altra cosa. Permeati di Adorno e Heidegger, guardavano con ammirazione al Lukacs di Coscienza di classe: «Quando si verifica un contrasto tra la teoria e i fatti, si può senz’altro sentenziare con Fichte “peggio per i fatti”». Come dirà Cesare Cases, nessuno discuteva sugli esiti, sulla «svolta della storia»: ci si soffermava sulle sue categorie speculative.

Realisti e idealisti, dunque, immersi in una dinamica divisiva senza fine. I primi opteranno poi tra Pdup e Lotta continua, i secondi lo faranno per lo più tra Pci e Potere operaio, gruppo nato nel frattempo da un’ulteriore scissione di classe operaia per iniziativa di Toni Negri. Tutti potevano dirsi “operaisti”, tutti parlavano di “autonomia”. La differenza – sostanziale – stava nel fatto che mentre i primi parlavano di autonomia dalla politica e dunque di legame con le masse, gli altri guardavano all’autonomia della politica e quindi al primato del partito; un partito, il PCI, che dal 1972 aveva Berlinguer come segretario e nel quale tutti e tre, Tronti, Asor Rosa e Cacciari, sarebbero bene o male (chi per più tempo che per meno) non per nulla confluiti. «Fui io», dirà poi Tronti:

«A sciogliere Classe operaia, quando mi accorsi che molti all’interno del gruppo, in particolare Negri, tendevano a chiudersi e ad avere un rapporto eccessivamente polemico con i sindacati, con il Pci. A un certo punto mi accorsi che erano più anticomunisti che anticapitalisti”. La rottura era insomma compiuta, già prima del 1970: in fondo, fin dal ’68, con la presa di distanza dalle lotte studentesche esplose nel Paese, simile a quella di una certa intelligentsia newyorkese nei confronti della controcultura d’oltreoceano».

Da allora in poi, quella sinistra cominciò a diventare fondamentalmente organica al nuovo progetto egemonico culturale targato PCI. Di questo allineamento, o forse meglio di questo insediamento generazionale, la voce Cultura redatta da Asor Rosa per La storia d’Italia dell’Einaudi alla metà dei Settanta rappresentò in certo senso il coronamento, offrendo una rilettura dei precedenti cent’anni di cultura italiana non più anti-gramsciana come quella di Scrittori e popolo, ma anzi perfettamente funzionale alla logica comunista dell’eurocomunismo e del compromesso storico. Nella stessa opera il filosofo Cesare Luporini, nel capitolo Il marxismo e la cultura italiana del Novecento sosteneva apertamente la discontinuità tra Labriola e Gramsci, invocando un nuovo mandato per un’élite intellettuale nutrita di francofortismo a forte trazione hegelo-heideggeriana.  

Era un’élite intellettuale chiusa tra salotti e convegni da dove si faceva una certa fatica financo ad aprire le finestre, anche solo per osservare i cartelloni pubblicitari nella strada. Era quella sinistra “marxista” di potere che portava Argan a diventare sindaco di Roma e che con la riforma lottizzatrice faceva il suo ingresso alla RAI dalla porta principale. Era l’evoluzione di quella stessa sinistra nostrana che anni prima aveva bollato come “torbidume arcaicizzante” (Fortini dixit) le ricerche di un antropologo come Ernesto de Martino definito da Togliatti “intellettuale decadente”. Era lo strano frutto di quell’idealismo progressista che aveva permesso agli intellettuali comunisti di formazione crociana di non rinnegare il proprio passato, e allo stesso tempo impedito loro di mettere in discussione il primato (hegeliano) della filosofia sulla storia. Come avrebbe poi detto Carlo Salinari:

«Allora non vedevamo l’altro aspetto, vale a dire la polemica crociana contro il positivismo si accompagnava alla svalutazione della conoscenza scientifica, fatale per la cultura italiana, e che il richiamo alla storia di croce era il richiamo alla storia delle idee, non alle forze storiche che muovono la storia. così come croce lasciava morire del De Sanctis la parte più vitale, quella dei legami tra letteratura e vita politica degli uomini e la storia sociale dei popoli».   

A inizio anni Ottanta, Tronti, Asor Rosa e Cacciari, diventati nel frattempo tutti e tre santoni universitari, marciavano ormai separati: chi fedele fino alla fine al partito al punto da presentare un libro perfino con la fedelissima renziana Boschi (Tronti); chi sprofondato nei meandri di un nichilismo mistico trasportato sotto forma di grilloparlantismo della sinistra nella tv da talk show (Cacciari); chi come Asor Rosa, intento fino alla fine, tra la repubblica e il manifesto, a rimuginare sul poco radioso futuro della sinistra, con puntate in un “neoambientalismo” (così Alberto Magnaghi su il manifesto di qualche giorno fa) maturato in quel di Monticchiello. Lasciato da tempo alle spalle l’esperimento “semiarchitettonico” di Contropiano, i tre fondarono Laboratorio politico, rivista dal retrogusto palinodico per il suo teorizzare l’interruzione del rapporto virtuoso tra società e una politica chiamata a riacquistare autorevolezza nel processo di sviluppo economico in una fase che poi Fassino s’incaricherà di riassumere col suo famoso, telefonico «abbiamo una banca».

In fondo, insieme ai compagni di strada Tronti e Cacciari, Asor Rosa non faceva che confermare la bontà della lettura avanzata da Marco Gatto in Marxismo culturale, quella di un filone progressivamente allontanatosi dalla dimensione politica e dal rapporto teoria-prassi per immergersi sempre più nell’analisi e nella teoria culturale, estetica; in altre parole, un marxismo che come tutta la cultura ha perso progressivamente la sua componente civile. Un processo di allontanamento dal Reale cui la lunga, inesorabile involuzione vissuta dal PCI-Pds-Ds-Pd è ancora oggi, più che mai, specchio fedele.

Come si spiega il fatto che una figura topica della modernità, l’intellettuale, sembra appartenere una razza in estinzione? Era questo l’interrogativo che anni fa Asor Rosa, prima di essere addirittura beatificato con un volume dei Meridiani Mondadori, poneva al centro di una riflessione in cui fin dal titolo definiva Il grande silenzio. Forse bastava rileggersi con attenzione proprio quel Gramsci accusato in gioventù di populismo, il Gramsci che nei Quaderni, parlando dell’America e del “Babbitt” di Sinclair Lewis, rimproverava agli intellettuali europei di non rappresentare più l’autocoscienza culturale, la critica della classe dominante, con il rischio anzi di diventarne piuttosto gli agenti, «una casta a sé, senza radici nella vita nazionale-popolare».

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