OGGETTO: Gli jihadisti non sono pazzi
DATA: 25 Ottobre 2023
SEZIONE: Recensioni
FORMATO: Letture
Per comprendere senza condannare a priori, Fabio Dei invita a considerare gli attentatori suicidi come soggetti razionali che razionalmente oppongono violenza alla violenza.
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Pubblicato a margine della stagione terroristica a guida Daesh che nel 2016 insanguinò l’Europa occidentale e il cuore del Medio Oriente, Terrore suicida. Religione e politica del martirio di Fabio Dei (Donzelli, 2016), non ha smesso di essere di grande attualità. Spezzando l’idea di una totale incomprensione del terrorismo islamico, ridotto all’azione caotica di un gruppo di fanatici, Dei analizza piuttosto le componenti profondamente politiche del jihadismo, con una particolare attenzione al contesto palestinese. La premessa è molto chiara ed assolutamente originale:

«Gli attentatori suicidi non sono né pazzi, né fanatici e primitivi; non hanno subito lavaggi del cervello, non sono infantilmente catturati da ingenue credenze religiose che promettono la felicità nel paradiso. Sono soggetti razionali che si pongono obiettivi (spesso per noi comprensibilissimi, come la liberazione nazionale o una qualche forma di “rivoluzione”) e li perseguono attraverso i mezzi che volta per volta appaiono più efficaci.»

Partendo da un simile assunto, emerge la natura profondamente coerente del fenomeno. Una prosecuzione della diplomazia e della guerra convenzionale con altri mezzi, per citare Von Clausewitz, nonché un modo di agire che è quasi connaturato nelle forme politiche statali e non in quanto tali. Lo stesso Stato incarna hobbesianamente questa funzione, ovvero il monopolio della violenza. Il terrore di Stato prevede mezzi peculiari, anch’essi spregiudicati e asimmetrici: dall’utilizzo dei servizi segreti, all’appoggio di organizzazioni paramilitari o criminali, fino alla pratica tutta occidentale del soffocamento economico mediante sanzioni.

Nel caso di organizzazioni non statali, quali i nuclei terroristici, la pratica della violenza è andata gradualmente connettendosi con una grande potenza comunicativa. Le missioni senza scampo ne sono un esempio, così come il suicidio rituale di stampo jihadista. Il linguaggio dell’atrocità, divenuto tragicamente “abituale” nel momento di massima affermazione globale dell’ISIS, si è fuso con l’utilizzo dei nuovi media e con l’apparente incontrollabilità delle adesioni. Ogni comunità diasporica è divenuta veicolo di radicalizzazione e di generazione di “cellule” non strutturate eppure legate ad un unico esercito.

Tali elementi però si saldano con una base radicata sul territorio, come nel caso di Daesh in Siria e Iraq. La presenza del califfato ha rappresentato tuttavia un fenomeno oltremodo differente dall’opposizione incrollabilmente nazionalista delle rivolte anti-Occidentali in Medio Oriente e non solo, tale per cui qualsiasi accostamento tra l’ISIS e Hamas appare almeno discutibile. Per quanto una nuova stagione di attentati o di timore degli stessi sembra si stia prospettando (e ancora, specialmente, in Francia e Belgio), il cordone ombelicale identitario è molto diverso: Hamas, lungi dal rappresentare un copione già visto, al netto degli stessi archetipi ideologici che lo caratterizzano, è ancora essenzialmente l’estrema risposta ad una rivolta, cominciata con i primi insediamenti ebraici in Palestina e proseguita con la graduale costruzione dello Stato di Israele ai danni della popolazione locale. L’identità palestinese è stata per conformazione segnata dal senso del martirio, che a partire dal 1947-1948 con la Nakba (la sconfitta catastrofica, l’esodo e la perdita delle proprie terre), ha segnato e segna ancora l’immaginario dei suoi movimenti di rivolta.

La violenza si genera pertanto da altra violenza; quella da parte uno Stato ebraico-israeliano costruito allora (e oggi) con logiche coloniali:

«Malgrado le versioni di parte sionista, che scaricano Israele di ogni colpa e presentano il suo ricorso alla forza come puramente difensivo, è difficile dubitare del fatto che si sia trattato di un’operazione di spossessamento di stile coloniale, per di più giustificata da pregiudizi razzisti nei confronti delle popolazioni locali (con tutta una retorica che vedeva nei palestinesi dei “selvaggi” arretrati, opposti a una missione di civiltà che avrebbe trasformato il deserto in un giardino).»

Tali osservazioni di Dei, sembrano riecheggiare nel continuo ribadire come Israele sia “l’unica democrazia del Medio Oriente”, termini da cui si evince quanto la missione civilizzatrice israeliana – e occidentale – si sia quasi naturalmente evoluta nella missione di “democratizzare” i propri vicini “autocratici e fanatici”.

Simbolicamente saldato con la tendenza implicita del mondo euro-occidentale, nell’espansione israeliana e nel suo apparente diritto alla difesa soggiace la necessità più tipica di una civiltà moribonda, come scrive Di Dario:

«Il nemico sarà reso colpevole dal punto di vista morale; come violatore dei diritti umani, esso si pone al di fuori dell’umanità. Anche la punizione che gli spetta è fuori dall’umanità. Non si uccide un nemico, ma un colpevole.»

A partire da tali politiche e dall’odio reciproco si sono innescati i violenti rivolgimenti che hanno caratterizzato tutto il mondo decolonizzato. Il terrorismo si è fuso con la rivolta all’occupazione e ne è divenuta l’unico braccio armato apparentemente efficace nella sua efferatezza già negli anni Settanta. Molto prima della definitiva affermazione di Hamas, il 1972 è l’anno dell’attentato di Monaco di Baviera ad opera dei gruppi terroristici palestinesi. I decenni precedenti ed immediatamente successivi alla fine della contrapposizione dei blocchi, sono quelli di un terrorismo che anche in altri contesti (Paesi Baschi, Irlanda del Nord) diviene sinonimo di guerra nazional-rivoluzionaria.

Laddove le forze politiche tradizionalmente rappresentanti le istanze di un popolo in rivolta sembrano tendere ad una graduale normalizzazione dei rapporti e ad una rinuncia formale o effettiva all’uso della violenza, tale fenomeno si rimodula in forme diverse: raccoglie gli sconfitti e i delusi da tali processi politici e si costituisce a forza in grado di opporsi in maniera più efficace agli oppressori di turno. Così l’OLP e l’Autorità nazionale palestinese sono stati gradualmente svuotati di autorità e hanno visto sgretolarsi il proprio consenso in quasi tutto il territorio palestinese a partire dalla prima intifada, nel 1987.

Hamas costruisce così la propria mitologia intorno al martirio palestinese, sull’esempio del terrorismo già praticato e sulle rovine e sull’incapacità dei politici dell’Autorità nazionale. Riesce inoltre a compattare intorno ad una rinnovata ideologia il consenso popolare alla propria causa:

«Versetti coranici e fucili mitragliatori: sono questi gli elementi costantemente ricorrenti in tutta la simbologia che circonda queste forme culturali.»

Non vi è nessun ripudio della violenza in quanto tale. Semmai, quest’ultima viene esaltata. D’altra parte la “calcolata irrazionalità” dell’attacco terroristico, ha portato spesso da parte occidentale a reagire in maniera inefficace o addirittura controproducente. Nella disastrosa convinzione che le rappresaglie condotte dalla schiacciante superiorità degli Stati occidentali sul piano tecnologico e militare, possano fungere da deterrente, si ottiene e si sta ottenendo una reazione imprevedibile. La guerra del Golia israeliano e occidentale contro il piccolo Davide della striscia di Gaza non può passare inosservato. Mai come in questo momento le piazze del mondo arabo, del “mondo contro”, dell’universo anti-imperialista, fino alle stesse piazze occidentali, ribollono:

«Le rappresaglie contribuiscono a rafforzare il contesto morale (i processi di vittimizzazione, l’odio per i nemici, il senso della necessità del sacrificio) nel quale la scelta terroristica e soprattutto quella del martirio divengono legittime e piene di significato.»

Se la violenza è vettore di nuove e rinnovate esplosioni di rabbia e seppure ciò non costituisca a suo parere una giustificazione, Fabio Dei sottolinea la necessità di comprendere. Una comprensione che sembra essersi dissolta nella difesa senza se e senza ma di Israele e dell’Occidente, anche quando il consenso di quest’ultimo è in caduta libera in tutto il mondo. Ecco dunque che conservatori illusi di dover salvare un Occidente già vuoto si accalcano per la “difesa della civiltà”. D’altra parte, una chiave di lettura troppo relativistica, che giustificherebbe il terrorismo alla luce dell’oppressione degli Stati occidentali viene del tutto esclusa da Dei. Eppure il dibattito in proposito permette di far luce sulle prospettive relative al “senso” del terrorismo. A spiccare nelle letture degli antropologi, in cui anche Dei si inserisce, è la posizione di Talal Asad. Pur nelle ritenute ambiguità etiche del suo discorso, Dei ne riconosce l’acutezza nel mettere in luce le contraddizioni dell’attualmente predominante atteggiamento “liberale”:

«Mi sembra che non ci sia differenza morale tra l’orrore inflitto dagli eserciti di stato (specialmente se questi eserciti appartengono agli stati più potenti, ritenuti non perseguibili dal diritto internazionale) e l’orrore provocato dagli insorti. Nel caso degli stati più potenti, la violenza non è casuale, ma parte del tentativo di disciplinare popolazioni insubordinate. Oggi, la crudeltà è una tecnica indispensabile al mantenimento di un preciso ordine internazionale, un ordine in cui le vite di alcune persone valgono meno delle vite di altre, la cui morte, di conseguenza, è meno inquietante.»

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