OGGETTO: Cosa rimane della guerra fra Israele e Iran
DATA: 01 Luglio 2025
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Analisi
Con la fine dello scontro diretto con l’Iran lo Stato ebraico vince l’ennesima battaglia ma rischia di perdere la guerra più lunga della sua breve esistenza. Con la cessazione delle ostilità entrambi i contendenti adesso possono prendersi una pausa per leccarsi le ferite, sistemare le proprie vulnerabilità e prepararsi al prossimo, inevitabile, conflitto.
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Con la tregua imposta, più che suggerita, al riottoso alleato da parte di Trump si è conclusa la prima guerra israelo-iraniana; unico vero confronto diretto tra Tel Aviv e Tehran. Un conflitto breve, come nella migliore tradizione della dottrina bellica dell’IDF, eppure drammaticamente inconcludente e lacunoso negli scopi quanto negli obiettivi raggiunti, soprattutto considerando il desiderio più che trentennale che Netanyahu aveva di “farla finita” una volta per tutte con il regime degli ayatollah.

Analizzando la dinamica sul campo si può in effetti notare, senza dubbio di smentita alcuna, che, aldilà della retorica autocelebrativa da “missione compiuta” profusa dalla Casa Bianca, nessuno dei risultati prefissati possa essere neppur lontanamente considerato soddisfacente per lo Stato ebraico: il programma nucleare iraniano non è stato distrutto, semmai rallentato (e perfino “giusticato” in seguito all’attacco preventivo); l’invocato cambio di regime non è avvenuto, e alla fine la coesione interna al Paese persiano può dirsi rafforzata, convincendo buona parte dell’opposizione a far fronte comune rispetto all’ipotesi di divenire l’ennesimo Stato fallito del Medio Oriente come già accaduto a Iraq e Siria. Infine l’esercito iraniano ha dato mostra di saper non solo incassare un gran numero di colpi ma perfino di rispondere con notevole precisione e accuratezza. D’altro canto l’Iran, dopo lo shock iniziale con l’uccisione di ben sedici scienziati e alcuni vertici militari – una grave lacuna dal punto di vista del controspionaggio – e un insufficiente dispositivo di difesa aerea, ha conseguito importanti risultati nella capacità di occultare i lanciatori e nella prontezza del proprio programma missilistico. Lo Stato Maggiore è infatti riuscito piuttosto agilmente a spostare la rapida escalation aerea in una sfibrante guerra di logoramento, portando per la prima volta devastazione all’interno del cuore stesso d’Israele, fatto mai verificatosi durante le precedenti guerre arabo-israeliane, arrecando un grave danno reputazionale alla “cupola” che dovrebbe assicurare l’inviolabilità dei cieli israeliani grazie al costoso sistema multi-strato di Iron Dome, gettando nel panico e nella costernazione una popolazione già provata da un anno e mezzo d’ininterrotta guerra – altro non invidiabile record dell’attuale amministrazione – ma, soprattutto, senza neppur ricorrere alla “arma fine-del-mondo” della chiusura dello stretto di Hormuz da parte della marina iraniana.

Sul fronte opposto l’aviazione con la stella di David ha dimostrato d’essere in grado di portare a termine complesse missioni di bombardamento a migliaia di chilometri di distanza dalle proprie basi, mentre il Mossad ha dato prova della consueta abilità di realizzare spettacolari operazioni di sabotaggio in territorio nemico, lanciando droni e disabilitando la difesa aerea nemica con uno schema analogo a quello compiuto dal Gru ucraino contro le basi dei bombardieri strategici russi.

Fin dall’intervento americano in Iraq lo Stato ebraico ha infatti sistematicamente visto e contribuito a far cadere tutti i propri avversari regionali con una regia pianificata che, nel lungo termine, avrebbe dovuto garantirgli di rimanere l’unica indiscussa potenza regionale del Medio Oriente. Durante la guerra civile siriana infatti Tsahal colpiva regolarmente l’esercito arabo e i proxy iraniani dallo spazio aereo libanese e, una volta sbarazzatosi di Assad con l’insediamento del compiacente governo di al-Golani, ha colto l’occasione per eliminare i resti della difesa aerea espandendo la propria fascia di sicurezza ben oltre il Golan occupato, potendo così transitare liberamente attraverso i cieli siriani e utilizzare lo spazio aereo iracheno per bombardare l’Iran senza entrare nel raggio d’azione della difesa aerea. Con l’invasione di Gaza e la decapitazione dei vertici di Hamas e Hezbollah – che peraltro patisce la perdita della rotta logistica attraverso la Mezzaluna sciita -, il cosiddetto “asse della resistenza” appare se non sconfitto pesantemente ridimensionato, spalancando la migliore finestra d’opportunità per sferrare il decisivo attacco alla “testa del serpente”; e allora perché, nonostante tutte queste premesse, la guerra con l’Iran s’è rivelata un colossale buco nell’acqua? Le risposte sono da individuare nella dinamica operativa del conflitto e, senza dubbio, nella configurazione geografica dei due Paesi.

In primo luogo la campagna aerea israeliana comporta una notevole spesa e logoramento delle unità coinvolte (si parla almeno di 8,7 miliardi di dollari in dieci giorni tra carburante, missili e aereo-cisterne) mentre, una volta constatato l’insuccesso del first-strike nel distruggere la maggioranza dei lanciatori mobili, la risposta iraniana è stata molto più rapida ed economica. I missili infatti impiegano dieci minuti per raggiungere le città israeliane mentre i caccia impiegano ore per raggiungere i punti di lancio prefissati e tornare alle proprie basi. La seconda considerazione si basa sul fatto che il territorio israeliano abitato è estremamente circoscitto quindi il numero di colpi necessario per disabilitarne le infrastrutture critiche come le strutture portuali – con Eilat già di fatto chiuso dagli attacchi degli Houthi -, le raffinerie, le centrali elettriche e i desalinizzatori, è raggiungibile in poche settimane di guerra, mentre per paralizzare uno Stato vasto come l’Iran occorrono mesi (se non anni) d’incessanti bombardamenti. Lo stato dell’economia israeliana inoltre soffre ancora dall’attacco dell’7 ottobre; l’otto percento del pil è destinato alla spesa bellica; gli investimenti nell’high-tech sono crollati e si è bloccato completamente il turismo, un settore in cui si era investito molto nell’ultimo decennio; se a ciò si aggiunge anche il danno reputazionale e d’immagine legato al massacro in corso a Gaza e all’attacco preventivo alle centrali nucleari; le perdite dell’esercito (15mila tra morti e feriti); la ritrosia di molti riservisti di fronte all’apertura di un nuovo fronte (il settimo); la fuga di molti cittadini all’estero; è facile comprendere come Netanyahu avesse disperamente bisogno dell’intervento americano ma, soprattutto d’una tregua.

L’economia iraniana, invece, è molto più resiliente, provata com’è da anni di sanzioni – si stima in un miliardo la perdita legata alle mancate esportazioni per dieci giorni – e lo stesso Stato ebraico ha dovuto evitare di colpire gli impianti estrattivi iraniani per timore non soltanto delle rappresaglie sugli omologhi sauditi ma, anche, per assecondare la volontà americana di avere un prezzo del petrolio che non sfondasse quota 100 dollari al barile. D’altro canto l’Iran, proprio a causa della sua estensione, ha intrinseche vulnerabilità legate alla presenza di vaste e numerose minoranze etniche (azeri e curdi fra tutti), oltre che a un gran numero di rifugiati afghani presenti sul territorio, potenzialmente reclutabili dall’intelligence nemica e disposti a raccogliere informazioni, compiere attacchi terroristici e sabotaggi all’interno del Paese.

Con la cessazione delle ostilità entrambi i contendenti adesso possono prendersi una pausa per leccarsi le ferite e sistemare le proprie vulnerabilità: l’Iran ha già annunciato l’uscita dalla AIEA – fin troppo compiacente con l’Occidente, il cui report ha fatto da “paravento” all’attacco israeliano – e proseguirà senza indugi se non proprio verso l’atomica, sicuramente nel nucleare civile con i progetti già pianificati assieme a Rosatom la cui peraltro decisione di non evacuare i propri tecnici dalla centrale di Bushehr ne ha garantito di fatto l’inviolabilità. Le visite dei ministri Araghchi e Nasirzadeh – rispettivamente Esteri e Difesa – in Russia e Cina preannunciano senza dubbio una maggior cooperazione con i due fondatori dei Brics per sopperire alle lacune evidenziate nel breve ma intenso conflitto. Israele invece continuerà a trovarsi invischiato nella sua operazione a Gaza – fatto che allontana la stipula degli accordi di Abramo e la creazione del cosiddetto progetto della “via del cotone” -; nella proiezione in Libano e Siria, oltre a continuare a soffrire della parziale chiusura del Mar Rosso alle proprie navi commerciali, non cessando la sua politica di omicidi mirati e operazioni coperte contro Teheran, ma dovendo fare i conti con un’opposizione interna sempre più serrata nei confronti dell’esecutivo, del raffreddamento (se non proprio ostilità) di gran parte dell’opinione pubblica mondiale e deve affrontare il nodo dell’imposizione del servizio militare agli harradim, dal momento che la sua contenuta popolazione non potrà reggere ancora a lungo un tale livello di militarizzazione della società e dell’economia.

La pace insomma reggerà fin tanto che entrambi i contendenti resteranno convinti dell’impossibilità di sconfiggere un avversario che resta troppo lontano e troppo potente. Un successo diplomatico fin troppo fragile e aleatorio da poter essere celebrato come successo ma un sospiro di sollievo in un momento di gravissime tensioni internazionali a cui la UE, ha dimostrato ancora una volta una passività disarmante.

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