Se sicuramente fa impressione il dato italiano, che registra l’affluenza più bassa per una chiamata alle urne nella sua storia repubblicana (49,6%), ci si può consolare guardando altri numeri, come quello della Croazia, dove appena il 21,3% è andato a votare. Un cittadino su cinque. Sintomo di una distanza, non solo fisica, dai centri di potere europei, oltre a una forte volontà di delegittimarli. Fra sigle di gruppi parlamentari, metodi di nomina, iter di varia natura, e una sostanziale impotenza di fondo, l’Europa non è mai apparsa così lontana. I dati raccolti dal voto rimangono infatti di rilevanza unicamente nazionale, come comprovato da ogni singola analisi post-elettorale che si legge in questi giorni. Anche perché a livello europeo questo marasma rischia di avere ripercussioni minime, modificando davvero di poco l’equilibrio che fino a pochi giorni fa reggeva l’assetto istituzionale. Lo sconquasso riguarda fondamentalmente l’asse ideologico che reggeva le politiche del continente unito. O che voleva credersi tale.
Lo shock da prima pagina arriva infatti dalla Francia, dove Emmanuel Macron ha sciolto l’Assemblea Nazionale dopo essere stato più che doppiato da Marine Le Pen (31,5% vs 14,5%), chiamando i francesi alle urne per il doppio turno delle legislative il 30 giugno e il 7 luglio. C’è innanzitutto da contare i propri e aggiornare il Parlamento con gli umori del Paese. Si finirà, con tutta probabilità, in una situazione di cohabitation: governo lepenista ed esecutivo che rimarrà macroniano fino a scadenza naturale del mandato. Non si vede al momento la possibilità che il presidente decida di dimettersi, non avrebbe alcun senso e non è nell’ordine naturale delle cose. Anche perché la strategia è quella classica del “lento logoramento”: meglio la destra al potere, ma con un Primo Ministro ancora sotto il suo controllo, piuttosto che regalare altri tre anni di opposizione e consenso facile. Per Le Pen comincia quindi una gara di resistenza. Non deve cadere nelle trappole che inevitabilmente le verranno tese da una presidenza della Repubblica ostile, e nel frattempo contenere il suo delfino, Bardella, che una volta nominato vorrà giocoforza smarcarsi dalla zia di Francia. La strada per l’Eliseo è così ancora lunga e tortuosa.
Non sono bastate invece le polemiche (costate al suo partito l’espulsione dal gruppo ID) attorno a Maximilian Krah, che in un’intervista a La Repubblica si era rifiutato di definire criminali le SS, per diminuire la portata dirompente di Alternative für Deutschland, il secondo partito di Germania con il 15,9% dei consensi, dietro ai conservatori della CDU che hanno ottenuto il 30%. Stavolta non ci saranno elezioni anticipate, tutto sommato una soluzione che accontenta tutti. Seguendo il vecchio adagio che suggerisce di non interrompere un nemico che sta sbagliando, la destra tedesca non ha alcuna intenzione di fermare l’emorragia di voti che si osserva nella coalizione semaforo, costituita dai socialisti del Cancelliere Scholz (terzo partito dietro AfD con il 13,9%), dai Verdi (11,9%, un calo di quasi la metà rispetto alle precedenti europee), e dai liberali di FDP (5,2%, che addirittura hanno rischiato di non superare la soglia di sbarramento). Non è tutto ora quel che luccica però per l’opposizione tedesca. AfD non è la solita destra pronta a essere imbrigliata dalle logiche di palazzo: non sono un mistero le simpatie neonaziste di molti e dei loro esponenti, così come è chiaro nella memoria il monito della Merkel che ammoniva di evitare una qualsiasi alleanza con loro. Per Friedrich Merz, dunque, che tutti danno già come futuro Cancelliere (da anni a dir la verità), c’è da dirimere una questione aggravata ancora di più dalla netta sconfitta di FDP, storicamente ago della bilancia del delicato sistema politico tedesco.
Per l’Europa di domani la sconfitta dell’asse franco-tedesco – ossia il risultato più rilevante da sottolineare sinora – implica la sconfitta di una serie di politiche fino all’altro ieri considerate da realizzare senza se e senza ma. In discussione primariamente ci sarà la postura frontale tenuta nei confronti della Russia, con Macron che non potrà più lanciarsi a cuor leggero in appelli a combattere sul campo in Ucraina. Idem per Scholz, che però ha sempre privilegiato i canali di commercio bellico per le proprie industrie nazionali. A forte rischio sono senza dubbio anche le politiche green, come l’omonimo deal tanto voluto a suo tempo dal Commissario Timmermans.
Ciò nonostante la maggioranza parlamentare rischia di non mutare molto. I gruppi che aritmicamente hanno la possibilità di avere i numeri per imporsi sono l’EPP di Von der Leyen – ancora la candidata numero uno per guidare la futura commissione – i socialisti e i liberali macroniani di Renew. Questi ultimi si sono già fatti sentire per sottolineare la loro ferma volontà di evitare qualsiasi alleanza con i conservatori (ECR) di Giorgia Meloni. L’allontanamento dalle politiche green significa che difficilmente i Verdi europei avranno un ruolo nella futura maggioranza, anche e specialmente per volontà di EPP. La partita è da considerarsi chiusa qualora Von der Leyen riuscisse a trovare subito l’accordo verbale e scritto per essere rieletta, che al momento sulla carta sembra esserci. Se però si dovesse assistere ad un colpo di scena comincerebbe il vero gioco politico, con forti possibilità si vada verso un governo tecnico. Dunque chi meglio di un italiano per reggerlo? Si parla già di Mario Draghi, ma anche Antonio Tajani non è da escludere. Il primo si è già esposto con il suo manifesto programmatico enunciato a La Hulpe, in merito a una competitività europea da ritrovare. Resta da capire se verrà raccolto da qualcuno.