Boccaccio comincia molto probabilmente a scrivere il Decameron nel 1349, l’anno successivo a quello in cui la Peste nera divampa in Italia. L’inizio della prima giornata della raccolta è in effetti una magistrale testimonianza di quel periodo, paragonabile, nella potenza espressiva e nell’interesse storico alle rievocazioni della pestilenza di Atene (430 a.C.) composte da Tucidide nella Guerra del Peloponneso e Lucrezio nel De rerum natura. Nel corso della sua ricostruzione, non solo Boccaccio descrive con dovizia gli effetti della malattia, ma insiste sulla sospensione delle leggi civili e sullo sconvolgimento della morale comune:
«E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri ed esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti morti o infermi o sì di famiglie rimasti stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era, d’adoperare.»
La peste trascina insomma i fiorentini a una sorta di grado zero della civiltà, nel quale le leggi e i costumi antichi sono aboliti: c’è dunque chi abbandona parenti, amici e vicini non appena scopre che si sono ammalati; chi schiva gli appestati e vive chiuso in casa; chi si dà alle orge e ai bagordi. La brigata di sette donne e tre uomini protagonista del Decameron decide invece di lasciare la città, dov’è più diffuso il contagio, e riparare in campagna. Lì, non solo i dieci giovani potranno sopravvivere al diffondersi del morbo, ma anche mettere in prospettiva la crisi che sta travolgendo la loro società.
L’intero Decameron potrebbe interpretarsi in effetti come il tentativo di reimmaginare un modello culturale comunitario dopo che quello precedente è stato spazzato via dall’epidemia. Non scordiamo poi che Boccaccio scrive in pieno “autunno del Medioevo”: un periodo di grandi cambiamenti economici, sociali, politici, culturali, filosofici, che attraversano l’Europa del Trecento. Nel Decameron, l’antefatto della peste sembra dunque simboleggiare anche questa più generale condizione di incertezza e trasformazione, questa vera e propria crisi di civiltà. È a questo proposito significativo che i membri della brigata siano tutti rappresentanti giovani, intelligenti e colti di quella borghesia rampante che traghetta Firenze dal tardo Medioevo alla primissima modernità; così come lo è che essi decidano di trascorrere il loro ritiro a raccontar novelle. È il potere della parola, infatti, che offre la possibilità di immaginare situazioni e comportamenti alternativi dopo che quelli antichi si sono dissolti. Anzi: com’è noto, una buona parte dei racconti del Decameron sembra avere proprio la funzione di mettere alla berlina certi aspetti della società medievale, valorizzando invece nuovi modelli di vita: la forza dell’intelligenza contro ogni forma di potere convenzionale e ipocrita; l’intraprendenza dell’emergente classe sociale mercantile; un’ideale di nobiltà che non deriva da un retaggio di sangue, ma dal valore spirituale della personalità; e una morale erotica decisamente disinvolta, fondata su una concezione del sesso come bisogno naturale.
Non è un caso, dunque, che molti personaggi del Decameron presentino caratteristiche del trickster: un archetipo narrativo che si manifesta in tutte le epoche della produzione narrativa umana. Nei decenni, questa figura è stata esaminata da antropologi, psicologi, filologi, narratologi, studiosi del folklore, delle religioni e delle mitologie come Paul Radin, Karl Kerényi, Carl Gustav Jung, Lewis Hyde, Joseph Campbell, Christopher Vogler. Il trickster, il cui nome può essere tradotto in italiano con ingannatore o truffatore – benché talvolta si preferisca briccone o burlone, probabilmente per stemperare l’accezione negativa delle prime due – viene normalmente rappresentato come un personaggio arguto, nomade, anticonformista. Ciò che lo muove in primo luogo sono gli impulsi vitali più basilari, che in qualsiasi società devono essere contenute e regolate affinché non danneggino la collettività: la fame, la sete, il sonno, il sesso, il gioco. Nel trickster si manifesta insomma quell’amoralità sacra, originaria, propria della vita nel suo piano di immanenza, esistente al di là di qualsiasi specifica configurazione storica e concezione metafisico-morale.
E tuttavia, il trickster non è un semplice bruto, passivo ai suoi bisogni materiali, ma un personaggio capace di trasmutare le pulsioni primarie in intelligenza, astuzia, creatività. Non per nulla, i trickster sono spesso straordinari inventori, che si servono dell’ingegno e dell’affabulazione per circuire gli altri ed elaborare nuovi modi di stare al mondo, se non addirittura per ideare strumenti tecnologici innovativi. Per questo, pur radicandosi pienamente nella sua naturalità originaria, il trickster non è affatto un essere esclusivamente naturale, ma una forma di vita anche culturale. Esso rappresenta quasi il punto, cioè, in cui i desideri naturali si articolano in forme culturali. I tricksters, del resto, sono generalmente considerati amici dell’umanità, e protettori delle sue classi sociali più dinamiche.
La vicenda tipica del trickster, ab origine esterno ai confini fisici o ideali della comunità, lo vede irrompere nel contesto sociale ordinario al fine di ottenere un vantaggio materiale (cibo, un partner sessuale, mero diletto). Attraverso le sue imprese, egli finisce con lo stravolgere consuetudini e leggi di quel contesto, mettendone in luce le contraddizioni. Non esiste, del resto, alcuna società che non sia priva di ambiguità: il trickster si limita a far leva su di esse, mostrando le fallacie del modello culturale esistente e, talvolta, destabilizzandolo fino alle radici. L’atto di portare alla luce la verità, essa stessa amorale, che si nasconde dietro l’apparenza virtuosa di qualsiasi ordine stabilito, è cioè un’azione decostruttiva, perturbante, violenta, che penetra nelle crepe della società e, a volte, ne demolisce le fondamenta precarie.
Tuttavia non si deve pensare al trickster come a un nichilista, che combatte i valori della collettività per il puro amore della distruzione (e, in fondo, per la nostalgia inconfessata di un valore trascendente che gli sfugge). Egli non mira neanche all’edificazione di un’utopia egualitaria, come farebbe invece un rivoluzionario nel senso che ci ha trasmesso la storia moderna. Il trickster rappresenta piuttosto lo svolgersi della vita nella sua pulsione desiderante (nel senso deleuziano-guattariano del termine), che abbatte modelli di esistenza antiquati per ripropone di nuovi: non migliori in assoluto, ma per il loro presente. Il trickster non si limita infatti a mostrar le contraddizioni intrinseche alla comunità, ma ispira lo sviluppo di nuove e alternative forme di esistenza; non solo abbatte i confini fra lecito e illecito, ma li ristabilisce in modo creativo. Esso, in altra parole, abita il luogo della crisi, dove finiscono e iniziano le civiltà.
Alla luce delle considerazioni qui fatte, potremmo considerare l’intero Decameron come un’autentica opera-trickster, che decostruisce l’antico mondo nel tentativo di rifarne uno nuovo.
La nota novella di Calandrino e dell’elitropia, la terza dell’ottava giornata, è da questo punto di vista paradigmatica. Calandrino, pittore fiorentino sciocco e di scarso talento, è preda delle beffe combinate del sensale Maso del Saggio, e dei suoi colleghi Bruno e Buffalmacco. Durante una serie di incontri, questi lo convincono della realtà di lontani luoghi favolosi, come il celebre Paese di Bengodi, oltreché di una fantomatica pietra, l’elitropia, in grado di far diventare invisibile il suo possessore. L’inganno dei tre tricksters si basa insomma sulla premessa dell’esistenza di un mondo fantastico: una forma di esistenza paradisiaca, carnevalesca, del tutto opposta alla dura realtà dove Calandrino non è altro che un pittore spiantato. Manipolato dai tricksters, Calandrino associa dunque questa forma di esistenza alternativa al possesso dell’elitropia, virtualmente capace di garantire al suo proprietario un arricchimento rapido e indisturbato.
La semplice possibilità di riuscire a realizzare, senza particolari sforzi, lo stile di vita di Bengodi qui e ora, è tutta l’esigenza drammatica di cui Calandrino ha bisogno per essere spinto ad agire al di là delle convenzioni sociali, rivelando così, sotto la sua scorza di mediocre, una natura molto meno remissiva di quanto si pensi in primo luogo. Una volta messo a punto il piano per trovar l’elitropia, egli palesa infatti non solo uno sfrenato desiderio di rivalsa sociale, ma anche una personalità meschina, ingannevole, violenta. Non abbandona egli Bruno e Buffalmacco, pensando d’essere diventato invisibile, allo scopo di tenere l’elitropia per sé? Non percuote la moglie fino a ridurla in fin di vita, credendo che ella abbia fatto perdere tutte le virtù alla magica pietra? Chi avrebbe mai detto che quell’uomo insignificante potesse mostrarsi pronto a tutto, non appena gli fosse offerta una migliore possibilità d’esistenza?
In questa novella, la funzione dei tricksters sembra quella di svelare, sotto la scorza dei costumi, il flusso selvaggio del desiderio che si protende a forme di godimento sempre nuove, al di là di qualsiasi rigida divisione tra classi sociali. Essi mostrano in altre parole come la società tardo-medievale fiorentina, nella quale pure era possibile una relativa mobilità sociale, non sia in grado di incanalare pienamente il principio di piacere di persone come Calandrino. In definitiva, però, la demistificazione dei tricksters non è diretta contro la società, ma contro la loro stessa vittima. In fin dei conti, i desideri di Calandrino non sono affatto diversi da quelli dei suoi persecutori; questi, tuttavia, sono capaci di gestirli e soddisfarli molto meglio di quanto faccia lui, proprio grazie alla loro arguzia da tricksters. La mancanza di Calandrino non si gioca dunque su un piano morale; la sua colpa non è di essere cattivo, bensì credulo: di non essere, in altre parole, capace di realizzare i propri desideri senza l’aiuto di qualche speranza sovrannaturale. Per questo la sua reazione finale – l’addossare tutta la colpa del suo fallimento alla moglie – risulta così patetica: perché egli ha preteso di sfuggire al proprio stato di minorità facendo affidamento non sulla propria intelligenza, ma su una storia raccontatagli da qualcun altro… e perché, anche nella sconfitta, egli continua ad attribuire la sorte delle proprie vicende all’altro da sé, senza la volontà né la forza di impugnarla consapevolmente. Abbandonandosi passivamente all’illusione, incapace di narrare da sé le proprie storie, Calandrino non è infine altro che un essere inerme, una vittima di sé stesso, meritevole di tutti gli scorni che gli toccano.
Accade però talvolta che nel Decameron i tricksters siano vittime delle orchestrazioni che essi stessi hanno messo in moto. È il caso di Ambrogiuolo da Piacenza, antagonista della nona novella della seconda giornata. Il racconto comincia con un’animata discussione fra mercanti, i quali, separati dalle mogli per lunghi periodi a causa dei loro viaggi, si trovano a cercare altra compagnia romantica, non negando per questo alle loro consorti la libertà di far lo stesso. Questa morale elastica e godereccia, che concepisce il sesso come un bisogno naturale che travalica spontaneamente le norme sociali, ricorre in gran parte delle novelle del Decameron, in particolare quelle legate a personaggi della classe mercantile. Nella novella di Ambrogiuolo, tuttavia, qualcuno dissente da questo modo scanzonato d’intendere la sessualità: è Bernabò Lomellin da Genova, che magnifica la fedeltà coniugale di sua moglie Zinevra. Esasperato dall’ingenuità di Bernabò, Ambrogiuolo, anch’egli partecipante alla discussione, arriva dunque a sostenere d’essere in grado di sedurne la moglie in qualsiasi momento. Dopo un acceso confronto, i due concludono così con lo scommettervi sopra una consistente somma di denaro. Con uno stratagemma, il trickster Ambrogiuolo riesce quindi a infiltrarsi nella camera da letto di Zinevra e a vederne il corpo nudo. Egli è così in grado di rivelarne a Bernabò un dettaglio caratteristico: un neo sotto il senso sinistro. Bernabò, sconvolto dalla notizia, comanda allora un servo di uccidere la donna. Zinevra riesce però a scampare all’attentato e, attraverso alcune avventurose traversie, scopre l’inganno di Ambrogiuolo. La novella si conclude con un “lieto fine”: Ambrogiuolo viene giustiziato per ordine del Sultano e Zinevra può ricongiungersi a Bernabò, che nel frattempo l’ha perdonata.
Sebbene in questa novella il personaggio di Ambrogiuolo sia delineato come un antagonista, difficile vedere in lui un autentico villain. Egli, in effetti, non seduce mai Zinevra, limitandosi a imbrogliare il suo avversario con un trucco. E Bernabò, che a inizio novella si era vantato di poter insegnare agli altri come mantenere la propria moglie in uno stato di perfetta obbedienza, non è capace di penetrare, pur con tutta la sua pretesa virtù, il velo di bugie intessuto da Ambrogiuolo. Di più: egli non ha neanche un dubbio – in fondo più che legittimo, in un uomo che fino a quel momento aveva vantato l’assoluta fedeltà della sua donna – che Ambrogiuolo l’abbia ingannato, ma decreta istantaneamente la morte della moglie, senza neppure concederle di spiegarsi.
La novella di Ambrogiuolo è insomma, almeno fino alla sua metà, il racconto del moralismo che crolla sotto i colpi dell’intelligenza. I mercanti che all’inizio della novella enunciano i principi di un comportamento erotico disinibito non fanno altro che descrivere, con atteggiamento mondano, come funziona il processo del desiderio immanente alla vita. Così, quando Bernabò descrive la moglie come campionessa di fedeltà coniugale, egli tenta di opporre un limite al desiderio, di comprimerlo e controllarlo. Ma è tutta ipocrisia: la vita, quand’è costretta da modelli comportamentali eccessivamente rigidi, non aspetta altro che di liberarsi. Questo accade precisamente quando Bernabò, fulminato dalla rivelazione del suo avversario, perde di colpo tutti i suoi punti di riferimento, cedendo subito alla sete di vendetta: se la fedeltà della moglie, che aveva dato per garantita, è del resto un’illusione, allora ogni modello di comportamento nel quale aveva prima confidato è falso. Rimane solo il nudo flusso della vita che, ormai affrancata, esplode nelle sue forme più aggressive.
Il finale della novella, da questo punto di vista, suona decisamente forzato. Che Ambrogiuolo sia scoperto e punito, ma soprattutto che Zinevra si ricongiunga a Bernabò, può realizzarsi solo a causa della volontà esterna della narratrice, Filomena, non estranea, del resto, a piegare le proprie novelle secondo una morale stabilita ad arte (vedi il racconto della vedova e dello scolare, il settimo dell’ottava giornata). Di fatto, chi potrebbe credere che una moglie si ricongiunga felicemente al marito dopo che questi, sospettandone il tradimento, ha voluto farla uccidere senza neanche permetterle di discolparsi? Come non vedere in Ambrogiuolo il trickster capace di svelare, al di là d’ogni ipocrisia, il fondo di violenza amorale sotteso alle aspettative di controllo della sovrastruttura sociale?
I tricksters del Decameron, tuttavia, non soltanto dissolvono ordinamenti, ma offrono anche soluzioni costruttive. Un primo esempio di come le beffe del trickster possano suscitare questo genere di risposte è la celebre novella dell’usignolo, la quarta della quinta giornata. Lizio di Valbona è un anziano gentiluomo la cui figlia adolescente, Caterina, frequenta segretamente un giovane, Ricciardo. Una sera, i due ragazzi elaborano uno stratagemma per potersi sollazzare impunemente a casa di lei: Caterina ottiene infatti dai genitori di poter dormire in terrazzo, con la scusa di trovare sollievo dal caldo estivo; Ricciardo può così raggiungerla e fare l’amore con lei tutta la notte. Qualcosa però va storto. Il fanciullo si addormenta infatti fra le braccia di Caterina: così, il mattino successivo, i due giovani amanti vengono sorpresi da Lizio. La sua reazione, tuttavia, non è affatto quella che potremmo aspettarci. Egli decide anzi di far buon viso a cattivo gioco, approvando il rapporto amoroso fra i due ragazzi e organizzandone le nozze.
La soluzione dell’intreccio della novella può sembrare tutto sommato un po’ convenzionale. La tensione drammatica generata dalla scoperta finale di Lizio si scioglie infatti all’insegna del più consueto fra i meccanismi sociali riparatori. Nel gestire la questione, tuttavia, Lizio dimostra evidentemente non soltanto grande urbanità, ma anche l’intelligenza di ricomporre il dissidio ancora prima che nasca: i due amanti potranno infatti restare insieme, mentre egli non dovrà perdere la faccia. Tutti, in altre parole, ottengono ciò che vogliono. La beffa di Caterina e Ricciardo, potenzialmente svantaggiosa per Lizio, viene cioè capovolta in una contro-beffa, che invece di danneggiare i personaggi coinvolti, trova in un’istituzione già esistente la più adatta a incanalare i desideri di tutti. Lizio è trickster proprio perché è in grado di risolvere creativamente i problemi generati dall’irruenza del desiderio, non incanalando la vita in forme distruttive, come fanno Calandrino e Bernabò, ma in una risposta ironica e pragmatica a un tempo.
Ancora più interessante il racconto delle due coppie senesi, l’ottavo dell’ottava giornata. Spinelloccio e Zeppa sono due carissimi amici, compari contradaioli a Siena. Dal momento che Zeppa è spesso assente da casa, Spinelloccio finisce per diventare l’amante della moglie. Un giorno Zeppa, non visto, li sorprende insieme, ma invece di reagire d’istinto, elabora un piano di vendetta assai raffinato. Dopo aver costretto la propria moglie a chiudere Spinelloccio in una cassa che si trova nella sua camera da letto, conduce nella stessa stanza la sposa dell’amico, rivelandole il tradimento del marito e seducendola. I due finiscono col fare l’amore proprio sopra la cassa dove Spinelloccio è ancora rinchiuso. Infine, in presenza delle due donne, egli libera l’amico, che sorprendentemente, ritenendo d’aver pareggiato i conti, si dichiara come prima amico di Zeppa. Ma c’è di più: fatta ormai “la miglior pace del mondo” – così conclude sorprendentemente il racconto – “tutti e quattro desinarono insieme; e da indi innanzi ciascuna di quelle donne ebbe due mariti e ciascun di loro ebbe due mogli, senza alcuna quistione o zuffa mai per quello insieme averne”.
La violazione dei limiti imposti dall’istituzione matrimoniale non conduce insomma a una faida violenta, com’era accaduto nel racconto di Ambrogiuolo, ma alla creazione di un nuovo stile di vita “poliamorista”. I due tricksters protagonisti della novella, in altre parole, giocano a ingannarsi a vicenda, rompendo l’equilibrio previsto dalla convenzione sociale della monogamia, finché il secondo non batte il primo, e il primo non accetta la sconfitta, cosciente d’essersela meritata. E tuttavia un nuovo equilibrio s’è venuto a creare dalla crisi: le coppie non sono più rigorosamente alternative tra loro come al principio della novella, ma si compenetrano a vicenda, dal momento che ogni membro di ogni coppia apre la sua prospettiva romantica a un componente dell’altra. Le due coppie, in altre parole, si raddoppiano, stabilizzandosi così in un nuovo ordine, decisamente più appropriato al desiderio reale dei loro membri. Pur nel suo piccolo, questo racconto dimostra come dalla destabilizzazione di un mondo possa sempre nascerne un altro, più adeguato a dar forma alla realtà del presente: funzione del resto eminente nel trickster. Difficile così fare a meno di apprezzare la capacità immaginativa che permette a Boccaccio d’intravedere, pur in un contesto comico, possibilità d’esistenza sorprendenti, alternative a quelle ordinarie.