A Sarajevo i palazzi sono straordinariamente alti. Così imponenti da far pensare, guardando il contesto culturale, etnico e religioso, alla volontà di un Dio, distratto, ironico e un po’ alchimista, che ha voluto accomunare la Bosnia allo Ziqqurat di Babilonia da cui, secondo la teologia cristiana, gli uomini, durante la sua costruzione, abbiano iniziato a parlare tra loro diverse lingue per poi, non comprendendosi l’un l’altro, disperdersi sulla terra, inintelligibili l’uno all’altro. Ma quale Dio? Quello dei serbi, dei croati o dei bosgnacchi? Certo è, senza fantasticare su testi sacri, che per storia la Bosnia Erzegovina rappresenta un punto di incontro e scontro tra tre etnie, tre civiltà, tre religioni. Difficile per noi occidentali, o meglio: “più occidentali”, inerti ormai alle logiche di fede, etniche o religiose che siano, capire un contesto così frammentato e apparentemente impreciso. Perché tutto qui è questione di appartenenza: dalla politica, ai locali notturni, allo sport. Nemmeno il turista più distratto si può permettere il lusso di non notarlo. L’asimmetria culturale è ovunque. Le diverse bandiere, così come i molti monumenti ai caduti, gli edifici religiosi e perfino l’alfabeto, ci segnalano in quale preambolo culturale e cittadino stiamo entrando.
Chi fa un viaggio in Bosnia non può bollarlo come solo e semplice turismo. Sarebbe un errore, e comunque non sarebbe possibile. Perché qui tutti vogliono ribadirlo: la guerra c’è stata. Perfino il museo nazionale dedica pochissimo spazio al passato Ottomano o al dominio Asburgico, quel che conta è il presente. Che è formato dalla volontà di non dimenticare chi ha sofferto. Chi si spinge qui, nell’est dove tutto comincia e mai finisce, non può non essere umile e frastornato dal rompicapo umano che ha di fronte. In tutte le città della Bosnia, le case sono metafore di chi ha resistito nonostante i colpi e rimane in piedi. Ma ancora non fa nulla per ritinteggiare o stuccare quei buchi che sono l’anticamera dell’abisso umano nel quale, vent’anni fa, si sprofondò. Ce lo racconta Mustafà, storico bottegaio di Mostar, quanto questa sia una terra di ossimori e paradossi, di chiese e di moschee, perché nella sua città “i ponti (patrimonio UNESCO n.d.r.) sono nati per tenere separati e non per unire”, infatti se nella terra promessa la divisione, pragmatica, tra ebrei e mussulmani è rappresentata da una cancellata di fili spinati, a Mostar sono degli esteti: usano invece lo “Stari Most”, forse la maggiore attrazione artistica e architettonica di tutta la Bosnia. Costruito dagli ottomani, oggi il ponte divide il quartiere mussulmano da quello croato. Da qui, orde di turisti, in luglio, si gettano nel fiume Narenta per mettere alla prova il proprio coraggio da 24 metri. Quel che può sembrare un gesto superficiale e velleitario cela uno dei pochissimi casi balcanici dove la cooperazione internazionale post guerra sia stata davvero edificante. Il ponte, infatti, in una gelida mattina di Novembre del 1993 fu brutalmente abbattuto dalla furia iconoclasta delle truppe croate che non puntavano ad un danno strategico bensì ad un abuso morale, cancellando tutte quelle tracce visibili di cultura ottomana presenti nel territorio. Fu poi ricostruito attraverso una corposa serie di contributi internazionali. Perché chi fino ad allora era rimasto seduto sull’orlo della fossa, prendeva improvvisamente atto delle atrocità della guerra e cercava un modo per scrollarsi di dosso quella vergogna ormai conosciuta col nome di “genocidio di Srebrenica”.
Srebrenica é un piccolo villaggio nella Bosnia, dove non c’è petrolio né gas naturale né null’altro che possa giustificare un intervento straniero “esportatore di libertà”. Così lontana dagli occhi compassionevoli delle democrazie occidentali, così vicina alle mire espansionistiche della grande Serbia degli anni ’90. Fino all’inizio della guerra, l’anonimato e l’anacronismo sembravano dover far parte di questa cittadina destinata al dimenticatoio. Quando all’improvviso fu proclamata zona sicura da parte delle truppe ONU che si stanziarono in un vecchio capannone della città, attirando migliaia di profughi bosniaci con l’illusione di un’isola di pace dove poter vivere e professare il loro credo in sicurezza. Questa sorta di fabbrica di Schindler durò fino al Luglio 1995 quando le truppe serbo-bosniache entrarono nella città con l’ausilio di mezzi pesanti, avendo ordini precisi di pulizia etnica da parte del comandante-presidente Milosevic che, a battaglia conclusa, andò perfino a congratularsi con i suoi uomini. A quel punto i caschi blu, privati dagli alti comandi di supporto aereo e in netta inferiorità numerica, non poterono far altro che fuggire, lasciando migliaia di civili in balia dei serbi e delle loro regole. L’epilogo che si susseguì é noto: fosse comuni, non ancora disseppellite completamente, dove vent’anni dopo continuano ad emergere mucchi di ossa ormai sbriciolate dal tempo, resti di persone che ancora oggi sono classificate come disperse.
Ma la Bosnia è sia terra di contrasto che di conciliazione. La memoria va preservata ma il futuro va vissuto. Perché Sarajevo non è solo Gerusalemme ma è anche e sopratutto Costantinopoli. Enclave orientale in terra Europea. La musica e le persone rappresentano la cultura dell’eterogeneità. Qui all’apparenza nessuno é straniero: i capelli biondissimi velati da colorati Hijab si mischiano e si confondono a visi olivastri che sgranano rosari, occhi azzurri su folte barbe scure, accordi di sargiji su sottofondi di ottoni echeggiano in quelli che più a sud chiameremmo Suk: tipici mercati arabi. I profumi e i colori delle spezie, della verdura e del miele ricordano che la parola “Europa” è spesso usata come definizione politica e raramente geografica. In un quadrato del Sator di banchi affollati di commercianti che in un inglese dall’accento molto sovietico, invitano i passanti ad assaggiare i loro prodotti. Se il banco poi vende rakije, distillato di frutta tipico, si rischia di finire, tra alcuni zivili (l’equivalente del cin cin), ubriachi ma felici dopo solo pochi metri.
A riportare nuovamente l’atmosfera strettamente slavo-balcanica ci pensano però le discoteche. In un’esperienza aliena, dove i Maneskin, i Coldplay, i Maroon 5 non superano i controlli alla dogana, e le casse si fanno vibrare solo con musica rigorosamente e orgogliosamente cantata in lingua bosniaca, croata o serba. Lo stesso giovane inno di identità di Banja Luka, città universitaria nel nord del paese a maggioranza serba dove, mentre il cielo viene squarciato dal canto dei muezzin delle moschee, molti giovani attraverso un rituale dal sapore antico e di ferrea devozione, si recano in chiesa a pregare, baciare le icone e bere l’acqua santa. Un’immagine di intimo credo, che appare oggi assolutamente estranea alle nostre società così asettiche e rigorosamente laiche dove le nuove generazioni si impegnano in un percorso di revisione storica per tracciare un solco distanziatore dai valori, religiosi e non, che hanno inciso la nostra società. Per questo, e per molti altri aspetti, la Bosnia somiglia ad un viaggio nel nostro passato, tra comunità originarie e non conformi con forte senso religioso, circondate da paesaggi rurali di incredibile fascino, come quello della piccola frazione di nome Luka, immersa nella catena montuosa del Prenj. Che viene spesso definita, forse con troppa ambizione o ottimismo, l’Himalaya Bosniaco. La clessidra qui sembra essersi rotta e il gelido vento della montagna aver soffiato via i frammenti di vetro e di sabbia. I pagliai si mischiano a case di pietra e di legno, in una cornice di verdi pascoli spezzati solo da qualche cartello rosso che avverte del pericolo di campi minati. La guerra ha lasciato la sua atroce eredità anche negli angoli più remoti.
La Bosnia non è solo passato ma anche gemito ruggente dell’avvenire. Perla dei Balcani, che si sta aprendo al turismo e all’Europa. Luogo da vivere prima che da visitare. Dedalo di pregiudizi da sfatare, difficilmente nel futuro sarà oggetto di turismo di massa: non è una vacanza per “staccare” ma per scendere ventre a terra e confrontarsi con una labirintica e spesso disorientante cultura. Pascal scriveva che alcune cose possono essere capite solo amandole. E il viaggio, o meglio, l’esplorazione di questa regione spesso dimenticata dal mondo non fa eccezione. L’esperienza va giudicata postuma, perché a stupire non sarà la superficiale bellezza, pur presente, ma la complessità. Per i pellegrini di Medugorje questo piccolo stato potrà essere sinonimo di risposte, ma per tutti gli altri sarà il paradosso tra la serenità e il dubbio: somma e non sottrazione.