Il nucleo principale della weltanschauung politica di Curtis Yarvin consta della forte presa di coscienza dei limiti della Democrazia come sistema. Questi perviene alla conclusione per cui la Democrazia sia un sistema limitato in quanto profondamente instabile, avente come unico esito possibile quello di frammentarsi in costellazioni oligarchiche. È importante sottolineare che Yarvin non assume questo punto di vista negando agency al voto, che è infatti annoverato tra gli esercizi di potere e non tra le libertà, ma preferisce relegarlo a una funzione rituale, nel senso che l’antropologia francese aveva dato al termine. Poco cambia tra l’espressione di preferenza per un candidato e il tifo per la propria squadra di football: il paradosso dello strumento del voto permette a chi lo esercita di avere la percezione di partecipare attivamente al potere, pure se, di fatto, cambia poco o nulla tra un candidato e l’altro, tra un presidente e l’altro.
L’apparato democratico, con le sue regole, i suoi gruppi di pressione, i suoi interstizi, ma anche la sua facciata estremamente benevola, paralizzano l’iniziativa del singolo candidato a più livelli, fino a creare un governo che va di nascosto per la sua strada, che esercita il suo lavoro ben lontano (burocraticamente parlando) dagli occhi dei votanti. Il motivo per cui il sistema governativo funziona e continua a funzionare nonostante gli offici di un presidente debole non deve essere inteso come un sintomo di buona salute dell’apparato, ma al contrario come un’avvisaglia incontrovertibile del suo completo disfacimento. Com’è possibile che una nazione prosperi sotto un regnante debole e irresoluto? È possibile, a patto che il regnante sia sostituito nelle sue funzioni da qualcun altro. Questa semplice equazione riassume perfettamente il problema del potere di un presidente democraticamente eletto, un famoso paradosso della divisione dei poteri per cui alla fine della giostra nessuno ha abbastanza potere per effettuare delle vere e proprie scelte politiche.
Ora, diversi intellettuali nel corso degli ultimi sessant’anni hanno dato la loro lettura degli esiti democratici, del problema degli interstizi oligarchici all’interno del sistema, della natura più che altro feticistica della democrazia stessa: nella stessa America c’è stato fra gli altri Hakim Bey, convinto assertore dello stato di mobilitazione perenne di ogni singolo individuo come espressione di libertà e valore contro la società del controllo. Benché sembri astruso, è facile trovare un ricco common ground tra Yarvin e Bey. Lasciando da parte la profonda disistima per gli apparati burocratici e per le incarnazioni economiciste del libertarianesimo, entrambi condividono l’idea che esista una certa qual forma di illuminazione a portata degli individui che gli permetterebbe, una volta raggiunta, di disvelare la rete di inganni e rappresentazioni che i diversi oligopoli (Yarvin nelle interviste preferisce il termine small monarchies) proiettano per tenere in piedi il sistema. Entrambi ritengono la forma democratica superata, ed entrambi propongono una sintesi interessante tra dati storici e soluzioni contemporanee
Arriviamo dunque alla pietra dello scandalo che ha costretto, suo malgrado (fino ad un certo punto), Curtis Yarvin a.k.a. Mencius Moldbug alle luci della ribalta nell’ultimo anno. Anzitutto, come è noto, ben prima di assumere la postura di pacato intellettuale e padre di famiglia ospite al New York Times, Yarvin era una delle voci più incendiarie di quel vasto e prolifico calderone noto come NRx e, senz’altro, una delle vette intellettuali più caustiche e complesse dell’accelerazionismo. Per sua stessa ammissione, Yarvin ha senz’altro smussato le conclusioni più provocatorie della sua proposta, lasciando però intatto il sommum immondum del dibattito politico americano: la monarchia. Se per un Europeo conscio della sua storia l’avocazione di un sistema regale può sembrare strano, financo näif, per un Americano che si connota socialmente e storiograficamente come un nato libero, parlare di monarchia equivale quasi ad un attentato alla propria visione del mondo. Il ragionamento che ha portato Yarvin a proporre la monarchia come un istituto percorribile, anzi, preferibile per gli Stati Uniti è stato progressivo: partendo dal concetto squisitamente accelerazionista di impossibilità della decrescita del sistema, Yarvin ha immaginato un mondo diviso in microstati indipendenti retti ognuno da un CEO, un azionista assoluto, per poi trasfigurare questa figura in quella di un vero e proprio monarca.
La tentazione dell’uomo forte è spiegata da Yarvin come un istinto ancestrale dell’uomo, nonché come l’unico antidoto al marasma delle oligarchie-ombra che si annidano nel sistema democratico. È interessante notare come, per Yarvin, il buon regnante debba possedere le caratteristiche di un buon CEO, soprattutto per quanto riguarda i suoi cittadini. Questi devono essere considerati un duplice capitale: capitale economico (in quanto ingranaggi necessari nel processo produttivo) e capitale umano (in quanto abitanti e consociati sottoposti che sottostanno al patto sociale). Puntando a massimizzare i profitti su questo duplice capitale, il CEO-re non può far altro che servire il bene comune, di cui deve avere un altissimo concetto.
Tra il disprezzo per l’apparato democratico (e le sue conseguenze), la celebrazione dell’uomo solo al comando e una predisposizione alla provocazione piuttosto incontrollabile, Yarvin viene ultimamente additato come una sorta di santone Trumpiano, anzi peggio, Vanciano. Alcuni articoli sul suo blog, in cui parla a spron battuto della filosofia woke e del suo devastante impatto sui media americani, lo hanno reso inviso a una grossa fetta delle persone che contano negli States. Ora, a parte il suo tiepido (tiepidissimo in realtà) entusiasmo per la figura di Trump – di cui dice che sarebbe sorpreso se riuscisse a combinare qualcosa nei prossimi quattro anni – e i tiepidi (tiepidissimi in realtà) attestati di stima verso Vance (di cui dice “è bravo a parlare agli americani” ma anche “è un normie”), è evidente quanto Yarvin non sia assolutamente coinvolto nell’arena politica della Democrazia americana.
Al giornalista del New York Times che gli chiedeva quando sarebbe stato il momento della monarchia negli States, Yarvin ha risposto, scuotendo la testa, “not now” – non ora. Se, dunque, per i Democratici americani il pericolo più stringente è l’endorsement di Yarvin alle politiche trumpiane, e quindi un colpo di stato assolutista all’orizzonte, è bene si tranquillizzino: possono dormire sonni tranquilli. Certo, almeno fintanto che non si comincerà veramente a discutere, anche in America, sul superamento della – sempre più claudicante – forma democratica.