Negli anni del dopoguerra, la letteratura antropologica francese si arricchisce di un ricco contingente di studiosi, che si propongono di osservare i mutamenti sociali e le trasformazioni possibili delle ex-colonie in Stati Nazionali. Ad interessare agli studiosi francesi, era soprattutto l’Africa. Fino a quel momento, il paradigma insuperato di letteratura antropologica sul continente nero constava del ricco, ma datato Dieu d’eau (Dio d’acqua 1948). Si tratta di un testo particolare, evocativo e limpido, che racconta dei 33 giorni che l’autore Marcel Griaule passò con un anziano rappresentante Dogon di nome Ogotemmeli, ex cacciatore e ora guaritore, in cui all’antropologo francese vengono raccontati i misteri della cosmologia religiosa Dogon.
La scelta di scrivere di sé in terza persona, e la sua prosa misurata, lo rendono un testo a metà fra un indagine etnografica ed un romanzo. Inoltre, buona parte del suo fascino deriva dal suo incalcolabile valore testimoniale. Ma quale valore scientifico o politico poteva avere il racconto dell’iniziazione esoterica di un bianco, nel momento in cui gli Africani si stavano liberando dal giogo coloniale? Nel momento in cui era possibile osservare giovani società comporsi? La mitologia, tra l’altro, non era mai stata particolarmente importante per gli studiosi francesi: la scuola sociologica transalpina aveva sempre preferito concentrarsi sull’aspetto ritualistico più che sulla registrazione di cosmogonie. Lo scritto di Griaule era incomprensibile nei suoi intenti, come un oggetto di cui si apprezza la fattura ma di cui non si riesce a capire l’utilità, in più si poteva pensare che un modo così esotizzante ed estetizzante di raccontare l’Africa lo facesse assomigliare un po’ troppo ai romanzi d’avventura ottocenteschi. Orientalisme – avrebbe detto Said. Uno studioso rispettabile avrebbe dovuto cercare di osservare l’evoluzione delle società africane in risposta agli stimoli provenienti dalla modernità, non in una qualche vaga “forma eterna” o “forma primigenia”.
Su queste premesse si basa l’esperienza di alcuni autori, di scuola marxista, tra i quali si distingue Georges Balandier. Considerato il pioniere degli studi africanistici francesi, nonché un socialista in parte originale, Balandier si concentra su Les noires d’Afrique e sulla complessità delle forme sociali che questi mettevano in atto per “ricostruire” una propria identità. A cavallo della decolonizzazione, i singoli stati africani si trovavano in una fase embrionale, in cui tutti gli esiti “sociali” erano ugualmente possibili. Secondo Balandier, i cardini di ogni organizzazione sociale di tipo statale sono tre aree (sistemi di governo e di politica tradizionali, sistemi religiosi e raggruppamenti informali e spazi culturali) con cui sia l’establishment che i singoli individui devono interfacciarsi. Il problema, secondo l’antropologo francese, era che gli Stati africani non avevano potuto ragionare in maniera soddisfacente su questi tre aspetti.
Contro chi voleva le società africane “fuori dalla storia”, Balandier asserisce – nel suo Sense et puissance (1971) tradotto in italiano come Le società comunicanti– che ogni società, in ogni parte del mondo è in continua trasformazione attraverso due direttrici: le sue contraddizioni interne (dinamica interna) e le spinte provenienti dall’esterno da culture dominanti, o materialmente più forti (dinamica esterna). La questione della doppia dinamica verrà approfondita negli anni seguenti da Bastide, collega di Balandier e fine americanista, a questo articolo interessa la situazione di conflitto in cui le società del Terzo Mondo (termine coniato proprio da Balandier) si trovano poiché la spinta ipermoderna della società capitalista li aveva costretti ad interiorizzare un paradigma democratico, civilista e con un largo iato fra spazio pubblico e spazio privato.
Strutture come i centri commerciali, gli aeroporti e persino i musei sono gli evidenti simboli di tale spinta. Tali strutture infatti configurano un modo di abitare e di dare un senso ai luoghi che aveva poco a che fare con le strutture concettuali delle società africane. Si crea così un forte paradosso fra l’ipermodernità delle strutture e dei servizi e la vita sociale degli individui, che crea una difficile rinegoziazione tra l’identità statale e quella, per così dire, tradizionale degli individui.
Sotto l’ala di Georges Balandier, si laurea nel 1967 Marc Augè – originario della città di Poitiers – che, come il suo maestro, si dedicherà all’Africa. Sebbene impregnato di cultura marxista, Augè si dimostrerà un pensatore abbastanza obliquo. Non fa mistero di apprezzare Griaule, anche senza dare particolare credito accademico ad un metodo che lui definiva «maieutique», e si era soffermato spesse volte a ragionare anche sulla società europea. È inoltre evidente la sua riservatezza dal punto di vista politico se confrontata con l’impegno quasi militante della scuola marxista cui apparteneva Balandier.
Con un approccio decisamente simile a quello del suo maestro, Augè include nella sua ricerca una sinestesia di dati afferenti alla sociologia, all’architettura, all’urbanistica per ottenere una radiografia del tessuto sociale, con le sue strutture di potere e le nuove forme di appartenenza sociale bene evidenziate.
Quando Augè decide di passare dall’Africa all’Europa, i tempi sono cambiati ma le preoccupazioni sono, bene o male, le stesse. Come gli individui africani, anche gli individui europei si sono trovati investiti da una violenta spinta uniformante, da un paradigma totalizzante. Certo, il passaggio per gli europei era stato decisamente meno traumatico che per gli africani, ma Augè – convinto assertore del valore didascalico del suo ruolo di storico del presente – ritiene necessario osservare tutto il presente, nel momento in cui si fa intorno a noi.
Nonluoghi (1992), universalmente considerata la sua opera più riuscita, parte proprio dalla premessa di evidenziare i profondi mutamenti nella società occidentale contemporanea, alla luce di quanto osservato precedentemente negli altri continenti. Secondo Augè, ci troviamo ( o ci trovavamo negli anni Novanta) in una condizione detta surmodernitè – qualcosa come sovramodernità – caratterizzata da un triplice eccesso: di tempo, di spazio e di individualità. L’accelerazione della storia e l’onnipervasività dei media causano nell’individuo confusione sul piano temporale, mentre la globalizzazione e i continui riferimenti spaziali da un capo all’altro del mondo (tramite pubblicità, telegiornali) causano una serie di trasformazioni sul piano concettuale. Inoltre l’individuo, nell’Occidente surmoderno, tende a vivere in sé e per sé con le sue categorie interpretative. Per dirla in termini semplici, gli individui europei si ritrovano – tendenzialmente – soli e confusi, perfettamente in grado di riconoscere lo Skyline di una città che non hanno mai visitato (eccesso di spazio) ma assolutamente inetti per quanto riguarda il dare un senso alla storia (eccesso di tempo).
Ancora in questo senso, Augè rivendica, nel primo capitolo di Nonluoghi, l’importanza dell’antropologia come disciplina in grado di costruire una storiografia del presente, uno strumento in grado di fotografare lo stato attuale delle cose. Augè suggerisce che il futuro riserverà alle società e agli individui un sottotesto immutabile (parla di “fenomeni studiati dall’antropologia” che “non stanno per sparire” ma che avranno un nuovo senso) nascosto da una tale congiuntura, e che quindi, fondamentalmente, non troppo è cambiato.