L’ufficiale e la spia è purtroppo l’ennesima sciagurata abitudine della distribuzione nostrana di “tradurre” i titoli stranieri, tanto da renderli quasi incomprensibili allo spettatore. Il J’accuse di Polanski – tratto dall’omonimo romanzo di Robert Harris che ricostruisce fedelmente l’affaire che lacerò l’opinione pubblica francese per dodici lunghi anni – è un film pieno di tradimenti e di processi viziati dalle più alte cariche dell’esercito francese; un guazzabuglio di accuse e prove grossolanamente falsificate. Si può, in altre parole, notare come tutti i protagonisti della vicenda siano ovviamente degli ufficiali, compresa la spia stessa, che fa ben poco per nascondere le proprie tracce dopo la condanna di Alfred Dreyfus.
Non è la prima volta che il regista naturalizzato francese mette in scena un processo dove il verdetto pare già scritto (La morte e la fanciulla del 1994); ma se in quel caso si trattava della sete di vendetta di una vittima (Sigourney Weaver) contro il presunto carnefice che aveva abusato di lei durante una dittatura sudamericana; in questo caso la spiegazione è fin troppo banale… incapacità unita ad antisemitismo.
La pellicola si apre nel 1894 proprio con la degradazione pubblica dell’imputato, condannato dalla corte marziale, nel mezzo di una piazza d’armi di Parigi dove si è assiepata una vasta folla per assistere alla spogliazione dai gradi e dall’enfatico gesto di spezzare la spada dell’ufficiale indegno. È uno spettacolo tremendo vedere come tutti gli spettatori – compresi graduati e compagni d’arme – “godano” quasi fisicamente della gogna che Dreyfus subisce platealmente. “Una volta si gettavano i cristiani in pasto ai leoni” commenta sardonico uno degli ufficiali superiori rimarcando, se ce ne fosse bisogno, la religione del condannato. C’è sete di sangue, come se la punizione dell’ebreo sia un momento di riscatto di un esercito che ancora deve smaltire la sconfitta del 1871. Dreyfus viene relegato nel posto più orribile che la Repubblica abbia a disposizione: la famigerata Isola del diavolo; il più settentrionale degli scogli della Caienna; l’estrema punizione per i carcerati più incalliti. Ma neppure questo sembra abbastanza per chi se l’è intesa con il nemico germanico: l’ebreo deve restare in assoluto isolamento – nemmeno le guardie gli rivolgono parola – e la notte gli sono posti i ceppi ai piedi, come se potesse realmente scappare da qualche parte.
Ed è qui che il titolo italiano risuona doppiamente bugiardo perché indurrebbe a credere che George Picquart (un ispirato Jean Dujardin), da poco capo dei servizi segreti, indagando su una presunta spia scopra la verità e instauri un rapporto personale con la vittima, con l’imputato che decide di difendere; ma non è così. I due si vedono a malapena un paio di volte in tutta la vita e lo stesso Picquart fin dall’inizio manifesta la sua naturale avversità verso gli ebrei, finendo però per prendere le parti di Dreyfus per innato senso d’onestà e d’onore, gettando nello sconforto i superiori che sono atterriti da “un nuovo caso Dreyfus”. Il problema è che è proprio lo stesso caso di cui non vogliono più sentire parlare, tanto da ostacolarlo con ogni mezzo fino a sbatterlo perfino dietro le sbarre de La Santé.
La sceneggiatura scritta a quattro mani dal regista e dallo stesso scrittore è efficace proprio nel descrivere il diffuso e strisciante antisemitismo che pervadeva la Francia di fine Ottocento e, soprattutto, gli ambienti più conservatori come l’esercito. Non è un’abile spia a incastrare Dreyfus né un raffinato complotto ma, semplicemente, la negligenza di tutti gli inquirenti (dal precedente capo dei servizi segreti fino all’esperto calligrafo) uniti alla “naturale predisposizione” nel far ricadere la colpa su quest’odiosa minoranza sempre pronta alla cospirazione. Le stesse prove “inconfutabili” non sembrano così decisive, tanto da rendere necessario un “dossier segreto” basato su indizi più che discutibili per condannare l’ufficiale d’artiglieria, ma la commissione ha bisogno di un colpevole da gettare in pasto all’opinione pubblica e Dreyfus è perfetto allo scopo.
La punizione deve essere esemplare per dare un esempio ai nemici della Francia; poco importa se perfino il movente sia inconsistente: Dreyfus era ricco di famiglia e senza vizi, perché mai avrebbe tradito per denaro? A ogni modo il caso è chiuso e solo l’ostinazione del colonnello per scovare la “vera” spia permetterà di scoprire la verità, ma occorreranno dieci lunghissimi anni e diversi processi tra cui quello allo stesso Picquart, accusato di falsificare prove “al soldo dell’Internazionale ebraica”; quello intentato contro Émile Zola, reo di avere pubblicato su L’Aurore il famoso editoriale “J’Accuse…!” contro i vertici dell’esercito; addirittura, non basterà neppure il secondo processo a Dreyfus per ristabilire subito la sua innocenza e, ci sarà anche un duello – questa volta sì – tra un ufficiale e la spia.