Con la politica di potenza che torna a scuotere la scena internazionale e lo squarcio che si è aperto nell’illusoria “fine della storia”, l’edificio dell’Unione Europea si è riscoperto fragile ed esposto agli urti tra le sfere di influenza dei pesi massimi americano, russo e cinese. Se ci si fosse dimenticati che gli sviluppi del processo di integrazione europea dipendono dalla qualità delle interazioni che vengono a crearsi e che evolvono tra gli Stati promotori del disegno di Europa unita, le recenti crisi causate dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina hanno ribadito un dato di fatto essenziale per la comprensione delle sorti dell’Unione: ubi societas, ibi ius. E dall’attuale stato di deterioramento delle relazioni tra Francia, Italia e Germania, che hanno costituito il nucleo duro del club dei paesi promotori del progetto europeo fin dalla metà del Novecento, sorgono molti interrogativi e ben poche certezze.
Kerneuropa. Dal punto di svolta di Maastricht nel 1992 a oggi, a dettare i tempi di avanzamento è stata, in larga parte, l’idea di uno schema sovranazionale imperniato su un tandem franco-tedesco e fiancheggiato dall’Italia. Ma questa formula di spinta all’integrazione inizia ad emettere preoccupanti scricchiolii, come hanno dimostrato le vicende degli ultimi mesi. D’altronde, molte delle versioni di Europa unita che sono state immaginate non servono tanto a fotografare le prospettive più realistiche di unificazione europea, quanto a motivare l’autoesclusione di alcuni Stati da certe politiche comuni: Europa “a geometrie variabili”, Europa “a cerchi concentrici”, Europa “a due o più velocità”, Europa à la carte. Ora, dovrebbe apparire chiaro che anche la Kerneuropa a trazione franco-italo-tedesca riflette una concezione statocentrica che porta molti paesi del club UE a «perseguire i propri interessi vestendoli da europei», secondo quanto suggerito da Lucio Caracciolo in una sua recente analisi per La Stampa.
«La difficoltà sta nel fatto che i due Paesi [Germania e Francia, ndr] hanno concezioni divergenti e, a quanto pare, incompatibili sulla condivisione del potere, sulla natura delle istituzioni europee (soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra centro e periferia) e sul ruolo dell’impero liberale europeo sulla scena mondiale».
– Wolfgang Streeck, L’Europe, cet empire dont l’Allemagne n’est pas sûre de vouloir, Le Monde Diplomatique, Febbraio 2022)
Due modi differenti di intendere la leadership nello spazio europeo: quello tedesco, risentendo della forte interdipendenza commerciale e finanziaria con le altre economie europee, insiste sull’applicazione rigorosa dei criteri di convergenza economica, esigendo che l’intervento pubblico nel mercato interno da parte degli Stati sia ridotto al minimo, la politica monetaria venga affidata ai tecnici della Banca Centrale Europea e che vengano rispettate “quattro libertà fondamentalissime”, la libera circolazione di beni, capitali, servizi e persone, su cui vigila la Corte di Giustizia Europea; quello francese, invece, non può che puntellarsi sulla potenza politico-militare, con cui l’Eliseo si sforza di spostare gli equilibri in seno alle istituzioni europee, assicurandosi della stabilità economica dei paesi periferici e della convergenza su un comune indirizzo politico definito dai centri decisionali dell’Unione. Dalla svolta di Maastricht in poi, la classe dirigente italiana si è limitata ad adeguarsi alle ricette economiche di marca tedesca, senza riuscire a incidere, per giunta, sui processi decisionali europei con un peso paragonabile a quello di Parigi.
Ora, le leadership francese, italiana e tedesca potranno pure premere per una maggiore integrazione bilaterale, attraverso i Trattati di Aachen e del Quirinale e un probabile terzo trattato italo-tedesco, e mirare alla saldatura della Kerneuropa, che dovrebbe fungere da traino per il processo integrativo. Ma sembra consapevole la scelta di aggirare i grandi interrogativi che vanno alle radici del progetto rilanciato a Maastricht. Si può “fare la moneta senza prima aver fatto lo Stato europeo”? Come conferire un’anima all’Europa unita solo economicamente? Dovrebbe risultare ormai chiaro che l’approccio funzionalista su cui era impostato il progetto iniziale di unificazione europea stia tradendo le aspettative. Secondo la visione di Jean Monnet, sarebbe stato sufficiente che gli Stati del club europeo portassero a termine l’integrazione in un solo settore delle loro economie perché pressioni tecniche consentissero di proseguire il percorso con un altro settore e così via fino all’unificazione federale. Eppure, le divisioni storiche tra Stati restano e riemergono proprio nei momenti della verità segnati dalle grandi crisi contemporanee.
«Come la Merkel, il nuovo Cancelliere sarà intenzionato a salvare l’euro, non da ultimo garantendo che i membri dell’UE paghino i loro debiti. Ma, come ogni uomo d’affari che si rispetti, cercherà di ottenere ciò che vuole a un costo minimo. Ciò significa probabilmente che la Germania accetterà nuove forme di finanziamento diretto e indiretto degli Stati da parte della BCE, regole meno rigide sul debito pubblico, nuove linee di credito per l’Unione e, se necessario – e ce ne sarà bisogno – una nuova raccolta di debito per finanziare il piano di risanamento “Next Generation EU”. […] Secondo Berlino, per raggiungere questi obiettivi non sarebbe necessaria alcuna riforma delle istituzioni o revisione dei trattati (per non parlare del progetto di Costituzione europea dei Verdi), a patto che l’aumento del debito possa essere giustificato da una situazione di emergenza. E le emergenze non mancheranno».
– Wolfgang Streeck, L’Europe, cet empire dont l’Allemagne n’est pas sûre de vouloir, Le Monde Diplomatique, Febbraio 2022
La firma del Trattato di Aachen del 22 gennaio 2019, che richiamò alla memoria il Trattato dell’Eliseo sottoscritto 56 anni prima, si può identificare come un tentativo di accelerazione nel processo di integrazione a trazione franco-italo-tedesca. Con il nuovo trattato franco-tedesco, vennero individuati 15 obiettivi prioritari che Parigi e Berlino avrebbero perseguito in maniera congiunta, grazie alle consultazioni bilaterali del Consiglio dei ministri franco-tedesco istituito nel 2003 per iniziativa del presidente francese Jacques Chirac e del cancelliere tedesco Gerhard Schröder. Tra gli aspetti delle relazioni franco-tedesche che vengono menzionati nel trattato è utile mettere in risalto la creazione di un comitato di cooperazione transfrontaliera, una maggiore cooperazione all’interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, lo sviluppo di una cooperazione bilaterale ad alto livello in materia di energia e clima e la creazione di una piattaforma digitale franco-tedesca per la trasmissione di contenuti audiovisivi e programmi di informazione.
L’impulso dato all’integrazione europea non si è arrestato neppure nel bel mezzo della pandemia, tanto che la seconda tappa della costruzione del triangolo Parigi-Roma-Berlino è coincisa con la firma del Trattato del Quirinale, che il 26 novembre 2022 ha compiuto il suo primo anno. «Un nuovo capitolo per una casa franco-italiana o italo-francese» e un «momento storico nelle relazioni tra i due paesi», che condividono «gli stessi valori repubblicani, il rispetto per i diritti umani e l’europeismo», come l’ha definito il presidente francese Macron: nel trattato si fa riferimento a una cooperazione politica più forte e di carattere strutturale, una più intensa cooperazione per la sicurezza e la difesa, una cooperazione industriale e nei campi della ricerca e innovazione, nonché una gestione congiunta delle migrazioni nel Mediterraneo. Malgrado il tono celebrativo con cui il trattato è stato raccontato dai mass media, un dato allarmante, rimarcato dall’allora presidente del Copasir, il Sen. Adolfo Urso, è rappresentato dallo scarso coinvolgimento del Parlamento italiano nella fase di autorizzazione alla ratifica.
Primavera 2020. Con la proposta originaria del Recovery Fund – Next Generation EU, nelle ipotesi più ottimistiche, si apriva la strada alla creazione di un bilancio federale. Un piano di settecentocinquanta miliardi di euro varato dalla Commissione UE per far fronte allo shock pandemico le cui risorse sarebbero state raccolte con emissione di bond garantiti dal bilancio dell’Unione. Mentre gli Stati si sarebbero attivati per formulare dei Piani nazionali di ripresa e resilienza da presentare alla Commissione, la BCE dimostrava il proprio potenziale lanciando il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), con l’acquisto di titoli pubblici e privati per un ammontare di milleottocentocinquanta miliardi di euro fino a marzo 2022. Da un lato, si disse, si andava verso il superamento della tradizionale riluttanza degli Stati a cedere alle istituzioni sovranazionali la competenza in materia fiscale; dall’altro, la BCE diveniva “banca centrale nel pieno delle sue funzioni”. Ma quell’entusiasmo di ispirazione federalista si sarebbe rivelato prematuro.
Vecchie e nuove divergenze di vedute, principalmente in campo economico, sono tornate ad animare il dibattito nelle sedi europee e a complicare gli sforzi tesi a una maggiore integrazione tra Stati. Sarà sufficiente richiamare alla memoria i diversi ricorsi di costituzionalità, portati all’attenzione della Corte Federale Tedesca da comitati di cittadini tedeschi, che hanno ostacolato il consolidamento dell’Unione (non ultimo il ricorso contro la legge di ratifica della decisione sulle nuove risorse proprie destinate al Next Generation EU); ma anche le parole del ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner, che suonano come un avvertimento per il fronte meridionale dei paesi “irresponsabili”, Italia inclusa:
«La lotta all’inflazione è sempre associata a un rallentamento economico temporaneo, ma questo è il prezzo per fermare l’inflazione. […] Quello che possiamo fare è proteggere le aziende sane, le comunità in buona salute [e] dobbiamo attenuare i disagi sociali delle persone […]. Ma non possiamo operare con denaro preso a prestito come abbiamo fatto durante la pandemia di coronavirus».
-Christian Lindner a Bloomberg, 18 Settembre 2022
In tempi recenti, a partire dallo scoppio della guerra russo-ucraina, le frizioni tra vertici francesi, italiani e tedeschi si sono concentrate sulle politiche energetiche dell’Unione, sulla dimensione militare e sulla questione degli aiuti di Stato. Nel primo caso, il riferimento ovvio è alle accuse di eccessiva dipendenza dal gas russo mosse a Germania e Italia, da cui la Francia ha preso le distanze esaltando l’indipendenza garantita dal nucleare. Dopodiché, non deve stupire l’allarme che ha destato in Francia il piano di riarmo tedesco da cento miliardi di euro, quasi una “linea rossa” nel quadro della cooperazione franco-tedesca. Infine, al di là delle operazioni EDF in Francia e Uniper e Gazprom Germania GmbH nel contesto tedesco, grandissimo scalpore ha generato la manovra di duecento miliardi annunciata dal governo tedesco per tutelare consumatori e imprese nazionali dallo shock energetico. Ciononostante, di cambio di paradigma nelle politiche economiche dell’Unione il fronte dei “paesi frugali” a regia tedesca non sembra minimamente disposto a discutere e, con l’uscita dalla situazione emergenziale, verrà riattivato il Patto di Stabilità e Crescita, vero indicatore dei rapporti di forza economici e politici tra Germania, Francia e Italia.
Dopo il presunto aggravamento non solo delle relazioni italo-francesi, imputabile in un primo momento alla pretesa di Parigi di vigilare sul rispetto dei diritti in Italia e in un momento successivo allo scontro sulla gestione dei migranti salvati dalle navi ONG, ma anche di quelle franco-tedesche, viene naturale domandarsi se si sia chiusa una finestra di opportunità per il perfezionamento del “cantiere Kerneuropa”. Resterebbe forse un margine minimo per la stipula di un trattato italo-tedesco, che ricalchi i Trattati di Aachen e del Quirinale e per il quale sembra che sia da tempo al lavoro l’attuale ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Quel che è certo è che il governo tedesco, messo alle strette dai danni economici provocati dalla guerra, non ha intenzione di rinunciare al suo ostinato mercantilismo “con componenti cinesi”: e ciò non potrà che accentuare la competizione economica e politica nel mercato interno a scapito della cooperazione, con buona pace dei vagheggiamenti federalisti.