Intervista

“Se l’Europa non accelera sul fronte dell’autonomia strategica, questa guerra finirà per incentivare una periferizzazione dell’Europa”. La previsione di Michele Marchi

La vittoria di Macron e il futuro della Francia in Europa secondo il Professor Michele Marchi.
“Se l’Europa non accelera sul fronte dell’autonomia strategica, questa guerra finirà per incentivare una periferizzazione dell’Europa”. La previsione di Michele Marchi
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La vittoria di Macron alle recenti elezioni presidenziali è stata netta e, per certi versi, migliore del previsto; un risultato che è arrivato, però, all’ombra di una campagna elettorale a tinte scure, sovrastata dall’ombra della guerra in Ucraina e della crisi energetica, nonché avvolta dal consueto malumore in cui si dibattono ormai da tempo la maggior parte dei sistemi politici occidentali. Ogni vittoria politica arriva con un retrogusto amaro, quello delle scelte dettate più da uno stanco pragmatismo che da una viva partecipazione alla visione di un futuro che nessuno sa più disegnare con certezza. Nemmeno la vittoria di Macron sembra smarcarsi da questa amarezza di fondo, sebbene il Presidente francese abbia davanti a sé, oltre alle note grandi sfide, anche grandi opportunità. Di Macron e della sua Francia – e del destino che questa Francia cercherà di costruirsi in Europa e nel mondo – abbiamo parlato con lo storico Michele Marchi, professore dell’Università di Bologna esperto di storia politica francese, in trasferta a Parigi nel periodo elettorale.

Partiamo dalle elezioni e dalla situazione interna francese. Le elezioni presidenziali francesi si sono svolte certamente in un contesto particolare, quello della crisi russo-ucraina. Che effetto ha avuto sulla campagna elettorale?

Sicuramente le elezioni del 2022 sono state delle presidenziali peculiari. In generale, è mancato un grande tema mobilitante. Da questo punto di vista possiamo dire che il tema più discusso, stando anche alle indicazioni che arrivano dai sondaggi d’opinione e che lo ritengono la vera preoccupazione dei francesi, è quello della crisi del potere d’acquisto. Un tema che è stato cavalcato soprattutto da Marine Le Pen, mentre Macron aveva scelto come vessillo la riforma del sistema pensionistico e di un nuovo “patto generazionale”; vessillo che ha deposto – o quantomeno molto sfumato – nel passaggio al secondo turno, perché il discorso dell’innalzamento dell’età pensionistica costituisce una sorta di “linea del Piave” per gli elettori di Mélenchon, i cui voti sarebbero stati – e sono stati – fondamentali. Ma si è trattato in ogni caso di una campagna elettorale per certi aspetti mai decollata. Macron aveva deciso di entrare nel vivo della competizione il più tardi possibile, seguendo l’esempio dei suoi illustri predecessori: De Gaulle nel 1965 e Mitterrand nel 1988; in una certa fase aveva anche lasciato il dubbio se si sarebbe effettivamente ricandidato o meno. Alla fine, quando è entrato in campagna elettorale, eravamo già a una settimana dal 24 febbraio, e a quel punto tutta la campagna è stata condotta sullo sfondo della guerra.

Cosa ha significato questo per i due candidati poi passati al ballottaggio?

Per Macron è stato un fattore positivo. Se nei cinque anni di Presidenza aveva visto crescere l’ostilità nei suoi confronti – possiamo dire che sia nato un vero e proprio “antimacronismo” – nella prima fase di campagna elettorale questo ruolo di “comandante in capo” gli ha certamente giovato. È vero che nella fase conclusiva della campagna questa spinta è poi sfumata, ma la questione della guerra è rimasta invece come elemento molto problematico per Marine Le Pen, per due ragioni. La prima riguarda quella che possiamo chiamare “statura presidenziale”: è evidente che, nel momento in cui la Francia si è sentita impegnata sul fronte della politica estera, la “presidenziabilità” di Marine Le Pen ne ha risentito, non fosse altro che per ragioni di esperienza. La seconda ragione è contingente e riguarda i legami che Marine Le Pen e il Rassemblement National hanno con la Russia: non solo e non tanto per il sostegno o l’apprezzamento mostrati in passato per i sistemi autoritari, ma anche per ragioni oggettive legate al famoso prestito che il Rassemblement ha contratto con una banca russa e che è stato portato all’attenzione dei francesi proprio da Macron nel dibattito fra i due turni elettorali. “Quando parlate con la Russia voi parlate con il vostro banchiere” è una frase emblematica per questa campagna elettorale.

Perché si è trattato di un elemento così problematico per Marine Le Pen? Come viene percepita la figura di Putin in Francia? Ha lo stesso grado di popolarità di cui gode in Italia? 

Il “putinismo” così come è diffuso in Italia è totalmente assente nel dibattito francese. Il Paese è sicuramente diviso sulla scelta di appoggiare l’Ucraina con l’invio degli armamenti, però la linea di frattura è un po’ diversa. Il movimento di Mélenchon è ad esempio molto critico verso le soluzioni adottate. Accusa il governo di filoatlantismo, Macron “l’americano” di essere un “novello Sarkozy”. Però si fa molta attenzione a non superare la linea interpretativa, che viene al contrario abbondantemente superata in Italia, che chiama in causa le ragioni della Russia o quelle di Putin. L’unico che ha superato questa linea, peraltro in parte pagando questa scelta, è stato Zemmour, che fin dal primo giorno si è invece presentato come “filo-Putin”. Va sottolineato però che l’approccio di Zemmour è, diciamo così, più che altro etnico-religioso: Putin viene appoggiato in quanto difensore della religione, dell’unità dei cristiani bianchi di fronte alla crisi dell’Occidente sottoposto, nel caso francese in maniera evidente,al cosiddetto grand remplacement.

Già nel 2017 si era molto parlato di crisi dei partiti tradizionali e di crisi del bipolarismo alla francese. Possiamo dire che con questo turno elettorale questa diagnosi appaia confermata?

Sicuramente il 2022 chiude un po’ il cerchio, ma bisogna sottolineare che questa crisi del bipolarismo alla francese ha radici più lontane: il punto di non ritorno per i due partiti architrave della V repubblica, cioè delle famiglie politiche gollista e socialista, è il ballottaggio del 2002, con l’esclusione di Jospin e il duello tra Chirac e Jean Marie Le Pen. Le elezioni del 2007 e del 2012 hanno in parte mascherato questa crisi perché avevano riproposto il ballottaggio “classico” (Sarkozy-Royal e Sarkozy-Hollande). Se si va però a vedere i risultati ottenuti al terzo posto, già si notava una presenza importante del candidato centrista nel 2007 e nel 2012 la prima apparizione importante di Marine Le Pen. Insomma, la destrutturazione di questo bipolarismo parte da lontano. Certamente le ultime elezioni sono state disastrose, soprattutto per i socialisti che non sono arrivati nemmeno al 2 per cento, ma anche per la Pécresse che, rispetto a Fillon, che nel 2017 era stato al centro dello scandalo degli impieghi fittizi alla moglie, ha perso comunque 5 milioni di voti. Siamo dunque entrati nel quadro di una nuova tripolarizzazione: due blocchi alle estremità e questo blocco centrale di voti che al momento vengono raccolti dal Presidente Macron. 

Cosa ci dicono questi “blocchi” elettorali sulla Francia? Si è fatto spesso riferimento ad una Francia divisa a metà, è una divisione che è stata confermata dal voto?

Possiamo dire di sì. Soprattutto al ballottaggio i dati sulle “due France” sono impressionanti. Dei tre blocchi del primo turno quello di Marine Le Pen è senza dubbio il più omogeneo: si tratta dell’elettorato dei comuni medio-piccoli, della campagna e della zona peri-urbana. In generale, più ci si allontana dai centri urbani e più aumenta il voto del Rassemblement National. Al contrario, Macron ha raccolto soprattutto il voto nelle grandi città, nei grandi centri urbani e in quelle che i francesi chiamano métropoles. È interessante vedere poi come si è scomposto al secondo turno il blocco di Mélenchon. Il leader della France Insoumise aveva avuto voti soprattutto dalle periferie delle grandi città, in particolare da quelle a maggioranza araba o musulmana, ma, all’estremo opposto, anche dai quartieri più bourgeois-bohémien. Questo gruppo al secondo turno ha votato compattamente Macron, aumentando ancora di più la differenza tra grandi centri urbani e comuni medio-piccoli, dove Marine Le Pen ha superato Macron in oltre 1500 casi. 

Mélenchon ha definito Macron il Presidente “più male eletto” della storia della Repubblica. È una critica giusta?

No, non è vero. Macron ha preso 18,7 milioni di voti, che sono il terzo miglior risultato in termini di milioni di voti della storia della V Repubblica. Meglio di lui hanno fatto solo Chirac nel 2002, ma si trattava di un’elezione un po’ falsata, e lui stesso nel 2017. Il dato su cui riflettere è invece il fatto che tra una elezione e l’altra abbia perso ben due milioni di voti, mentre Marine Le Pen ne ha guadagnati 2,6. Ed è impressionante in generale la crescita che la destra lepenista ha avuto nel passaggio tra il padre e la figlia. È evidente che c’è un problema se il Presidente neoeletto nel 2017 che dalla Piramide du Louvre aveva dichiarato come obiettivo primario quello della riduzione del livello delle estreme, arriva alla vittoria nel 2022 con le estreme che – sebbene arbitrariamente sommate – arrivano al 55% nel primo turno.   

Il flusso di voti arrivato per Macron al ballottaggio non è detto arrivi al “terzo turno” delle legislative. È prevedibile una coabitazione?

È tutto da vedere. Anzi, al momento la ritengo abbastanza improbabile. È vero che i francesi si dichiarano per la maggior parte poco disponibili a dare una maggioranza a Macron nell’assemblea nazionale, ma sappiamo che un conto è rispondere ad un sondaggio, e un conto è mobilitarsi concretamente per il voto. Bisognerà dunque capire il livello di astensionismo, che avrà un peso determinante. Ci sono almeno tre ragioni per cui l’ipotesi di una coabitazione rimane abbastanza lontana. La prima ragione è legata al sistema elettorale, a doppio turno di circoscrizione, molto dipendente dalle dinamiche territoriali, e quindi molto legato a quanto i candidati sono effettivamente inseriti nel tessuto sociale della circoscrizione. La seconda ragione, legata alla prima, è che la crisi dei partiti tradizionali così evidente nelle presidenziali non lo è altrettanto nelle legislative: sia il partito socialista che quello post-gollista hanno ancora un forte radicamento territoriale e tanti eletti locali. Al contrario, la France Insoumise non ha assolutamente una rete territoriale, mentre il Rassemblement la sta iniziando a costruire ora. Neanche La République En Marche è un partito radicato, ma inizia ad avere una rete di affiliati che confluisce proprio dai socialisti e dai post-gollisti e poi può giovare comunque sull’”effetto trascinamento” dell’elezione presidenziale. La terza ragione, che può sembrare tecnica, è quella della soglia di sbarramento molto alta, che rende difficilissimi gli scontri triangolari. Nel 2017 se ne sono avuti solo 2 su 577. Ma nei duelli testa a testa le forze estreme sono difficilmente coalizzabili ed è più difficile che ottengano il seggio. C’è anche una quarta ragione, più materiale: quella legata ai rimborsi elettorali. Il fatto che i rimborsi siano dati sui voti e sulle candidature del primo turno fa sì che le candidature unitarie, come potrebbero essere quelle Le Pen-Zemmour, vengano in realtà scoraggiate.

C’è comunque del tempo prima delle legislative, tempo nel quale il governo Macron dovrà muovere i suoi primi passi. Quali sono le prime sfide da affrontare?

Possiamo dire intanto che Macron non avrà questa volta la sua luna di miele. Di questo sembra esserne consapevole, perché una volta eletto ha fatto un discorso poco macroniano, di grande umiltà, dicendo che avrebbe messo in soffitta l’idea del Presidente “Giove” e della verticalità del potere, parlando dunque di una discontinuità rispetto a sé stesso. Assisteremo ad una presidenza più consensuale? Vedremo. Ad ogni modo, le sfide che ha davanti sono sicuramente quella dell’organizzazione delle legislative. Poi dovrà prendere uno o due provvedimenti forti, che serviranno anche per la campagna elettorale, proprio sul tema del potere d’acquisto. Poi ha due grandi cantieri su cui lavorare: quello della transizione ecologica e quello della riforma pensionistica. Non dimentichiamo che Macron è stato votato, soprattutto al primo turno, dall’elettorato anziano, quello a cui l’innalzamento dell’età pensionistica importa sicuramente meno. Questo è un tema che va al di là della Francia: l’invecchiamento della popolazione e la centralità dei temi del welfare per la terza età sembra spingere in direzione di una crescita dell’astensionismo giovanile. Forse Macron ha anticipato i tempi su questo aspetto, ma è anche vero che insistere su questo tema gli farebbe perdere le legislative, quindi dovrà trovare un compromesso. E poi, naturalmente, c’è la grande questione del ruolo della Francia in Europa.

E arriviamo alla politica estera. Che bilancio traiamo dell’esperienza macroniana e quali prospettive ha? Possiamo dire che il Presidente francese abbia continuato la tradizione politica dei suoi predecessori?

Se la politica estera di Macron dal 2017 al 2022 si sia effettivamente inserita in modo coerente nella tradizione gaullo-mitterrandienne è un tema che è stato molto dibattuto e su questo si può vedere, ad esempio, il libro pubblicato l’anno scorso da Michel Duclos, La France dans le bouleversement du monde. A me pare che Macron sia stato senza dubbio un Presidente gaullo-mitterrandien. Cosa significa inserirsi in questa tradizione? Possiamo riassumere così: da un lato avere come elemento centrale della politica estera francese l’europeismo, nonché un certo tipo di atlantismo, che viene però declinato in maniera dialettica rispetto alla partecipazione della Francia al mondo occidentale o post-occidentale, a seconda che si parli della Guerra Fredda o del dopo Guerra Fredda. Poi c’è la centralità del multilateralismo, che è tipica appunto in questa linea di continuità che va dalla politica estera di De Gaulle e, passando per Pompidou e Giscard d’Estaing, arriva sino a Mitterrand. Questa linea si traduce, naturalmente, anche in un approccio particolare al legame con la Russia, che ha trovato concretezza e testimonianza nei tentativi portati avanti da Macron fino all’ultimo per mantenere aperto un canale diplomatico con Putin.

Spieghiamo meglio questo punto.

Non è certo una cosa nuova. Nella visione di un’Europa “dall’Atlantico agli Urali” De Gaulle si rivolgeva all’Unione Sovietica parlando della Russia, affermando che la Guerra Fredda era qualcosa di circostanziale, e che una volta chiusa quella parentesi sarebbe ritornata la Russia con la quale era dunque necessario mantenere dei legami, che era necessario mantenere ancorata all’Europa. Questo tradizionale dialogo con la Russia è stato poi mantenuto, anche in tempi più recenti: non dimentichiamo che a negoziare nel 2008 dopo lo scoppio della guerra di Georgia nell’agosto 2008 fu Sarkozy. Macron stesso aveva operato in tutto il suo quinquennato in questa direzione – tanto che Marine Le Pen ha cercato goffamente di fargli rendere conto dell’invito a Putin al forte di Brégançon e dell’invito aParigi prima del G7 di Biarritz nel 2019. Ma in realtà la necessità di rapportarsi con la Russia anche in questa occasione non mette in difficoltà il gaullo-mitterrandismo; potremmo anzi dire che in qualche modo lo incentivi, perché da questa situazione esce rafforzata la dimensione intermedia del gollo-mitterrandismo, ovvero l’attivo bilanciamento tra l’estremo dell’Occidente e l’estremo della Russia. 

Questa situazione, quindi, aiuta la Francia di Macron a concretizzare le aspirazioni di leadership in Europa?

Come abbiamo detto, l’europeismo è una parte fondamentale della tradizione di politica estera francese, e Macron l’ha ripreso pienamente. La componente di “attivismo europeo” è uno dei maggiori successi del quinquennato passato. I discorsi, oggi tornati in voga, sulla difesa europea e sull’autonomia strategica, sono discorsi che Macron aveva già affrontato alla Sorbona nel settembre 2017, discorsi che erano stati peraltro accolti oltre-Reno con un po’ di scetticismo sornione. La guerra in Ucraina sta confermando la validità di tutta una serie di affermazioni che Macron aveva fatto. Un altro fattore determinante nello scorso quinquennato è stata poi la pandemia: non bisogna dimenticare che a convincere Angela Merkel a fare il passo giusto verso il recovery fund è stato sicuramente Macron. Tra venti o trent’anni gli archivi ci daranno di questo conferma o smentita, ma ad oggi questo possiamo dire: il recovery fund non sarebbe assolutamente stato possibile senza il via libera tedesco, ma il forte volontarismo francese è stato determinante per spingere la Cancelliera in quella direzione.

Insomma, il dialogo con la Russia, il volontarismo sul tema del recovery, la lungimiranza nell’approcciare nuovamente la questione della difesa e dell’autonomia strategica europea sono tutti fattori che in qualche modo stanno cambiando gli equilibri interni all’Europa, in particolare nell’asse franco-tedesco, in favore della Francia. È corretto?

Su questo tema bisogna fare un passo indietro. Macron cinque anni fa aveva condotto la sua campagna elettorale sui temi dell’Europa. Da un lato perché Marine Le Pen all’epoca aveva fatto dell’antieuropeismo il suo cavallo di battaglia – tema in larga parte scomparso, sappiamo che dopo la pandemia e il recovery fund è molto più complicato essere “anti-europei”. Ma Macron aveva detto anche qualcos’altro in quella campagna elettorale: aveva detto che il Paese doveva essere riformato per colmare che quel gap ormai perennizzato tra Berlino e Parigi, in termini soprattutto di primato economico. Questo in parte gli è riuscito, probabilmente più per un rallentamento della Germania che per una crescita della Francia; ad ogni modo la Francia del 2022 è sicuramente meno lontana da Berlino di quella del 2017. In più, l’uscita di scena di Angela Merkel lascia a Macron uno spazio libero di agibilità in termini di leadership; questo è un fattore che non va trascurato. La leadership di Scholz al momento manca: sia per le difficoltà che ha nel gestire la coalizione semaforo, ma anche per la guerra in Ucraina. Abbiamo detto che questa guerra non mette in difficoltà la linea diplomatica del gollo-mitterrandismo; la Germania, al contrario, è in difficoltà: per le questioni energetiche, per l’esposizione commerciale del Paese, ma anche per la pesante eredità di Schroeder e dei suoi rapporti con Putin, che in termini assoluti sono molto peggiori del prestito al Rassemblement National. Vi è poi la questione della transizione energetica, dove è tornato centrale il tema del nucleare. La scelta di Angela Merkel di superamento dell’energia atomica sull’onda del disastro di Fukushima sarà sostenibile sul lungo periodo? Se questa scelta non dovesse venire confermata nei prossimi decenni, quanto peserà il fatto che la Francia abbia mantenuto viva la sua evoluzione in questo ambito? Al netto di tutto questo, possiamo dunque dire che vi sono spazi importanti di manovra per leadership francese. Non parliamo di un primato francese nell’asse, però sicuramente di riequilibrio dell’asse.

Riprendiamo il discorso dell’autonomia strategica. Anche in questo campo Parigi appare in vantaggio su Berlino, perlomeno sul piano retorico. La Germania è, a tratti, ancora troppo dipendente dagli Stati Uniti per svolgere un ruolo centrale in questo discorso.

Si è molto detto della scelta tedesca di aumentare considerevolmente la spesa militare, ma si è anche subito criticata la scelta di rivolgersi a un consorzio statunitense per l’acquisto dei caccia. Il problema che viene evidenziato è che senza un’industria europea della difesa non si può avere una difesa europea, e che se questa industria non nasce sull’asse franco-tedesco, allora non nascerà mai. Dunque il timore è che nel medio-lungo periodo, giacché l’aggressività russa non fa che aumentare i timori tedeschi e dunque il loro avvicinamento agli Stati Uniti, la guerra tra Russia e Ucraina finirà per allontanare ulteriormente Berlino da Parigi e in generale Berlino dall’idea della difesa europea. Qui bisognerebbe però allargare il discorso. Bisognerebbe guardare un po’ più dall’alto questa guerra. I giorni e le settimane che passano ci stanno facendo capire con maggiore chiarezza che in realtà il conflitto è un grande conflitto per procura tra la Russia e gli Stati Uniti. O, ancor più precisamente, tra gli Stati Uniti e la Cina. Bisognerebbe quindi capire quanto peserà il fattore cinese anche in un certo numero di riflessioni che il Cancelliere tedesco dovrà fare nei prossimi mesi e anni. Il riavvicinamento agli Stati Uniti potrebbe non avvenire senza un costo evidente: gli Stati Uniti chiederanno ad un certo punto il conto, alla Germania, rispetto a quei legami commerciali che la Germania stessa ha con la Cina. Anche in questa situazione la Francia sembra avere delle cartucce in più, perché paradossalmente crescendo meno, ed essendo quindi anche meno legata al gigante cinese, potrebbe ancora una volta assorbire meglio i contraccolpi di questa cosiddetta “nuova Guerra Fredda” – se Guerra Fredda sarà – tra Stati Uniti e Cina. Le questioni da sciogliere riguardo l’autonomia strategica dell’Europa sono dunque due: la prima riguarda la necessaria spinta dell’industria della difesa. Se nei prossimi cinque, dieci anni, non si va in questa direzione e non si gettano basi forti e concrete, sarà difficile parlare di autonomia strategica. E poi deve essere chiarito come si integri questa difesa europea con una NATO che la guerra russo-ucraina ha abbondantemente rianimato

Si rischia di fare i conti senza l’oste? Cosa ne pensano gli Stati Uniti dell’autonomia strategica?

Gli Stati Uniti mai come in questa fase, a mio parere, sarebbero disposti alla crescita di un nucleo forte di difesa europea

Spesso viene percepito esattamente il contrario. È abbastanza diffusa l’idea che gli Stati Uniti puntino ad indebolire l’Europa, invece che rafforzarla. 

Schematicamente: gli Stati Uniti vorrebbero ridurre a miti consigli Putin e poi, proprio sull’onda della costruzione di una difesa europea, e dunque di una maggiore autonomia strategica europea, fare quel disimpegno che era stato già impostato per potersi occupare d’altro, avendo la certezza di non veder nascere problemi sul continente europeo. A svolgere il ruolo di “gendarme”, in questo senso, va benissimo agli Stati Uniti che sia la Francia; anche meglio del Regno Unito, perché Londra ha un’altra missione, assieme all’Australia, nell’area del Pacifico, dove gli Stati Uniti sanno che probabilmente si combatterà la nuova guerra – calda o fredda – nei prossimi trenta o quaranta anni. Dunque, in Europa può essere solo la Francia a svolgere questo ruolo. La Germania continuerà ad avere i problemi che ha su questo fronte per i prossimi secoli. Non dobbiamo avere una visione della storia di medio periodo. Certamente bisognerà però vedere come la situazione evolverà: cosa farà Putin, ma anche cosa decideranno di fare gli stessi Stati Uniti, perché Biden è un leader molto debole, oltreché anziano. Bisognerà capire da chi verrà sostituito, e se verrà ripreso nuovamente il modello del pivot to Asia. In fin dei conti le amministrazioni Obama e Trump hanno contribuito entrambe alla crescita di Putin, disinteressandosi dell’area europea. Noi avevamo bisogno del gas, loro avevano bisogno di occuparsi della Cina, e si è lasciato che Putin giocasse le sue carte prima in Georgia e poi in Crimea. 

Con Biden quindi la situazione è cambiata?

La questione dello spionaggio è stata emblematica in questo senso. La CIA aveva predetto con una precisione assoluta l’invasione. I servizi segreti europei non hanno però creduto alle previsioni americane. Uno dei motivi per cui Macron ha continuato a parlare con Putin è perché le segnalazioni statunitensi non erano state prese sul serio, anche sull’onda del caso Iraq, e questo la dice lunga su quante scorie quel caso abbia lasciato negli ambienti dei servizi. L’idea era che la CIA si fosse talmente delegittimata con quell’operazione, che non era più in grado di fare spionaggio. Invece è impressionante la precisione delle previsioni. Questo è la dimostrazione di quanto l’amministrazione Biden sia tornata ad investire sull’Europa, anche in termini pratici, operativi. Il segretario della difesa Austin ha detto che l’obiettivo della guerra non è solo quello di difendere l’Ucraina, ma anche di diminuire la forza strategica di Putin. E questo obiettivo, con buona pace di molti commentatori, in realtà si sposa benissimo con un nuovo protagonismo europeo in termini di difesa e di autonomia strategica. 

Diminuzione del pericolo russo e disimpegno americano. Quale sarebbe il principale vantaggio per l’Europa, da un punto di vista strategico?

Sicuramente la possibilità di tornare a concentrarsi sul Mediterraneo. Il disimpegno statunitense nell’area europea significa maggiore spazio per l’Europa nel Mediterraneo. Bisogna però che sia un obiettivo chiaro, perché altrimenti una volta chiuso il fascicolo – sperando senza farci troppo male – dell’Ucraina, tornerà ad aprirsi quello delle tensioni nel Mediterraneo, che sono sempre lì, nonostante il grandangolo dell’informazione si sia fermato ora nell’est europeo. I riflessi della guerra in Ucraina si osservano peraltro anche in quelle aree: dal disimpegno francese nel Sahel, accelerato dalla guerra benché iniziato in precedenza, al disimpegno russo dalla Libia, e dunque allo spazio liberato per un nuovo protagonismo turco. Insomma, è un’opportunità che nasconde anche grandi rischi.

Ed è l’unico rischio?

No, ce ne è un altro importante: il rischio è che, se l’Europa a guida franco-tedesca non sfrutta questa potenziale finestra di opportunità per accelerare sul fronte dell’autonomia strategica, questa guerra finirà per incentivare una ulteriore “periferizzazione” dell’Europa, Russia compresa. Perché, se è vero che noi non vogliamo morire per Kiev, Pechino non vuole certo morire per Mosca o per il Donbass. Se l’Europa resta esposta sul fronte della guerra, indebolendosi anche economicamente, e dall’altro lato il “vero” conflitto si sposta tra la Cina e gli Stati Uniti, rischiamo che l’Europa resti ai margini del mondo. Allora il discorso dell’autonomia strategica diventa fondamentale proprio per contrastare questo rischio di “periferizzazione”; un’autonomia strategica che deve concretizzarsi innanzitutto sul tema energetico – perché è ancora impensabile fare a meno dell’ombrello nucleare NATO – e poi sul tema dell’industria della difesa.

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