Quanto succede in Ucraina in queste ore sorprende e mobilita. Non potrebbe essere altrimenti. Nella società digital globale, i siparietti più o meno calorosi di tifoseria geopolitica si ripetono secondo protocolli già sperimentati: no alla guerra, no ai cattivi, no ai cattivi che fanno la guerra. Ci sembra giusto. Anzi, giustissimo. Ad una più attenta analisi però, il dramma in corso non racconta nulla di nuovo, ma esprime la massima sintesi di uno scenario post Guerra fredda che ancora non ha trovato un equilibrio accettabile per tutti. Superata l’ottica bipolare dei blocchi contrapposti, sarebbe opportuno capire una volta per tutte quali siano le regole della convivenza nel condominio-Terra. Sarebbe opportuno in particolare intendere se ci sia bisogno di un amministratore e nel caso, magari, anche chi debba esserlo. Va chiarito in sostanza se l’idea più che plausibile di pacifica coesistenza debba essere gestita secondo linee guida proiettate nell’ambito di una globalizzazione irreversibile o se ci siano ancora i margini per mantenere ciascuno la propria cultura e il proprio diritto a modelli alternativi.
Per contestualizzare il concetto basta riferirsi all’anno zero del Secondo dopoguerra, il 1991. L’implosione dell’Unione Sovietica ha a tutti gli effetti fatto saltare gli equilibri che abbiamo dato per scontati dalla caduta di Hitler in poi. Soprattutto noi, caduti nel cesto ricco e abituati ad una vita da mantenuti in cui ci sono state garantite pappa, pace e pelle in cambio della semplice e banale sovranità. Tra effetti benèfici e traumatici che la frantumazione dell’impero comunista ha generato, ce n’è uno marginale in particolare su cui l’homo ignarus di Storia e soprattutto di Geografia ha bellamente sorvolato: cosa fare dei russi che vivono nelle ex repubbliche sovietiche. Anche se non ci fosse la guerra in Ucraina, non basterebbe fare spallucce. Il problema c’è ed esiste in misura diversa in quasi tutti gli Stati divenuti indipendenti dal 1991 in poi. Quando c’era l’URSS, i russi la facevano da padroni. Ivan Drago su Rocky IV era per tutti noi russo. In realtà avrebbe potuto essere lettone, lituano, estone, ucraino, bielorusso, georgiano, kazako e via dicendo… Del resto, la capitale dell’Unione Sovietica era Mosca, la moneta era il rublo e il russo era la lingua per tutta la federazione delle federazioni. Nell’iconografia collettiva dunque, l’Impero del male era accostato alla Russia e non a una qualsiasi delle altre repubbliche. Lo stesso Sting diceva che “…anche i russi amano i propri bambini…” e non per esempio i kirghizi, tanto per dirne una…
Ciò era causa e conseguenza di un dominio imperiale declinato nei secoli tra zar e compagni, in cui si sono sparpagliate negli angoli più remoti dell’Eurasia legioni di funzionari, dirigenti, generali, insegnanti, accademici e uomini di potere in genere. Pur salvando l’apporto degli altri (Stalin era georgiano ad esempio), la parte del leone l’hanno fatta per decenni i russi con conseguente radicamento di diverse generazioni di uomini nelle varie regioni dell’impero. Non è difficile imbattersi in uomini e donne alti, biondi e con gli occhi chiari nelle strade di Tashkent, Dushanbe, Tblisi, Yerevan tanto per fare un esempio. Sono i figli e i nipoti degli apparati di potere che per tutta la durata dell’URSS hanno amministrato, gestito e in qualche modo ottenuto privilegi.
A questi si affiancano intere comunità che a latere della “piccola Russia” generano quella ombrosa, emblematica e romantica Grande Russia, culla culturale e spirituale dai confini mobili che interessa in modo più o meno diretto tutto l’emisfero slavo. Dallo Scisma di Fozio in poi, tutto il mondo del cosiddetto Est si è ispirato ad una dimensione sempre più autonoma che per questioni demografiche ha finito per essere di volta in volta protetta (o minacciata) dal grande fratello russo. In mezzo ci sono questioni teologiche, etniche, culturali che abbracciano la vita dell’intero blocco euroasiatico. Le propaggini di questa grande narrazionestorica arrivano fino ai Balcani, dove la linea Est-Ovest si è configurata sotto aspetti diversi lungo la Sava con effetti spesso drammatici.
Per farla breve, il fatto che intere comunità vivano in terre che non ne riconoscono più la preponderanza o addirittura i diritti elementari, è un problema endemico degli Stati multinazionali che si sciolgono. Per riferirsi con due esempi all’Europa dell’ultimo secolo, è accaduto all’Impero Asburgico e alla Jugoslavia. Dalla crisi del primo è nata la Prima Guerra mondiale; da quella del secondo le quattro guerre nei Balcani degli anni Novanta. Come poteva non accadere anche all’Unione Sovietica? A dirla tutta, per ora anzi, ci è andata di lusso. L’implosione di macro-realtà politiche federate crea problemi a catena riparabili solo attraverso un lavoro di cucitura lento e puntiglioso che tenga conto degli interessi di tutti. Di tutti, va sottolineato più volte. Gli esseri umani però hanno memoria corta e tendono a dimenticarsi la Storia, materia principe che anziché trascurata dovrebbe essere studiata con molta più attenzione.
Il dato che milioni di russi vivano oggi in repubbliche esterne alla Federazione è oggettivo. In alcune di queste repubbliche, lo scioglimento dell’URSS non ha prodotto attriti interni. In parte questo è dovuto alla minore presenza percentuale sul resto della popolazione: in Azerbaijan ad esempio nel ’91 meno del 6% degli abitanti era di etnia russa. In altre, come la Bielorussia, la continuità politica con Mosca e un’evidente affinità storico culturale ha permesso un decorso più sereno. In altre ancora, come l’Uzbekistan, è stata la dipendenza economica a spegnere il sorgere di possibili conflittualità, nonostante lo strappo post sovietico non sia stato del tutto indolore.
Non tutte le Repubbliche sono rimaste però mani e piedi legati alla Russia. Su tutte l’esempio dei Paesi baltici, piccoli ecosistemi costretti con le brutte dalla storia (da Stalin più che altro) ad entrare nella grande famiglia sovietica. Riga, Vilnius e Tallin dal 1991 in poi hanno attuato una forte politica di derussificazione che ha creato tensioni molto serie, poco visibili a noi poveri occidentali. In Lettonia ed Estonia la percentuale di cittadini di origine russa residenti nel giorno della dichiarazione di indipendenza superava il terzo degli abitanti complessivi. L’ingresso successivo dei tre Paesi nell’Unione europea e soprattutto nella NATO non ha avuto conseguenze drammatiche solo perché la Russia dei primi anni 2000 era contorta nel processo di emancipazione dal decennio post-sovietico di Eltsin. Il neo arrivato Putin di allora era alle prese con la questione cecena e con il consolidamento degli apparati di potere di una Federazione immensa, appena appena in grado di camminare in una realtà “aspirante liberale” post-comunista e post-imperiale. Oggi con ogni certezza sarebbe impossibile.
Lo stesso principio è valso per le nazioni del blocco sovietico esterne all’URSS ma parte del Patto di Varsavia. Il fuggi-fuggi verso Occidente (UE e NATO) è stato possibile grazie alla debolezza russa di allora non da chissà quali ragionamenti o lungimiranze. In altri termini, le sirene euro-americane hanno avuto un effetto dirompente per manifesta inferiorità del potenziale avversario. Quanto succede oggi in Ucraina non è diverso nella sostanza; avviene solo in un contesto storico diverso, tra l’altro caratterizzato dalla quasi totale mancanza di statisti di caratura credibile ad Occidente.
Cronologicamente parlando, i segnali c’erano già nel 2008, quando la Russia di Putin era già strutturata e pronta a recitare di nuovo il ruolo di grande potenza, se non globale almeno macroregionale. Il campo di battaglia fu allora la Georgia, anche allora durante le Olimpiadi di Pechino (che evidentemente portano male…). Il casus belli fu l’Ossezia, divisa tra Georgia e Federazione russa. Gli osseti, affini in tutto e per tutto ai russi, reclamavano la riunificazione sotto l’egida di Mosca o quantomeno il mantenimento di una forte autonomia non più garantita dalla nuova Georgia. Tblisi, inebriata e sedotta dal possibile ingresso nella NATO e nella UE, forzò la mano. Mosca,non più debole, reagì usando una forza sproporzionata a cui non eravamo più abituati. Di quella guerra di 5 giorni non si ricorda quasi nessuno, così come del fatto che i russi vinsero e l’Ossezia del Sud di fatto si è staccata da Tbilisi. Le promesse fatte da Bush alla Georgia non solo erano difficili da mantenere ma seppur su piccola scala, si rivelarono tragiche: le guerre, anche se a casa degli altri, portano i morti e come detto in cima, questo non va affatto bene. Tutto ciò ovviamente al netto del giudizio che si può esprimere sulla modalità più che discutibili con cui i russi intendono spesso far valere i loro diritti.
Se la Georgia conta assai poco in termini strategici, economici e demografici, lo stesso non si può dire per l’Ucraina. Nel secondo Paese slavo del pianeta, si sovrappongono strati di storia che intrecciano l’Est e l’Ovest nel senso più ampio del termine. Kiev con Mosca e Pietroburgo fa parte del triangolo culturale russogeno ma al tempo stesso è la città “imperiale” più mischiata con l’occidente. Geograficamente posizionata in modo ideale per creare attriti fra il mondo “di qua” e quello “di là”, porta numeri che nessuna delle altre repubbliche ex sovietiche forniscono.L’Ucraina, riconosciuta a tutti gli effetti nel consesso delle nazioni è anche la terra di mezzo dove si snoda il blocco euroasiatico. A questo si sommano i retaggi ideologici mai risolti che iniziando con la Rivoluzione del 1917 hanno trovato sfogo nell’Operazione Barbarossa e nella successiva vendetta sovietica. Le insegne naziste e quelle bolsceviche che a tratti campeggiano tra le parti al fronte in queste ore, sono sovrapposizione di rancori storici che non possono essere aggirati con una faciloneria da sceriffo. A questo si somma la pressione del credo ortodosso, congelato negli anni comunisti, ma che infervora e trascina gli uomini dell’Est (da entrambi i lati) in un modo che noi occidentali abbiamo smesso di capire da almeno tre secoli.
Sarà difficile venir fuori dal pantano in cui l’Europa si è cacciata. Molto difficile. Fatto ineluttabile però è che per trovare nuovi equilibri i primi a parlare dovrebbero essere gli attori interessati. Quando qualcuno si inserisce da lontano senza capire ma con la pretesa di farlo, la Storia con la s maiuscola di solito risponde male. Questa guerra è sbagliata come tutte le guerre. Ma è frutto di errori che dal 2014 in poi sono stati reiterati, sottovalutati,raccontati male. Adesso ne paghiamo tutti le conseguenze.