Se si dovesse tracciare una storia dei molteplici e fertili campi dell’anarchismo statunitense, TAZ (e in generale la figura di Hakim Bey) sarebbero capitoli irrinunciabili per almeno un motivo. Il successo incredibile che ha raggiunto pur essendo un testo così “di nicchia”. Tradotto praticamente in tutto il mondo, conosciuto di nome dalla maggior parte dell’accademia, TAZ ha senz’altro preso i crismi di un testo generazionale, e molta anarchia posteriore si è rapportata con questo concetto (la Temporary Autonomous Zone-TAZ appunto) cercando di trarne una lezione definitiva. Alcuni (la CHAZ del 2020) hanno cercato di attualizzare il concetto, di predisporlo in atto, ma l’esperienza si è rivelata un gigantesco fallimento,forse non per colpa di Bey.
Bey prende a piene mani dalla categoria storica delle Utopie Pirate, spiegate come il proliferare degenerato (in senso di non controllato) di “esperimenti del vivere”. La TAZ, essendo una ontologica rinuncia alla società, è incomprensibile per il capitale anche e soprattutto per la sua dichiarata caducità. Il momento in cui la TAZ viene fondata, è anche l’inizio del suo disgregamento. L’invisibilità è una caratteristica fondante della TAZ e le consente di essere praticamente invulnerabile, fintanto che non si materializza per quel breve periodo che le è necessario per lasciare un segno. Questa rinuncia ad un progetto rivoluzionario a lungo termine, porta Bey a indicare il concetto stesso di rivoluzione come una convenzione, uno strumento e non un fine. Come una mappa (che prima ancora che uno strumento è una convenzione -asserisce Bey- perché appiattisce e svuota gli spazi che disegna) il concetto di rivoluzione non è altro che un modo strumentale da parte del capitale per convenzionare le singole deviazioni; un modo insomma, di tradurre qualcosa di ontologicamente altro nella propria lingua. L’esperienza della Fiume Dannunziana, per Bey, non è un tentativo rivoluzionario, è altro, ben altro rispetto a ciò che viene semplicemente bollato come rivoluzionario. È una mobilitazione di anime affini, un tentativo (saldamente ancorato al suo inevitabile insuccesso) di ripensare i concetti radicali del vivere sociale, una TAZ, insomma, nel senso più esemplare del termine.
Proprio alla luce dell’esperienza Dannunziana si spiega un punto cardine non solo di questo testo, ma tutta l’esperienza di Bey. La pietra angolare su cui instaurare il discorso TAZ non è la famiglia nucleare – prodotto perfetto del capitale- ma il clan, l’informale unirsi di individui intorno ad un capovolgimento delle logiche attuali. Un clan egualitario, libero, che allontana da sé il principio dell’autorità e ,seppur destinato a soccombere entro poco tempo, che prenderà altre forme nel futuro ripresentandosi con la stessa rabbia e forza di sempre.
Ciò che è senz’altro ammirevole della fatica di Bey è il suo tentativo di unire in un ideale abbraccio tutti (o quasi) gli esperimenti di profonda alterità, i modi di vivere alternativi che si sono susseguiti nel corso dei secoli, creando -in un certo senso contro i suoi stessi auspici in TAZ- una sorta di stato di mobilitazione perenne degli uomini liberi -individui liberi- contro i controllori e i potenti di ogni epoca. Ciò che è decisamente meno a fuoco è – a parte l’effettiva efficacia di alcune sue categorie, come vedremo in seguito- l’ effettiva applicazione di questo stato di mobilità, perenne e caotico, nel mondo di tutti i giorni. Per Bey, non esiste un atto potenzialmente libertario (Bey usa “libertario” come se volesse dire rivoluzionario, ma individualmente) perché ciò che è sovversivo in potenza lo è già. Sulla scorta di questo ragionamento, afferma, i festival e persino gli incontri a tavola informali hanno un potere immenso, poiché sovvertono l’equazione alla base del capitale (spettacolo+merce) e si concentrano sull’affetto.
Sulla scorta delle riflessioni di antropologi come Bataille, Bey disegna questi festival in cui vige il baratto, in cui si possono vivere esperimenti di convivenza mutuati da altre culture. Ma come si potrebbe osservare, questi presunti moti di liberazione individuale collettiva, quando anche non fossero divertissement estemporanei, non riescono mai davvero ad uscire dalle logiche reti del potere globale. Anche nella migliore delle ipotesi, se io avessi prodotto il mio formaggio, con dei capi di bestiame non comprati, su un pezzo di terra mio da generazioni, con il vino pestato a mano da un altro dei convitati; comunque la logica mercificante e di mercato non può essere abbandonata perché almeno qualcosa di quello che ho sulla tavola è stato comprato, ed è stato comprato nutrendo la rete. L’unico sforzo che i festival e i pranzi possono compiere per mantenersi “puri” è l’auto segregazione in clandestinità, la sparizione temporanea (ed è per questo, forse un po’ superficialmente, che Hakim Bey è conosciuto soprattutto come il filosofo dei rave). E se questo sembra esattamente l’esito auspicato da Bey per la TAZ, è assolutamente evidente come sia un’enorme limitazione se si parla di vere proposte di mobilitazione. Insomma, se i rave e i pranzi sono equivalenti all’esperienza fiumana o agli statuti pirata (in quanto tutti atti sovversivi e temporanei della stessa validità) non si capisce bene quale dovrebbe essere allora il senso di organizzare degli “esperimenti del vivere” eclatanti quando basterebbe andare a pranzo.
Ancora, Bey tratteggia, lucidamente a nostro avviso, una originale rivisitazione in positivo dell’individuo sradicato post-moderno, introducendo il concetto di “Nomadismo Psichico”. La Post-Ideologia ha creato una possibilità praticamente infinita per gli individui: la “migrazione di concetti” globale da cui ognuno può attingere senza il vincolo dell’appartenenza. Tale possibilità è tattica, in quanto consentirebbe agli individui di negare l’uniformazione sociale del capitalismo globale; e sarebbe inoltre una scintilla tramite la quale gli individui potrebbero cristallizzare le proprie voglie antagoniste al sistema. E ricordiamo che per Bey, la sovversione in potenza è già un atto sovversivo.
Questi individui sovversivi, questi nomadi psichici sono tra gli elementi più riusciti del testo, soprattutto in ottica libertaria, perché uniscono idealmente una dimensione materialista del contrasto con una dimensione mistica che rende l’opposizione al controllo ancora più ontologicamente irriducibile.
Hakim Bey è stato anche conosciuto come l’autore (o come uno degli autori) che diede dignità al cyberpunk in ottica di agibilità politica e questo per una sua felice intuizione, descritta in maniera vaga e immaginifica come nel suo stile, ma affascinante perché raffinata nelle sue ricadute. L’esistenza di strumenti di controllo sempre più sensibili e capillari è un problema, ma non sarà mai possibile controllare ogni spazio ed ogni luogo. Anzi, spesso sono proprio quegli stessi strumenti a creare interstizi invisibili in cui la sovversione prolifera. Come Internet, per esempio. Su Internet il potere ha instato la sua rete, anzi , Rete di connessioni lineari e controllate, ma allo stesso tempo, su quella stessa rete, individui liberi hanno tessuto la propria Tela di scambi informali, piccoli e grandi illegalismi, esperimenti di liberazione, compravendita di stupefacenti. La Tela -che per Bey è un concetto antitetico alla Rete quanto la TAZ lo è al capitale- è il supporto principale per la TAZ, le consente di fare coagulare idee e concetti per spuntare fuori e poi, una volta dissolta, ne conserva la storia e i ricordi. E, cosa più importante in assoluto, è che la Tela non sarà mai distrutta, perché il controllo totale è impossibile.
Per quanto questo concetto possa far pensare che Bey nutrisse una particolare predilezione per il mezzo tecnologico in un’ottica liberatoria, questi chiarisce subito alcuni punti originali. Innanzitutto, la TAZ può nascere solo da una rinuncia al controllo sulla tecnica, sia essa militare, meccanica o tecnologica. Non vi deve essere uno spazio verticistico o un’appropriazione epifanica della propria identità digitale. La tecnica è uno strumento come un altro.
Considerato inoltre che la TAZ non fa altro che amplificare il potenziale sovversivo già presente dentro ogni individuo (nomade psichico) che vi partecipa e che vive nel qui e ora, la dicotomia accelerazionismo–decelerazionismo è vista da Bey come un’ingenuità intellettuale. Innanzitutto di entrambi riprova il monomaterialismo, la fissazione per cui il controllo della tecnica sia il punto cardine dell’antropologia. Del primo, in più, sottolinea la vacuità. L’uomo non sarà liberato e sovversivo quando il sistema sarà crollato per troppa ibridazione, l’uomo è sempre stato sovversivo e libero, senza bisogno di fondersi con le macchine e accettare barbari esperimenti di controllo. Dell’altro critica l’ingenuità di voler andare contro la storia, negando che si possa agire in maniera organicamente sovversiva anche attraverso strumenti tecnologicamente avanzati.
Le velleità misticheggianti di Bey sono ben evidenti nel suo stile turbinante e immaginifico, molto creativo e molto metaforico, senz’altro dal sapore vagamente iniziatico, sebbene la sua penna raggiunga interessanti momenti di cristallina lucidità. Nonostante ciò, TAZ sembra un testo mutilo, di cui manca l’effettiva conclusione. Il ragionamento intorno a questi momenti di profondi esperimenti (di cui Bey traccia una storiografia affascinante) resta senza una fine, non si riesce bene a capire -per fare l’obiezione più ovvia- quale sia il confine fra l’insorgenza spontanea di queste TAZ e la loro situazione (quand’è che una TAZ si disgrega? Chi è nella TAZ può vivere il mondo civile? In caso affermativo quale sarebbe il senso della TAZ? In caso negativo, dove vanno quando si disgrega la TAZ?) . Alla lettura ha dato spesso l’impressione di non essere un manifesto programmatico, né una riflessione politica. Molto probabilmente TAZ è un trattato sulla resilienza dell’idea sovversiva, un prontuario di tattiche ad uso di chi vuole “vivere fuori”, un primo passo verso la “Jihad” ( in senso di “sforzo”) anticapitalista che descriverà in “Millennium”.