-Partiamo dall’attualità, rimettiamo in fila i punti della tesi iniziale del libro. Come si arriva dalle politiche (come sappiamo, ancora perlopiù sulla carta e non nelle reti elettriche) per la transizione green all’inflazione?
Il forte rally del prezzo delle materie prime e dei beni energetici al quale abbiamo assistito negli ultimi due anni, deriva innanzitutto da un cambio di politica monetaria e fiscale strutturale implementata nel corso del 2020 durante la crisi pandemica. L’input principale è arrivato dagli Stati Uniti d’America, i quali hanno apportato due importanti cambiamenti: uno sul fronte monetario e uno sul piano fiscale. Sul fronte monetario la Federal Reserve – che ha il doppio mandato di stabilità dei prezzi come la BCE, ma anche della piena occupazione. Ad aprile 2020 la Federal Reserve ha assegnato alla piena sostenibilità una maggiore importanza rispetto alla stabilità dei prezzi, facendo leggere ai mercati ciò come un segnale di maggiore tolleranza nei confronti di un aumento d’inflazione. Il timore sull’impatto delle politiche di lockdown ha inoltre indotto in particolare gli Stati Uniti d’America, sempre attenti alla concorrenza cinese – laddove le fabbriche di Pechino sono state più veloci nel riaprire i battenti – a implementare per la prima volta dal secondo dopoguerra un imponente piano di stimolo fiscale.
Questa è una grande differenza rispetto alla crisi del 2008, che venne affrontata solo con stimoli di carattere monetario. Nell’insieme gli stimoli di carattere fiscale e monetario immessi nell’economia mondiale hanno superato i 30.000 miliardi di dollari. Senza questo elemento alla base dei nostri ragionamenti il rally dei prezzi di materia prima ed energia sarebbe stato più contenuto. Come si evidenzia nel quesito vi sono state dinamiche, affrontate anche nel mio libro, più politiche, che hanno aggravato il problema. Tra queste si inseriscono le politiche climatiche, le quali sono state vendute al grande pubblico come un free lunch, senza descriverne con accuratezza gli effetti collaterali. Gli effetti collaterali sono inflazionistici, poiché essendo spinte dalla finanza le politiche climatiche condizionano gli investimenti futuri delle major energetiche e minerarie.
Quando si impongono target molto stringenti sulle emissioni di CO2 si condizionano investimenti futuri delle aziende, le quali per avere l’etichetta di sostenibilità sono costrette a cambiare completamente la propria mission. Un esempio è rappresentato dalla Shell, i cui i piani di investimenti futuri sono concentrati nella costruzione di parchi eolici offshore o nell’installazione di colonnine elettriche in Gran Bretagna, a decremento di nuovi investimenti in nuova capacità fossile. La capacità fossile è però necessaria in un momento in cui il mondo sta transitando verso la decarbonizzazione e laddove la gran parte dei consumi è ancora rappresentato da petrolio, carbone e gas.
Dinanzi alla prospettiva di non assistere a nuovi investimenti di espansione di combustibile fossile il mercato è andato in panico. Questa prospettiva ha portato inoltre ad acuire la tensione sul lato dell’offerta di gas e carbone producendo le impennate di prezzo dello scorso anno, tramutatesi poi in un aggravio della bolletta in questi mesi. Si deve far luce sugli effetti collaterali di queste politiche che non contesto nel merito, ma nel metodo; ossia nell’eccessiva velocità e zelo con le quali vengono perseguite con il rischio di costi sociali importanti. Ad oggi sta passando il concetto secondo il quale quanto sta avvenendo è solo un aspetto temporaneo, quando è insito nelle politiche climatiche di sollecitare nel lungo termine il mercato energetico. Il punto è disincentivare nuovi investimenti delle aziende petroliferi e minerarie ponendo dubbi sullo sviluppo nei prossimi anni.
-Transizione e crescita. La Commissione europea ha deciso di puntare sulla transizione non come “prezzo da pagare” ma come “scelta su cui investire”, cioè assumendo che prima o poi questo investimento dia dei frutti, non solo ambientali e “morali” ma anche economici. è un’ipotesi sensata? Rendere verde la propria produzione industriale è una scelta di marketing che può pagare su scala mondiale?
Dipende dai fondi a disposizione, le élite europee non possono chiedere a una società già colpita da una compressione dei salari ulteriori sacrifici. Dinanzi alla scelta tra la sopravvivenza domani e un obiettivo di lungo termine sul tema ambientale, questo non lo si può scaricare direttamente sui cittadini. Siamo giunti al punto in cui al fossile va accompagnato anche uno sviluppo del rinnovabile, ma questi devono andare di pari passo. L’Europa, decidendo di percorrere questa strada, deve essere consapevole che ha un alto costo. Lo si vede in questi giorni con un differenziale enorme che si è costruito tra un’inflazione europea e americana e quella cinese: in Cina l’inflazione si attesta al 0,9% a fronte del 5,0% in Europa, il che tramuta il gap inflazionistico in competitività a favore dei prodotti cinesi. Per evitare che il mercato interno sia invaso non si può far altro che alzare il protezionismo di cui la CBAM è l’emblema, la Carbon BorderTax che entrerà in vigore dal 2023.
La propria oasi verde, la propria macroarea che ricalca il modello di una “grande Singapore” necessita di alcune misure come l’aumento dei salari, l’abbandono delle politiche deflazionistiche, che da sempre sono perseguite dall’Unione europea. Non si può pretendere di mantenere un modello economico mercantilistico – basato su esportazioni e salari bassi – e al contempo renderlo totalmente green. Nel lungo termine questa compresenza non reggerà. La sfida delle politiche climatiche rappresenta un banco di prova maggiore di quella affrontata nel 2011 con la crisi dei debiti sovrani. I fini nobili attinenti all’ambiente e a una maggior indipendenza economica nascondo dei costi sociali. Siamo sicuri di perseguire l’indipendenza energetica quando è aumentata la dipendenza di gas nei confronti della Russia? Si aggiunga che la filiera dell’elettrico è dipendente dalla filiera cinese.
Essendo il continente europeo non particolarmente ricco di materie prime, si deve fare i conti con una dipendenza sul fronte energetico. Ciò non è necessariamente una debolezza nella misura in cui si diversificano al massimo le fonti di approvvigionamento, sia geograficamente che in termini di applicazione. Il green va benissimo in un’ottica di diversificazione, ma permane una grande difficoltà nel distribuire su un arco temporale decennale un cambiamento di tale portata su un sistema che dura da oltre cent’anni. Altrimenti ci si pone in posizione di dipendenza da altri paesi, ad esempio il cobalto proviene dal Congo che è tutto fuorché in linea con gli standard di compliance internazionali. Il rame fondamentalmente proviene dal Cile, paese stabile ma geograficamente molto lontano; soprattutto in momento in cui le catene di valore si stanno spaccando, l’Europa che ne imposta una su una tratta transoceanica.
-Nel libro ci si riferisce spesso, anche se in maniera implicita, al famoso trilemma energetico: economicità, sostenibilità ambientale e sicurezza delle fonti energetiche. In questi mesi stiamo vedendo che quando uno dei vertici vacilla (controllo sulle riserve e approvvigionamenti) le ripercussioni sugli altri due sono immediati (aumento prezzi, riapertura centrali a carbone, etc.). Chi o cosa impedisce oggi all’Europa di rafforzare la sua sicurezza energetica?
Serve pragmatismo, ossia la capacità di essere flessibili dinanzi a un mondo che cambia. La liberalizzazione del mercato del gas non è di per sé un male, avendo permesso ai buyer europei di avere forniture con un prezzo vantaggioso. Il punto risiede però nella costatazione che il mercato nell’ultimo biennio è mutato – ove una ideologia super liberista si è fissata su un sistema che non performa in fase di salita di prezzo – non prevedendo e senza aver mezzi adatti ad affrontare una situazione che ho anticipato nel libro. E parimenti difficile – per chi non è un’analista come me – è avere una lettura chiara dei fenomeni, laddove è diabolico non mutare il proprio atteggiamento dinanzi un mondo che è mutato. Ciò che distingue ad esempio un bravo trader da chi non lo è: la capacità non risiede nel poter prevedere le cose, ma nella capacità e flessibilità con cui ci si adatta al cambiamento. L’Europa deve cambiare il proprio approccio riformando il Green Deal, spingere su contratti a lungo termine ed estendere il più possibile il parco fornitori. Inoltre, si deve riformare il sistema di pricing del mercato elettrico che oggi rappresenta un vantaggio enorme per coloro che producono green, i quali vendono le proprie materie – prodotte a un prezzo molto basso – come se fosse gas.
-CBAM, ETS e in generale tutte le misure per l’ambiente che alcuni paesi vogliono mettere in piedi e altri no. In questi giorni mi è venuta in mente una domanda, forse ingenua: non si potrebbe vincolare l’entrata in vigore delle nostre misure (ad es., un certo target di prezzo della CO2 in Europa) al raggiungimento di soglie minime da parte di altri Paesi (ad es., il prezzo della CO2 in Cina)?
L’Unione Europea ha l’ambizione/presunzione che perseguendo delle politiche climatiche molto stringenti costringerà il resto del mondo a seguirla. Il resto del mondo però, a differenza dei policy maker europei, ha come obiettivo primario la tutela della propria industria. La Cina ha inaugurato anch’essa un sistema di trading sull’emissione di CO2, laddove il prezzo della CO2 in Cina è di 6$, negli USA ha un valore che non supera i 10$ e da noi si attesta intorno ai 100$. L’Unione europea sta giocando su una politica isolazionista che non dialoga con il mondo dell’industria. Nel lungo termine si arriverà “probabilmente” a un prezzo globale della Co2, ma la velocità non sarà dettata dal Vecchio Continente. Già nel mercato dell’acciaio si vede come la globalizzazione sia ormai spacchettata. Abbiamo tre mercati: uno cinese, uno europeo e uno americano. È in atto un tentativo di uniformare il mercato dell’acciaio atlantico, ma al contempo il mercato cinese viaggia attraverso delle proprie dinamiche che lo rendono molto più competitivo.
-Si discute spesso dell’ipotesi di impostare catene del valore parallele, divisi lungo linee di confine geopolitiche, la principale delle quali è quella che separa Usa e Cina (e rispettivi alleati). Due domande, una economica e una politica (ma forse la risposta sarà necessariamente unica): 1) a chi conviene, e a chi non conviene, fare questa scelta e pagare gli enormi costi di ri-strutturazione/duplicazione delle supply chain? 2) è una prospettiva che mette a rischio o rinforza la pace e la stabilità del pianeta?
Nell’ultimo biennio il più grande cambiamento che è avvenuto, oltre all’adozione delle politiche climatiche, è stata la spaccatura delle supply chain mondiali. La pandemia ha evidenziato quanto le economie possano essere vulnerabili nel caso in cui si assiste al rallentamento dei flussi commerciali di natura globale. Il comparto tedesco dell’automotive è in crisi per la difficoltà di approvvigionamento dei semiconduttori dall’Asia. È necessario comprendere a quale livello possa essere ripristinata la globalizzazione per come la conoscevamo prima della pandemia e comprendere cosa sia ormai strutturale. Ritengo che sia stia procedendo verso uno scenario di de-globalizzazione, il che non significa che non ci sarà più un’interdipendenza commerciale, ma che vi saranno meno linearità e fluidità nelle lunghe catene di valore.
Questo scenario impone una questione relativa alla reindustrializzazione con il fine di accorciare le catene del valore, ponendosi come una grande sfida per le leadership industriali e soprattutto quelle politiche. La stessa Unione europea ha in parte compreso il problema, ad esempio annunciando recentemente il Chip Act. Vi è maggiore consapevolezza, ma ciò non basta. Si deve ricreare un environment industriale, il quale necessità di una base che lo sostenga attraverso la crescita dei salari. Il rischio altrimenti è creare delle monadi industriali sempre meno aderenti alla realtà. Il reshoring, che è inflazionistico come lo è la de-globalizzazione, crea una perdita del poter d’acquisto dei consumatori che deve essere compensato da una crescita dei salari, in un sistema che comunque è circolare. Un governo dovrebbe adoperarsi per non far impattare eccessivamente l’aumento dei salari sulle aziende, le quali sono già stritolate dai costi di materie prime e energia. Per il suddetto motivo proporrò presto – anche attraverso un’analisi di prossima pubblicazione – un piano di forte detassazione sugli utili reinvestiti sia in investimenti produttivi che in occupazione.
-Verso la fine del libro si parla dell’asimmetria dei tassi di natalità nelle varie zone del mondo, in particolare dei bassi livelli che affliggono i paesi occidentali. Quali sono i vantaggi e i limiti nell’analizzare la natalità come “materia rara” anch’essa?
Le pressioni inflazionistiche presentano delle sollecitazioni rialzistiche – legate non solo alle materie prime e ai beni energetici – i cui picchi si andranno a stemperare, pur mantenendo dei livelli base maggiori al periodo antecedente al Covid. Ulteriore elemento strutturale che contribuirà al rialzo dell’inflazione è rappresentato dalle dinamiche legate al mercato del lavoro. Si nota già l’enorme difficoltà che le imprese trovano nella ricerca della mano d’opera. Questa difficoltà è derivante sia dall’impatto psicologico della pandemia che dall’effetto demografico. Non aver incentivato la natalità in Occidente – probabilmente un aspetto insito nel maggior benessere, esempio sono anche i Paesi Scandinavi laddove anche lì manca una crescita – ha portato ad una carenza di mano d’opera di carattere strutturale che non farà altro che sollecitare nel lungo periodo il rialzo dei salari. Una sfida per l’Occidente che dovrà guardare anche l’immigrazione in chiave differente.
Paesi quali l’Italia hanno fatto della competitività dei propri prodotti all’interno dell’Europa una ragion d’essere, potendo condividere la moneta unita attraverso un livello più basso di costo della mano d’opera, in particolar modo quella specializzata. Nel momento in cui le pressioni salariali aumentano per l’Italia diviene un grande problema. Perciò da un lato si dovranno spingere le imprese a non assorbire completamente in casa le rivendicazioni salariali, dall’altro vi è un aspetto numerico che va compensato dall’immigrazione. Il punto è politico e delicato, ma iniziare a prospettare canali per l’immigrazione della manodopera specializzata è un elemento sul quale insistere nel futuro. Si devono creare dei canali in cui si formano o reclutano persone specializzate.
-Il NorthStream 2 è naufragato tra le difficoltà della Germania nell’assumere un ruolo limpido di potenza regionale politica e gli interessi concorrenti di attori globali e regionali ostili al progetto. Giunti a questo punto è lecito domandarsi se a guida dell’Unione europea ci si debba aspettare Parigi.
Non sappiamo se Parigi da sola sia in grado di farlo, essa ha bisogno dell’Italia. È emersa l’incapacità della Germania di ricoprire un ruolo di leadership dell’Unione europea, è questa l’eredità più pesante dell’era Merkel. Questa eredità la pone in una condizione di non avere più uno standing di leadership dell’Unione europea, aprendo un’opportunità che la Francia proverà a raccogliere necessitando dell’aiuto italiano. Altro filone che si espanderà oltre al Green sarà quello legato alla difesa. La crisi in Ucraina lo ha dimostrato e il ritiro americano dai contesti non reputati strategici acuirà le tensioni regionali che si tramuteranno in un forte aumento della spesa militare.
Altro problema che coinvolge la Germania, la quale si considera potenza euroasiatica con rapporti commerciali fluidi con Cina e Russia, è rappresentato dalla dipendenza da NATO e USA. La Germania ha fallito tatticamente e strategicamente la propria politica estera, ciò la porrà in una posizione di crescente tensione con gli USA, ai quali poi dovrà piegarsi. Berlino ha sempre avuto questa consapevolezza che l’economia comandasse tutto, ma questa indipendenza la si può raggiungere solo se si gode di una difesa che permette di essere autonomi. Dipendendo dagli USA – che hanno basato il loro sviluppo negli ultimi sessant’anni sul controllo delle pressioni marittime – nel momento che la pressione di Washington aumenta nei confronti di Pechino non ci si può permettere di adottare uno standing così indipendente. Italia e Francia potranno sfruttare queste nuove direzioni.
-Quanto il Green Deal europeo ha accresciuto la dipendenza dalle risorse russe? La NATO può tollerare a lungo una dipendenza così forte di Bruxelles nei confronti di Mosca?
È evidente che il Green Deal abbia aumentato la nostra dipendenza poiché nel momento in cui si disincentivano investimenti in capacità fossile – basta vedere la produzione di gas europeo che è crollata negli ultimi cinque anni – questo fa dipendere fortemente il nostro sistema dal meteo. Lo scorso anno si è verificata una stagione sfavorevole caratterizzata da poche piogge con bassi e deboli venti che ha portato a far sì che poi l’energia sia stata ricercata esternamente. Che il Green Deal abbia aumentato la nostra dipendenza nei confronti dalla Russia lo dicono i dati. La NATO su questo aspetto può far molto poco poiché il gas che proviene dagli USA non può compensare quello che arriva via gasdotti dalla Russia. Dalla Russia importiamo 480 miliardi di metri cubi l’anno come Europa, una quantità che non può esser bilanciata. Già ad ora assistiamo a una massima capacità produttiva per quel che concerne il gas liquefatto, dove però si inserisce la Cina, che è il primo importatore dello stesso. È velleitario immaginare che i produttori statunitensi dirotteranno tutto il gas verso l’Europa.