Ha destato un certo scalpore, nel giugno scorso, l’intervista rilasciata da Vladimir Putin al Financial Times: “Il liberalismo è divenuto obsoleto, ha esaurito la sua utilità perché non serve più ai bisogni della maggioranza dei popoli”. Così sentenziava il presidente della Federazione Russa, suscitando la reazione indignata di buona parte dell’Occidente intellettuale e alimentando lo scetticismo di noi molti che, per quanto avversi alle luccicanti promesse del liberalismo, stentiamo a credere alla possibilità di una civiltà post-liberale. Dovrebbe destare forse maggior scalpore la notizia che di obsolescenza dell’ordine liberale si parli esplicitamente anche negli Stati Uniti, paese che sui principi della filosofia liberale, autodeterminazione in primis, ha costruito la propria epica nazionale.
Che il liberalismo sia giunto alla sua fase terminale è infatti il tema portante di Why Liberalism Failed (Yale University Press, 2018), agile saggio di Patrick J. Deneen, docente di filosofia politica alla Notre Dame University, dato recentemente alle stampe in italiano (Perché il liberalismo ha fallito, La Vela). La tesi avanzata da Deneen, che ha riscosso ampio interesse di pubblico, tanto tra i conservatori quanto tra i progressisti, è che il progetto liberale, proprio nell’epoca in cui parrebbe trionfare a livello planetario, sia in realtà miseramente fallito. E non perché vi siano ancora delle forze ideologiche, o delle strutture sociali, che ne ostacolano la piena realizzazione. Ma perché è il liberalismo stesso ad essere strutturalmente incapace di mantenere le proprie promesse, e nel dispiegarsi finisce per minare le sue stesse fondamenta.
Il liberalismo promette l’autodeterminazione assoluta di sé e del proprio destino? Ebbene, non v’è mai stata un’epoca così ricca di pretese individuali legittimate, e allo stesso tempo così carica di frustrazione e di senso di impotenza rispetto alle grandi dinamiche della storia, come quella presente. Il liberalismo promette l’ampliamento della sovranità individuale e il contenimento delle tendenze fagocitanti dello Stato? Eccoci qui, ebbri di diritti, che liberamente, e inconsciamente, forniamo allo Stato tutte le informazioni che occorrono per spingerci “con dolcezza” (vedere alla voce nudging) a fare quello che tecnocrati illuminati hanno decretato essere meglio per il nostro benessere, dall’alimentazione alla vita sessuale. D’altronde, seppellite le comunità naturali, a partire dalla famiglia, che per prime ci introducevano alla realtà, accompagnandoci nelle gioie e nelle traversie della vita, non rimane che lo Stato a vegliare su di noi: l’individuo liberato e lo Stato assistenziale-controllore si nutrono a vicenda. Il liberalismo promette il pieno compimento, nonché la strenua difesa, del principio democratico? Eppure, proprio oggi assistiamo al cortocircuito di un ordine liberale che si arrovella sul problema del suffragio universale, che permette al brexiteer della provincia inglese e all’operaio trumpiano della Rust Belt di esprime democraticamente un certo malcontento rispetto alla libera circolazione di persone, merci e capitali.
Di fronte a questa epifania di contraddizioni, inevitabile sorge la domanda sull’origine della crisi che affligge il liberalismo al suo apogeo. Il problema, sostiene Deneen, non risiede tanto negli obiettivi del liberalismo, quali la difesa della dignità della persona, che sono auspicabili e condivisibili, quanto nella falsa antropologia che sottende al pensiero liberale. In particolare, secondo Deneen, il liberalismo riposa su una falsa idea di libertà e su una falsa concezione della natura umana. Non si può razionalmente credere al progetto di libertà di matrice liberale, che si riduce al perseguimento senza limiti dei propri desideri, per due motivi molto semplici. Primo, l’uomo è insaziabile. Secondo, il mondo è finito. Se ne deduce che non si può essere liberi nell’accezione liberale del termine.
Più credibile risulta, in confronto, la concezione che gli antichi avevano della libertà, strettamente legata al perseguimento della virtù. In un’ottica pre-liberale, la vera tirannia con cui l’uomo deve fare i conti è quella dei propri desideri, mai del tutto appagati e appagabili. Essere liberi vuol dire dunque apprendere a porsi dei limiti e a dominare i propri istinti, a partire da quelli più basici, più pericolosi e potenzialmente distruttivi, tanto per se stessi quanto per la comunità. Da qui la necessità di un ordine socio-politico, costruito soprattutto su norme comportamentali condivise e non scritte, che incoraggi il perseguimento delle virtù, ovvero che metta l’uomo nella condizione di imparare ad essere libero. Non così secondo il pensiero liberale che, nella sua duplice accezione classica (Locke) e progressista (Rousseau, Mill), si propone di mettere l’uomo nella condizione di soddisfare indisturbato i propri appetiti, liberandolo dai limiti posti dalla natura, dalla tradizione, e da tutte le relazioni non strettamente scelte. Ovvero, di ricondurre l’uomo ad un ipotetico stato di natura, all’insegna di un’autonomia e di un’a-relazionalità primigenie, in cui ogni tipo di vincolo è frutto della libera scelta individuale.
Nell’ottica liberale, l’uomo non è naturalmente politico, ma lo diventa in virtù del contratto sociale, sulla base di una libera adesione alla vita comunitaria. Anche questa concezione della natura umana, posta a confronto con la realtà, risulta poco credibile. Tutti facciamo esperienza del fatto che, con la nascita, che prescinde innegabilmente dalla nostra volontà, siamo catapultati in un groviglio di relazioni che ci precedono e che non abbiamo scelto. Nessuno di noi, invece, ha probabilmente firmato un contratto per entrare ufficialmente in società. Eppure, è su questo esperimento mentale, il contratto sociale, che si fonda la filosofia politica liberale, e dunque l’ordinamento socio-politico moderno che ne consegue. Il liberalismo promette di liberare l’uomo dall’accidente della nascita, quindi del sesso, della famiglia di origine, della comunità di appartenenza. Ma così facendo rende l’uomo vulnerabile agli strumenti della sua stessa liberazione: la tecnologia, che si propone di liberare l’uomo dal dato naturale, almeno fino al giorno in cui non diventerà schiavo della tecnologia stessa, e lo Stato, che espandendo la sfera di libertà individuale tramite la creazione di nuovi diritti finisce per normare ogni ambito dell’agire umano. La percezione di questa vulnerabilità è d’altronde profondamente iscritta nella coscienza collettiva contemporanea. Basti pensare alla mole di film e romanzi, generalmente distopici, che descrivono un presente-futuro in cui le macchine raggiungono l’auto-coscienza e si ribellano all’uomo (vedi Matrix o Terminator), o in cui il mondo è controllato da pochi mega-apparati burocratici che organizzano scientificamente e iper-razionalmente delle società priva di libertà (come Il mondo nuovo di Huxley).
È chiaro, nota Deneen, che non vi può essere un programma d’opposizione partitico al liberalismo, che ha un carattere innanzitutto metapolitico. Il liberalismo, infatti, è un modo di pensare e di essere, ancor prima che una preferenza politica. Chi di noi, nell’Occidente pluralista, oserebbe mettere in dubbio pubblicamente, senza esitare, il principio di auto-determinazione individuale? Conservatori o progressisti, pro-mercato o statalisti, sovranisti o globalisti, ci guardiamo bene dal rinnegare apertamente la professione di fede liberale, che poi è la professione di fede dell’epoca moderna, cristallizzata da John Maynard Keynes: “Non riconosciamo nessun obbligo morale né alcuna sanzione interiore a cui conformarci e a cui obbedire. Davanti al cielo pretendiamo di essere i nostri stessi giudici” (Le mie prime convinzioni, 1938). E non può neanche esserci, continua Deneen, un programma di opposizione al liberalismo ideologicamente e contenutisticamente definito, perché il tentativo di codificare un’alternativa al liberalismo è esso stesso di matrice liberale. È infatti liberale la convinzione che la politica si riduca, in fin dei conti, all’applicazione di idee giuste e strumenti giuste al momento giusto. Né l’alternativa può essere, ovviamente, il ritorno ad un’epoca pre-liberale, ignorando irrealisticamente secoli di storia nonché gli elementi positivi che il pensiero liberale ha contribuito a far maturare nelle relazioni sociali (si pensi all’abolizione della schiavitù, che costituiva un pilastro dell’organizzazione sociale del mondo antico).
Quello di cui l’Occidente affetto da un liberalismo sclerotico ha bisogno non è una nuova teoria, ma una prassi migliore. Risposta, forse, deludente a conclusione di un’analisi lucidissima, ma la strada per il post-liberalismo, sostiene Deneen, non passa da un nuovo, roboante progetto politico, ma da comunità locali che vivano e valorizzino quello che il pensiero liberale aborre: legami familiari e sociali duraturi, amore per la tradizione e la cultura, insediamento stabile in un preciso luogo geografico. Comunità che brillino come fari nella notte della decadenza liberale, analogamente a quanto proposto da un altro studioso americano, Rod Dreher, nella sua Opzione Benedetto. Non sappiamo immaginarci una civiltà post-liberale, così come i Romani non sapevano immaginarsi una civiltà dopo Roma. Ma come ci sono state le cattedrali, e molto altro, dopo Roma, così ci sarà una libertà dopo il liberalismo. Suprema libertà, oggi, è cominciare ad immaginarla e a viverla.