OGGETTO: Fame di mito
DATA: 04 Gennaio 2025
SEZIONE: Storie
FORMATO: Visioni
AREA: Altrove
Nella crisi attraversata dagli ordini democratici sempre più spesso al cittadino comune viene a mancare il radicamento in un sistema di simboli condiviso: alle istituzioni e ai leader riesce impossibile costruire repertori di immagini forti che facciano da collante sociale. Urge che la politica si accompagni alla costruzione di miti condivisi per contrastare la sua perdita di credibilità.
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Nella contemporaneità, la dimensione politica vive una condizione di declino ed è sempre più fagocitata dai dispositivi tecnici del Capitale nella sua fase da quarta rivoluzione industriale che vede l’ascesa dell’industria high-tech e l’albeggiare del surveillance capitalism descrittoci da Shoshana Zuboff. La democrazia rappresentativa pare essere ridotta alla paralisi per la crescente disaffezione degli elettori distanti dal palazzo del potere divenuto un’élite senza ancoraggio popolare, e per effetto dello strapotere degli spiriti animali capitalistici e delle corporations transnazionali che erodono il diritto degli stati e dalla polis conducono fatalmente all’apolis, alla deterritorializzazione con effetti nefasti di sradicamento per la sovranità nazionale. La scena politica è dominata dalla personalizzazione, dall’individualismo capillare, dall’indifferentismo etico, dall’umorismo postmoderno in una completa vuotaggine generale, come è stato sottolineato dal sociologo francese G. Lipovetsky.

Parallelamente, la globalizzazione si avvia alla sua conclusione dopo il periodo aureo di egemonia incontrastata degli States, con l’affiorare di arcipelaghi deglobalizzati con altrettanti dominus in competizione fra loro e con quadri valoriali di riferimento divergenti. La guerra russo-ucraina in questo senso ha rappresentato la rottura con l’autoinganno propalato dai difensori dell’unipolarismo americano della fine della storia e del trionfo dell’american way of life con l’affermazione del modello liberaldemocratico, il collasso della fede parareligiosa europeista e dell’Antieuropa intesa come protesi geopolitica americana incapace di trovare un proprio tracciato. E in analogo si registra la venuta alla ribalta di quanto era stato descritto anni fa come “talassopolitica” data dalla velocizzazione delle comunicazioni, dal venir meno della localizzazione geografica per la geopolitica e dalla dissoluzione delle ideologie grazie al trionfo della Tecnica su scala planetaria che impone nuovi assetti e nuove logiche allo scacchiere politico internazionale. 

Per sfuggire alla morsa della crisi generale (tanto interna al nostro perimetro nazionale quanto proiettata sulle frontiere orientali europee dove si raccolgono i frutti delle politiche americane di provocazione della federazione russa, come ricordato da Benjamin Abelow) forse occorre tornare ad un fondamento simbolico comune, ad una mitologia fondativa in grado di farci reggere l’urto. Non è un caso che proprio alla vigilia di un terremoto politico per l’establishment tradizionalmente asserragliato nei palazzi romani come la vittoria dei partiti populistici verdi e gialli vide la luce un saggio agile che mirava ad attualizzare il valore sorgivo della mitopoiesi: l’anelito di fondamenti spirituali si incontrava con la spinta al cambiamento e al rovesciamento di cordate politiche bolse. 

Il mito dopotutto, da sempre, rappresenta il punto più alto di una peculiare vis immaginativa che nelle sue sterminate produzioni costituisce il ricettacolo delle immagini depositate nello psichismo collettivo dell’umanità, non le tenebre oscurantiste contrapposte ad un Aüfklarung asettica. La mitologia da sempre interroga l’uomo sul suo posto nell’essere delle cose, conferisce un significato al suo percorso esistenziale e risemantizza la realtà esterna secondo le linee di una geografia religiosa che permette al credente di sentirsi confortato e dotarsi di certezze a partire da queste affabulazioni esemplari. E il mito, per quanto permetta una rottura con il tempo quotidiano documentando l’irruzione del sacro garantendo la sperimentazione di una pienezza assoluta, da sempre intreccia il proprio tracciato con quello della politica, per il suo essere un collante sociale e per l’effetto benefico di produrre un reincanto del mondo passabile di strumentalizzazione politica. 

È nota la distinzione tra un mito tecnicizzato, svilito nel suo significato più autenticamente antropogenico fatta propria dal Kerènyi, che trova poi la sua radicalizzazione fra le pagine del suo allievo italiano Furio Jesi con la teoria della “macchina mitologica”: si tratta qui di capire che licenziando in toto la miticità dell’umano o sognando di addomesticarla innocuizzandola si rischia riduzionisticamente il suicidio spirituale. Jesi ha ragione da vendere quando demistifica ferocemente i mitologemi imperniati sulla violenza e la discriminazione, ma sorge il sospetto che la sua decostruzione del primordialismo dei mitologi, la critica del loro prendere alla lettera i materiali mitologici che si combinano e scombinando senza un significato preciso ignori la dimensione archetipica della specie, l’esigenza di un ordine simbolico cui ricorrere per arginare il peso del nonsense, dell’insignificanza. La fame di mito, se è pur vero che nella Age of the extremes descritta da Hobsbawm ha prodotto immani disastri col suo sfruttamento in chiave politica totalitaria, può così trovare nuove traiettorie per canalizzare la benefica attitudine specificatamente umana a rivivere queste immagini sepolte nell’inconscio della specie, con finalità migliori. 

D’altronde, come insegnava già l’analisi sociologica a fine XIX secolo, l’uomo non è descrivibile come totalmente padrone di sé e quando diviene parte di grandi gruppi non asseconda alcuna algida razionalità, diventando preda di poteri ipnotici irrazionalistici indotti da leader carismatici in attesa di soggiogarne la volontà. Nel Novecento si è assistito in tal direzione al Mythos Debatte che ha coinvolto studiosi di matrice ideologica differente quali T. W. Adorno, M. Horkheimer, H. Blumenberg, O. Marquard, K. Hübner: il pomo della discordia era rappresentato dalla funzionalità del mito e dagli aspetti mitici della stessa razionalità strumentale affermatasi in Occidente. Anche in quel caso la posta in gioco era data dall’impossibilità di dicotomizzare astrattamente tra lo spirito di geometria proprio delle matematiche e del ragionamento logico-deduttivo e lo spirito di finezza dei rimandi simbolici a quella galassia di immagini archetipiche che informano il quotidiano. 

Se storicamente i regimi concentrazionari hanno attinto al patrimonio simbolico dell’umanità per rafforzare la loro presa sulle menti degli individui, per meglio distorcerne lo spirito critico e debilitare la loro reattività ai diktat degli autocrati di turno, proprio cavalcare l’onda mitica e rinverdire i progetti di ingegneria sociale e mitopoietica consentirebbe di strappare il singolo all’atomismo liberal cui lo condanna il sistema vigente. Se tanto il nazifascismo che il comunismo (con i vari esempi di culto della personalità del soviet supremo che portarono Barthes a parlare di mitologia dello stalinismo) nelle loro diversità irriducibili hanno insistito sulla costruzione di un immaginario compatto allora la politica se auspica un riavvicinamento al proprio elettore di riferimento deve fare il passaggio obbligato di catturarne la vena mitopoietica. Ridando corpo alla brama di significati forti nei penetrali dell’inconscio collettivo, la politica potrebbe trasformarsi in “grande politica” neo-nietzschiana dedita alla costruzione di stilizzazioni di esseri umani all’altezza dei compiti storici odierni. Solo allora sarà possibile scivolare fuori dall’impasse storica cui ci ha condannati la fede nei miti del progresso e della ragione strumentale moderni come pallido riflesso della luce sfolgorante proveniente dalla nostra simbolicità interiore, all’origine della necrosi nichilistica che minaccia la tenuta sociale e istituzionale del sistema democratico. 

In questo senso diventa intelligibile una lettura esegetica delle spinte telluriche che animano l’attività politica, dei tropismi invisibili che portano una figura leaderistica a sintonizzarsi con i bisogni popolari fino a farsene espressione, diventandone i vettori comunicativi, le cinghie di trasmissione e i sismografi degli umori delle folle. Quello che i movimenti populistici hanno capito, del resto, di contro ai partiti di sistema più paludati e stretti alle loro posizioni di classe, consiste nel fondale extrarazionale del loro elettorato: non volevano rassicurare, ma ergersi a cavalli di troia di una frattura politico-sociale radicale, dando vita a mitologie e rappresentazioni parareligiose nelle quali fungevano da difensori eroici del demos sotto attacco da parte delle forze titaniche dei poteri economici ecc. Attualizzare queste energie demoniache (E. Laclau, ad esempio, propose da sinistra un uso del populismo analogamente a quanto fatto da pubblicisti di destra nel nostro paese) volgendole a beneficio di una proposta politica seria è l’arduo compito dei nostri giorni, pena allargare la forbice tra la camera dei bottoni e l’elettorato. 

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