Invisibili. Irresponsabili. Nemici nel senso più profondo del termine. Da destra o da sinistra. A prescindere dalle motivazioni, dalle esperienze, dagli ideali che ne giustificano l’agire. Eppure, talmente decisivi da essere numericamente la prima forza politica di numerosi contesti democratici e del nostro in particolare. Nella tornata elettorale europea – in cui storicamente l’astensionismo predomina – più del 50% degli italiani ha scelto di non recarsi alle urne.
Sono due gli elementi che colpiscono in questo processo: il primo riguarda le dichiarazioni di partiti, esponenti politici e di coalizione. Dal trionfalismo dei vincitori a quello di chi ha visto crescere esponenzialmente i propri numeri. Qualunque numero percentuale – in cui, stando ai politologi, ognuno avrebbe scelto razionalmente i propri candidati sulla base di un calcolo preciso basato sulla lettura accurata dei programmi – sconta il fatto di poggiare su una minoranza.
Non esiste nessuna maggioranza di italiani che abbia scelto questo o quel partito. Non esistono “italiani”, “cittadini” o altre categorie del genere che abbiano premiato o meno determinate manovre politiche. Considerando che spesso tali manovre politiche si riducono a manovre di marketing vero e proprio, con volti scelti in ragione della loro popolarità – senza entrare nel merito – appellandosi non più alla presunta razionalità del voto democratico, ma piuttosto alla tanto vituperata “pancia”. Oppure, scegliere un partito per non farne vincere un altro. Scongiurare un’apocalisse. Salvare l’Europa. Proteggerla. Coccolarla.
Mentre al di là di qualsiasi idea, slogan, bandiera, più Europa, meno Europa, estremisti o moderati o ecologisti, prosegue la corsa al riarmo del fianco orientale dell’Impero americano. Con o senza elezioni. Con o senza parlamento nei suoi limitati e discutibili poteri. Mentre continuiamo a chiamare elezioni europee delle elezioni nazionali bis, che oggi – guardando oltre le Alpi – segnano specialmente il declino di Macron e il rafforzamento dell’identità tedesca orientale, di stampo sassone e prussiano, centrata sull’Afd.
Anche l’Italia non è esente da simili considerazioni nazionali prima ancora che europee. Conferma di voler galleggiare. Di non voler decidere. O al massimo di assecondare umori di pancia. Perché la democrazia è specialmente irrazionalità. Nel frattempo le elezioni divengono ogni volta decisive. Segnano apparenti passaggi epocali. Poiché la democrazia, forma politica come tante altre, vuol farsi sacra. Un cambio di maggioranza che si autoproclama passaggio d’epoca come solo nella monarchia giapponese. O nell’alternanza tra i consoli di epoca romana.
Allora il secondo elemento da evidenziare sono proprio gli astensionisti, che di questo passaggio epocale non vogliono far parte e che ne tratteggiano, piuttosto, i caratteri più importanti. Ciò che colpisce è l’accanimento – mediatico e non solo – contro la parte davvero maggioritaria del paese. Vituperati perché non scelgono. Se qualcuno ne avesse la facoltà, li collocherebbe tra gli ignavi nell’Inferno di Dante.
Chi non sceglie politicamente, proprio perché non sceglie, non avrebbe da quel momento alcun diritto. L’astensionismo mette in crisi il meccanismo. Desacralizza la democrazia, come scrive anche Jünger nel Trattato del Ribelle:
“L’astensionismo è infatti uno dei comportamenti che rendono inquieto il Leviatano, sebbene dall’esterno le eventuali astensioni siano spesso sopravvalutate.”
Votare, dunque. A tutti i costi. Scheda bianca, disegni, imprecazioni. L’importante è presentarsi alle urne, alimentare la macchina. Oppure accettare di non farne parte con tutte le conseguenze del caso. Religione civile e fondamentalista, fatta di ragionamenti complessi, di programmi elettorali – veri o presunti – di dubbi amletici. Un voto che alla fine dovrebbe andare anche a partiti maggiori (per non buttare voti). Dunque non dovrebbe premiare risicate formazioni politiche:
“Ciascuno si preoccuperà di far sapere di aver votato bene. E qualora facesse parte di quel due per cento, lo terrà nascosto persino ai suoi migliori amici”
In un regime di totale partecipazione al voto, tali scelte sarebbero criticabili al pari dell’astensionismo. Le formazioni politiche minori sono invece, alle nostre latitudini, funzionali perché giustificano la partecipazione. Come a dire che, piuttosto che meritarsi l’Inferno, è meglio andare a messa senza alcuna fede o convinzione. Prendere posto. Ascoltare parole per noi prive di significato. Il tutto solo per evitare l’accusa infamante di ignavi, di sabotatori. Persino di eretici o atei.
La libertà di non voler decidere, di non voler prendere parte nè al meccanismo elettorale né alla democrazia in senso stretto, condannano all’irrilevanza. Turarsi il naso e scegliere è il mantra delle moderne democrazie, segno della profondità filosofica di simili attacchi all’ignavia degli astensionisti.
Perchè, in quanto sacralizzata, la democrazia non può accettare che qualcuno non voglia farne parte, come scrive Di Dario:
“La democrazia è infatti diventata demolatria, tingendosi di quelle tinte messianiche e finalistiche comuni alle narrazioni del progresso e della scienza. Sulla scia di un simile messianismo la democrazia rappresenterebbe il provvidenziale approdo di millenni di evoluzione umana, assurgendo così prima a fede e religione, quindi a tabù intoccabile.”
Finito il gioco delle parti dell’appartenenza politica, indifferenza e disinteresse disintegrano ed erodono il tentativo di governare razionalmente l’irrazionale. Ambiziosa utopia, che vuole l’individuo cuore e protagonista di ogni riflessione della politologia occidentale, salvo poi considerare una massa indistinta coloro che, avendone diritto, rifiutano di votare. Eremiti di un impero in disfacimento. Incapaci di “tapparsi il naso”, di fingere una fede cui non sentono di appartenere, di esaltarsi per appelli alla salvezza dell’Italia, dell’Europa o del globo terracqueo.
La maggioranza assoluta dell’Italia ha scelto di non scegliere. Continuerà a non scegliere, tra gli anatemi dell’altra metà del paese:
“Come nell’inoltrarsi della fase imperiale romana, nessuno sente più il bisogno di esercitare i diritti per i quali una volta si combatté e si lottò. Essendo tramontate le forme politiche prodotte dalla tarda maturità del ciclo, le elezioni risultano così poco più che un grande e commovente gioco di ruolo.”