La prossima sessione di bilancio sarà un momento delicato per l’Italia, in quanto strettamente legata al nuovo Patto di Stabilità e Crescita approvato dall’Unione Europea. Questo appuntamento segnerà il percorso delle scelte economiche del governo Meloni, che dovrà confrontarsi con vincoli esterni e pressioni internazionali, soprattutto legati al processo di integrazione europea. Tuttavia, non bisogna dimenticare che le pressioni internazionali sono in parte costruite anche dalle forze interne, che le usano per avanzare i propri obiettivi politici.
La legge di bilancio italiana dovrà fare i conti con i rigidi parametri fissati dal nuovo Patto di Stabilità, approvato lo scorso aprile. Per paesi come l’Italia, con un debito superiore al 90% del PIL, è previsto un taglio annuale del debito pari all’1%. Per quanto riguarda il deficit, i paesi che superano la soglia del 3% saranno tenuti a una riduzione dello 0,5% annuo, con una fase di transizione fino al 2027. Tuttavia, c’è un’opportunità di estendere il piano di riduzione del debito da quattro a sette anni, a patto che vengano attuate riforme strutturali in grado di garantire una crescita sostenibile e la stabilità dei conti pubblici. L’Italia dovrà presentare alla Commissione Europea un piano fiscale e strutturale dettagliato, sul modello del PNRR, indicando le misure specifiche per semestre e gli obiettivi misurabili. Sebbene inizialmente la scadenza fosse fissata per il 20 settembre, questa è stata posticipata alla fine del mese, di comune accordo, per attendere la pubblicazione dei dati ISTAT, fondamentali per la definizione del piano.
Le dinamiche internazionali si inseriscono in questo processo complesso. Paesi come la Germania, noti per la loro tradizionale rigidità sui conti pubblici, non sono inclini a compromessi. La Germania stessa sta attraversando una fase di difficoltà economiche, con un rallentamento della crescita e un aumento delle pressioni euroscettiche, soprattutto da parte dell’AFD e di una CDU che si sta spostando sempre più a destra. In questo contesto, il ministro delle Finanze tedesco, Christian Lindner, capo del Partito Liberale, non ha margine per adottare una linea morbida verso paesi come l’Italia. Il suo partito, già indebolito da pessimi risultati elettorali, rischia l’uscita dal parlamento, e quindi è prevedibile che adotterà posizioni dure per rassicurare il proprio elettorato. Già nei giorni scorsi, Lindner ha espresso posizioni critiche nei confronti del rapporto Draghi, che propone un incremento della spesa pubblica europea, e non è improbabile che assuma un atteggiamento simile nella discussione sul bilancio italiano che dovrà passare al vaglio dei ministri del Tesoro dell’Eurozona.
Ma le pressioni potrebbero non nascere solo con governi stranieri. Anche la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, potrebbe adottare una posizione più rigida del necessario nei confronti dell’Italia, soprattutto per vincoli tattici legati al gioco politico comunitaria. La Baronessa von der Leyen, che sta cercando di ottenere una riconferma alla guida della Commissione, deve bilanciare le sue mosse per mantenere il supporto della sinistra europea. Dopo aver concesso a Giorgia Meloni un notevole vantaggio attraverso la nomina di Raffaele Fitto a vicepresidente esecutivo con delega alla Coesione e alle Riforme, von der Leyen potrebbe essere tentata di bilanciare questo gesto. Tale concessione, favorevole all’Italia e a Meloni, rischia infatti di inimicarsi alcuni suoi alleati politici alleati al parlamento europeo. Per compensare, von der Leyen potrebbe quindi assumere un atteggiamento più severo nei confronti del governo italiano durante la delicata fase di bilancio, per rassicurare i suoi alleati a sinistra e rafforzare la propria posizione in vista del voto di riconferma.
Non si deve, poi, trascurare l’uso tattico delle pressioni internazionali da parte di attori interni. In Italia, élite tecniche e burocratiche, spesso di orientamento neoliberale, vedono nelle richieste europee un’opportunità per superare le resistenze interne alle riforme strutturali. Questo fenomeno non è nuovo. Un esempio storico è quello di Guido Carli, ex governatore della Banca d’Italia e ministro del Tesoro, che fu uno dei principali artefici, insieme a Ciampi, dell’adesione italiana al Trattato di Maastricht. Nelle sue memorie, Carli ammise che il trattato, pur imponendo vincoli esterni, fu attivamente elaborato da un gruppo di italiani che lavorava dietro le quinte per costruire quei vincoli che avrebbero facilitato riforme altrimenti impossibili da attuare in patria. Carli scrisse che il trattato era stato ratificato prima che altrove proprio per disinnescare il Parlamento e introdurre cambiamenti che sarebbero stati difficili da realizzare genuinamente a livello domestico. La sua riflessione, quasi di orgoglio, dimostrava come il vincolo esterno fosse visto come uno strumento per superare la frammentazione politica interna e realizzare un’agenda economica neoliberale. L’esperienza di Mario Monti si iscrive sulla stessa falsa riga.
Oggi, questo schema si ripete con figure al vertice del Ministero dell’Economia, la Banca d’Italia e altri settori chiave. Questi attori interni, che vedono nelle pressioni europee un mezzo per legittimare riforme impopolari, agiscono spesso in accordo con i vincoli esterni. Usano le richieste di Bruxelles come leva per forzare la mano su politiche che sarebbero difficili da attuare senza un supporto esterno. Questa dinamica di esternalizzazione del vincolo è un modo per aggirare le resistenze politiche e sociali interne e portare avanti l’agenda neoliberale di riforme strutturali.
Anche le forze politiche italiane non sono immuni a questo gioco. Nonostante la retorica sovranista, il governo Meloni ha dimostrato sorprendente diligenza nell’adeguarsi ai precetti comunitari, almeno finché i margini di bilancio lo hanno consentito. Tuttavia, con la riduzione degli spazi di manovra, è probabile che la maggioranza utilizzi le pressioni europee come scusa per giustificare decisioni impopolari. Con il restringersi dello spazio di spesa, è comune che i governi dipingano l’Europa come il “nemico esterno”, attribuendo a Bruxelles la responsabilità dei sacrifici. La narrativa diventa quella di “non possiamo fare altro che rispettare le richieste dell’Europa cattiva”. Questo schema ha radici profonde nella politica italiana: già negli anni Settanta, Giulio Andreotti, in piena crisi economica, fu incoraggiato dal Cancelliere tedesco Helmut Schmidt a lamentarsi pubblicamente delle condizioni imposte dal Fondo Monetario Internazionale, indicandolo come capro espiatorio, proprio per evitare di perdere il consenso interno e portare a casa qualche risultato.
Infine, nonostante la narrativa spesso catastrofica dipinta dal governo negli ultimi mesi, la situazione fiscale italiana non è così disperata come sembra. Per l’anno corrente, ci sarà a disposizione un “tesoretto” derivante dalle maggiori entrate fiscali impreviste, che fino a luglio hanno portato un surplus di 19 miliardi di euro. Inoltre, ci si aspetta una revisione al rialzo del PIL da parte dell’Istat a fine mese, che potrebbe ridurre ulteriormente la pressione per il rientro del debito. Tuttavia, nei mesi scorsi, il governo ha sapientemente costruito un racconto più pessimista del necessario, sia per ridurre le aspettative dell’opinione pubblica che per preparare il terreno alla difficoltà della manovra.
In conclusione, la complessità del vincolo esterno va interpretata nella sua dimensione politica e tecnica. Non è solo un’imposizione da parte delle istituzioni europee, ma un vincolo che, in gran parte, nasce da dinamiche interne e viene utilizzato come strumento politico. Da un lato, le élite tecniche vedono nelle richieste di Bruxelles un’opportunità per promuovere riforme strutturali; dall’altro, il governo potrebbe usare le pressioni europee per giustificare scelte impopolari e mantenere il consenso interno. Questa duplice natura del vincolo esterno riflette la complessità della situazione italiana e le sfide che la manovra di bilancio dovrà affrontare nei prossimi mesi.