OGGETTO: Il palco del dissenso strumentale
DATA: 07 Febbraio 2024
SEZIONE: Geopolitica
Il G7 è un organismo che polarizza gli animi pur essendo poco conosciuto. Tra miti, leggende, e esagerazioni appare utile comprendere la natura di quest’istituzione, spiegandone. Di fatto è uno strumento politico al servizio dei governi che lo animano, e soprattutto utile per gli Stati Uniti. Il dissenso che si vede ai vertici fa parte di un gioco che non può però prescindere da alcuni vincoli ben precisi.
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Dal primo gennaio, l’Italia presiede per la settima volta il G7, un organismo ormai radicato nel calendario dell’anno diplomatico da quasi cinque decenni. Sebbene tutti lo conoscano, le reali funzioni e l’importanza di questa istituzione rimangono poco chiare per molti, e in pochi sanno cosa ci si può aspettare.

Il G7 affonda le sue radici nelle turbolenze economiche e politiche degli anni Settanta, tra cui la fine del sistema di Bretton Woods e l’instabilità monetaria che ne conseguì. Poi, lo shock petrolifero del 1973 galvanizzò i paesi in via di sviluppo, a lungo marginalizzati, nel perseguire la creazione di un sistema più equo, che tutelasse anche i loro interessi. Il primo incontro volle anche essere una risposta alla stagflazione che mise in affanno l’Occidente, confrontandolo con la prima recessione su larga scala del dopoguerra. Queste sfide misero a dura prova i governi dei paesi industrializzati, generando tensioni significative, in particolare tra Washington e i suoi alleati occidentali.

Così, nel novembre 1975, i leader di Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti si riunirono per la prima volta in questo formato nel castello di Rambouillet, vicino a Parigi (il gruppo divenne G7 l’anno successivo quando i sei membri originali furono raggiunti dal primo ministro del Canada). Questo vertice, inizialmente concepito come un evento unico dai suoi promotori – Valéry Giscard d’Estaing e Helmut Schmidt – divenne un appuntamento regolare, consolidando il G7 come un protagonista controverso sulla scena mondiale. I sostenitori lo vedono come cruciale per il funzionamento del sistema internazionale, mentre i critici lo considerano una mera occasione per foto simboliche, priva di sostanza reale.

Vale quindi la pena di comprendere l’essenza di questa istituzione che ritma la liturgia diplomatica da tanti anni ormai, andando oltre la narrativa ufficiale. Quando si parla di G7, si usa spesso il termine governance. Questa parola troppo vaga sottolinea la dimensione informale e flessibile dei vertici. Il G7 non è un’organizzazione internazionale fondata su un trattato. E un gruppo eminentemente informale, che potrebbe smettere di esistere domattina, senza la minima conseguenza. Inoltre, il formato non fu creato per prendere decisioni vincolanti. Ufficialmente, il G7 nacque per rafforzare la consapevolezza di ogni partecipante sulle implicazioni internazionali delle rispettive politiche economiche nazionali, e favorire così la cooperazione e la definizione di linee guida comuni.

La flessibilità è ciò che ha sempre reso il G7 così popolare presso i suoi membri, con la possibilità di cambiarne la composizione, avendo solo bisogno di un consenso. Così, dai sei originali, si è potuto allargare il gruppo al Canada, ai vertici della CEE, e includere la Russia – anche se solo momentaneamente, per formare il G8. Allo stesso modo, i Sette hanno potuto ampliarne l’agenda. Partendo dal focus sulle relazioni economiche tra i membri del gruppo, i Sette hanno anche avuto modo di trattare le diverse crisi che si sono presentate negli anni. Sono state molte, dall’evoluzione del rapporto con i paesi in via di sviluppo, alla relazione con il blocco sovietico e i suoi successori, alla competenza – sempre più strutturale – per i dossier politici

Lungi dall’essere uno strumento di governo mondiale, il G7 era e rimane un’istituzione eminentemente occidentale. In origine, i paesi del G7 rappresentavano circa due terzi dell’economia globale, quota ridottasi oggi al di sotto del 50%. Pur impattando il sistema capitalista allargato, specialmente durante la guerra fredda, il G7 si è focalizzato principalmente su interessi economici specifici dei membri, senza aspirazioni globali. Dall’inizio degli anni Novanta gli incontri hanno dovuto affrontare grossi problemi di legittimità. Da un lato, emersero importanti movimenti di opposizione sociale al Washington Consensus (le prescrizioni di politica economica cosiddette neoliberali, progressivamente identificate e propugnate dalle istituzioni finanziarie internazionali con sede nella capitale statunitense). In Italia tutti ci ricordiamo i fatti di Genova del 2001. D’altro canto, la riduzione del peso economico dei Sette e l’allargamento del mondo capitalista resero necessarie istituzioni più rappresentative per tentare di governare il sistema economico internazionale: da quest’esigenza nacque il G20, che poco ha a che fare con il G7. 

Un altro elemento che rafforza l’idea di un organismo occidentale sta nel fatto che nella storia quasi cinquantennale del G7, l’allargamento alla Russia nel formato G8 è stata solo una parentesi. Negli anni Novanta, il trionfalismo post-guerra fredda ha permesso di pensare che si potesse transitare verso una vocazione più ampia dei vertici. Quest’illusione è durata fino al 2008, quando, dopo la crisi finanziaria, le priorità tornarono a concentrarsi su questioni interne al gruppo originario. Poi, la Federazione Russa si è progressivamente allontanata dall’allineamento con i Sette, attestandosi su posizioni sempre più alternative all’Occidente, fino all’inizio della guerra con l’Ucraina nel 2014. Protestando per l’occupazione della Crimea, gli occidentali esclusero la Putin dal gruppo, facendogli di fatto un favore e rafforzando il suo posizionamento internazionale contrario al mondo a guida statunitense, contrassegnando un ritorno definitivo al formato G7.

Nonostante istinti globali velleitari, il G7 si configura primariamente come entità occidentale. Si tratta di uno strumento tattico al servizio dei governi partecipanti. Le linee guida decise dai vertici servono per comunicare diplomaticamente con entità esterne, oppure per fare pressioni su centri di potere nazionali restii ad ottemperare. Così si può portare avanti una politica impopolare o costosa in nome della solidarietà occidentale o di pressioni internazionali. 

Ma alla fine, il G7 si distingue principalmente come strumento strategico per gli Stati Uniti, agendo non come un mezzo per imporre direttive, ma piuttosto come uno spazio per disinnescare il dissenso all’interno della propria sfera di influenza, rendendo così l’egemonia americana più accettabile. In questo contesto, ogni nazione, inclusi gli Stati Uniti, perseguono i propri interessi, talvolta a scapito degli alleati, generando spesso tensioni. Questi scambi rimangono però confinati agli alti e bassi di una dialettica velleitaria tra egemone e gregari, spesso ad uso e consumo delle opinioni pubbliche nazionali. E quando lo spirito di corpo lo richiede, quando le circostanze lo domanda, quando la supremazia del mondo a guida di Washington viene messa in discussione, le divergenze si dissolvono in favore di un fronte unito agli occhi del mondo. Gli americani giocano sul fatto che il G7 è un gruppo ristretto, un club d’élite dell’alleanza occidentale a cui gli europei non vogliono vedersi aggiungere nessuno, sapendo di non poter prescindere delle garanzie di sicurezza americane. D’altro canto, gli alleati sono consci che la coesione del fronte atlantico è un imperativo strategico per Washington, e non si sono astenuti dal ricordarlo alle varie amministrazioni quando esse attentavano a interessi fondamentali degli Europei.

In vista del Summit del G7 previsto a Borgo Egnazia all’inizio di giugno, le aspettative per progressi significativi appaiono moderate, soprattutto considerando il contesto elettorale che caratterizza questo periodo. Spesso, durante gli anni di importanti elezioni, i vertici si sono rivelati meno fruttuosi. Questo perché i leader, in campagna elettorale, vogliono essere visti come strenui difensori dell’interesse nazionale, non disposti a scendere a compromessi. Tendenzialmente ognuno auspicherebbe veder gli altri apporre un timbro di approvazione sulle politiche portate avanti a livello nazionale, troppo spesso in barba al tanto declamato multilateralismo. In particolare, le elezioni statunitensi, con il duello tra Biden e Trump, esercitano una notevole influenza sul dinamismo del summit. Anche in Gran Bretagna, Rishi Sunak dovrà affrontare un difficile rinnovo della Camera dei Comuni. Allo stesso tempo, Emmanuel Macron, Olaf Scholz, e Giorgia Meloni hanno davanti a loro elezioni europee dal forte significato per la politica nazionale. Ogni leader spera che il vertice gli fornisca buona pubblicità e validi argomenti da spendere nella campagna elettorale. 

Tuttavia, il clima transatlantico positivo consentirebbe l’applicazione di una regola non codificata che vuole che quando uno dei partecipanti affronta una scadenza elettorale, è buona usanza rimuovere dal tavolo gli argomenti spinosi e rendergli, nei limiti del ragionevole, la vita facile. Oggi che sono quasi tutti sulla stessa barca, potrebbero esser tentati di non volersi fare troppi sgambetti. Biden confida in questa linea. Spera che i partner dichiarino pubblicamente il contributo della politica economica dell’amministrazione, malgrado sia anch’essa costata molto ai cittadini europei. È verosimile che gli si rendano disponibili per rafforzare Biden contro Trump, e le sue minacce contro la NATO. 

In un periodo di rallentamento della globalizzazione, i dossier commerciali non appaiono urgenti, se non per quanto riguarda la sicurezza dei corridoi marittimi cruciali come il Mar Rosso e altri stretti strategici. Tutti i partecipanti hanno interesse a reiterare un messaggio di unità all’Iran e alle sue bellicose appendici. La supremazia navale degli Stati Uniti e gli interessi commerciali europei convergono su questo punto. Inoltre, le questioni energetiche, tecnologiche, in particolare l’intelligenza artificiale, e ambientali saranno presenti in agenda, anche se è difficile anticipare se saranno oggetto di mosse importanti, in attesa delle discussioni ministeriali di questa primavera. Sul piano politico, temi caldi come la situazione in Ucraina, il Medio Oriente e la competizione con la Cina richiederanno una strategia diplomatica coesa, con gli Stati Uniti che cercheranno di consolidare l’unità tra i partner per trasmettere un messaggio deciso ai loro avversari. La narrativa del confronto tra l’Occidente e le potenze revisioniste – in parte amplificata da Washington – sarà cruciale per il prossimo vertice.

Roma, Ottobre 2023. XI Martedì di Dissipatio

Rimane infine l’ultimo dossier, tra i più cruciali per tutti: l’Africa. Tutti i membri mirano a rafforzare la propria influenza nel continente ricco di risorse, prospettive e una demografia in rapida crescita. Gli USA cercano di limitare l’influenza dei rivali russi e cinesi, mentre gli europei competono per mantenere l’influenza nelle ex colonie. L’Italia, il paese tradizionalmente meno influente all’interno del gruppo, potrebbe usare la sua presidenza per catalizzare l’attenzione sull’Africa, sfruttando il processo preparatorio a porte chiuse per orientare le discussioni a favore del Piano Mattei, un ambizioso progetto di investimenti per lo sviluppo africano lanciato dal governo Meloni, ottenendo non solo un appoggio retorico ma contributi concreti. L’iniziativa italiana può essere concettualmente riformulata per inserirsi nel progetto americano Build Back Better World lanciato nel 2021 come alternativa alla Via della Seta Cinese. E altrettanto probabile che gli avversari silenti ma più agguerriti ai progetti di Roma saranno Francia e Regno Unito, che hanno da sempre interessi in competizione con quelli italiani sul continente. Sono accomunati a noi solo dall’intento, di intensità diversa, di limitare l’immigrazione.

Queste sono le questioni aperte che domineranno il dibattito attorno a questa strana creatura che è il G7. A giugno, durante l’Apulia Summit, non si decideranno i destini dell’Occidente, né tantomeno del mondo. Tuttavia, sarà fondamentale per capire gli equilibri e le priorità di ognuno. Per una valutazione assennata, è importante ricordarsi che le dichiarazioni pubbliche vanno prese con la dovuta cautela.

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