La campagna presidenziale americana smuove sempre gli animi negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Il potenziale impatto globale della politica americana giustifica ampiamente quest’interesse. Molti al di fuori degli USA, quando possono, tendono ad applicare per la corsa alla Casa Bianca le stesse chiavi di lettura che adoperano nel loro Paese. Le opinioni pubbliche europee non sono esenti da questa tendenza. Infatti, questo fa si che Trump sia così popolare presso i sovranisti nostrani, e che sia più facile che un conservatore europeo sostenga il candidato repubblicano, mentre che i progressisti confidino nella vittoria di Joe Biden – o un altro candidato democratico, se dovesse emergere.
La narrazione del mondo post-guerra fredda ha rafforzato l’idea europea di un rapporto sempre più stretto con gli Stati Uniti, di un’ampia comunanza di valori, di un destino condiviso. Una simile sensazione è funzionale all’egemonia americana, per cui l’alleanza con l’Europa, definita occidente, ha valore strategico. La suddivisione del mondo in buoni e cattivi, per quanto futile, così come i numerosi vincoli politici, economici, e culturali sviluppatisi dal secondo conflitto mondiale, e cresciuti negli ultimi trent’anni, hanno rafforzato questo legame transatlantico rendendolo apparentemente ineluttabile. Gli Europei hanno tratto, e traggono tutt’ora, certamente dei benefici nell’appartenere al club che è la sfera di influenza statunitense, specialmente in termini di sicurezza. Tuttavia, diventa necessario guardare a Washington con lucidità e senso critico, e senza usare i consueti, e rassicuranti, parametri ideologici. Occorre tenere a mente che gli Americani hanno i loro interessi, e gli Europei, per quanto fisiologicamente disuniti, i loro.
Oggi che alla Casa Bianca alloggia Joe Biden, il legame con gli Stati Uniti ci sembra solido e pacifico. Ma non è sempre stato così. La storia dal secondo dopoguerra ad oggi è disseminata di tensioni, anche conflitti, tra Washington ed i suoi alleati Europei. L’assertività gaullista, i conflitti economici degli anni Settanta, l’unilateralismo reaganiano, e la guerra al terrorismo di Bush Jr., sono solo alcuni esempi. L’ultimo di questi episodi di tensione nella lunga storia dei rapporti transatlantici si è avuto con la presidenza di Donald Trump, che ha incarnato un apparente crisi dell’egemonia americana motivata dal crescente desiderio isolazionista dei suoi cittadini. Il “sovranismo” trumpiano si è sviluppato come una sfida agli europei su numerosi dossier: da una più esplicita vocazione mercantilista alla (trita e ritrita) richiesta di condividere le spese per la difesa nell’ambito della NATO. Queste politiche, di per sé divisive, hanno scavato un fossato tra alleati perché accompagnate dalla personalità del Presidente Trump, una diplomazia eufemisticamente sui generis, e un’esplicita noncuranza per le esigenze dei partner europei.
Joe Biden ha sostituito Trump a gennaio 2021. L’attuale presidenza democratica è coincisa con quella che sembra a tutti gli effetti un’aperta rimessa in discussione dell’ordine occidentale, che si pensava indispensabile e universalmente accettato, o, meglio, dell’egemonia americana. Fulcro di tutto appare la sfida cinese per la leadership globale. Tuttavia, Pechino sembra essersi intestata la guida di un sommovimento molto più ampio, capillare, e tradizionalmente diviso al suo interno, che vuole sradicare lo status quo culturale, economico, e politico garantito dallo Zio Sam. La guerra russo-ucraina, l’allargamento del fronte dei cosiddetti BRICS, il neo-anticolonialismo africano, e la crisi mediorientale sono tutte vicende che possono essere lette secondo la chiave di lettura di un conflitto tra l’occidente e i suoi nemici.
Come hanno gestito gli Stati Uniti questo sentimento di crisi diffusa, certamente non nuovo? Washington ha cercato di rafforzare il fronte che compone con i suoi alleati più stretti. Il governo americano ha ampiamente sfruttato, e continua a farlo, la narrazione di un occidente sotto assedio, in quanto strumentale alla coesione dell’occidente stesso. Infatti, con questi sviluppi, se gli Stati Uniti vogliono preservare la loro egemonia, la coesione dell’occidente passa da necessità strategica a urgenza esistenziale. Washington deve poter contare sul suo nucleo di alleati storico per affrontare le sfide lanciate dai suoi rivali. Da un punto di vista cinicamente tattico americano, lo choc causato dall’invasione dell’Ucraina è stata un’opportunità che ha contribuito a serrare i ranghi dell’occidente dietro la leadership americana. Ma l’idea di un occidente sotto assedio non corrisponde del tutto alla realtà. Si tratta in parte di una narrazione artificiosa, ancorché suggestiva. I nemici dell’occidente, anche se reali, sono ben lungi dall’essere convintamente coalizzati, visto che i rapporti tra molti di loro sono caratterizzati da un’animosità spesso pari a quella provata per Washington. Ma i leader europei, non hanno potuto o voluto opporsi a questa narrativa, vincolati dall’egemonia americana.
Ma Biden ha anche abilmente sfruttato l’afflato atlantista germogliato in Europa dopo i periodi di magra trumpiani. Nel suo approccio retorico e ufficiale, l’amministrazione Biden ha segnato una netta discontinuità rispetto ai toni adottati dalla presidenza Trump. Con il proclama “America is back”, emerso fin dai primi giorni alla Casa Bianca, il presidente democratico ha annunciato un rinnovato impegno degli Stati Uniti nel contesto internazionale, segnalando un distacco dall’isolazionismo precedentemente propugnato e riaffermando il ruolo degli USA come leader globali. Il cambio di direzione ha anche simboleggiato un ritorno alla valorizzazione dell’alleanza con l’Europa occidentale, un netto contrasto con la precedente amministrazione, in cui Donald Trump aveva frequentemente raccontato come oneroso il rapporto con i partner europei. Questa visione si è tradotta in un nazionalismo economico, con politiche protezioniste che hanno avuto ripercussioni negative sulle economie alleate, esemplificate dal ritiro dell’accordo transatlantico di libero scambio promosso da Obama e dall’imposizione di dazi sulle importazioni europee. Tale svolta politica riflette non solo un cambiamento nella diplomazia, ma anche un’evoluzione nella percezione delle relazioni transatlantiche sotto la guida di Biden.
Così facendo, Washington ha ottenuto l’allineamento quasi assoluto – per non dire appiattimento – degli alleati sulle sue posizioni e l’abbandono da parte degli europei di ogni velleità di autonomia diplomatica. I governi dell’UE, soprattutto quelli dei maggiori paesi, hanno perso la capacità, o forse l’intenzione stessa di articolare una posizione propria sui numerosi dossier internazionali saliti in cima all’agenda diplomatica. Primo fra tutti, l’Ucraina. La fotografia che meglio rappresenta questo allineamento su Washington sono le immagini delle acque agitate del Mar Baltico dopo l’esplosione del Nord Stream 2, o, meno teatralmente, la rottura del legame energetico tra Mosca e l’Europa occidentale. Washington ha sempre temuto che la dipendenza energetica dalla Russia avrebbe indebolito la determinazione Europea ad appoggiare gli USA in caso di necessità. Nixon e Kissinger tentarono invano di impedire l’accordo per il primo gasdotto voluto dalla Germania di Willy Brandt nel 1970, Reagan tentò di bloccare il gasdotto Siberiano nel 1982 – fallendo platealmente, Bush figlio e Obama guardarono con sospetto al Nord Stream 1 nel primo decennio di questo secolo. Infine, Trump e Biden tentarono fino all’ultimo di dissuadere gli alleati dall’aprire il Nord Stream 2.
Tuttavia, l’allineamento transatlantico ha portato gli Europei ad accettare, senza proteste, anche una serie di misure che vanno solo a vantaggio dell’economia americana e sono prive del significato strategico che possiede il gas. Esiste da sempre negli Stati Uniti, e forse è un tratto proprio a ogni egemone, una tensione tra il perseguimento dei loro obiettivi strategici a lungo termine, e le loro esigenze tattiche di più corto respiro, spesso dettate da considerazioni interne. Le inclinazioni mercantiliste della presidenza Trump sono il frutto dell’affaticamento per i costi dell’egemonia. L’amministrazione repubblicana ha incarnato gli istinti egoisti domestici che vogliono abdicare alla missione strategica, che sembravano una parentesi. Ma la politica economica adottata sotto l’amministrazione Biden ha dimostrato quanto la stanchezza del popolo americano per il prezzodella leadership globale sia pervicace. Dunque, anche il paladino della cooperazione transatlantica ha messo in atto politiche palesemente ostili agli interessi economici europei.
L’Inflation Reduction Act – un nome estremamente fuorviante, poiché fa tutto tranne che combattere l’inflazione – è il programma di investimenti pubblici adottato dal Congresso su iniziativa della Casa Bianca. Si tratta di una versione ridotta rispetto a quella con cui Joe Biden è stato eletto, che prevedeva tre trilioni e mezzo di dollari di spese per modernizzare le spesso obsolete infrastrutture del paese in una direzione verde. Dopo negoziati con un Congresso riluttante ad aumentare la spesa, il pacchetto di investimenti pubblici si aggira intorno a novecento miliardi di dollari. Questo massiccio piano di spesa mira a rafforzare il tessuto industriale americano, consentendogli di affrontare le sfide future da una posizione di forza.
Tuttavia, il programma avrà anche un impatto (negativo) sulle economie delle nazioni alleate. In primo luogo, da un lato, il piano include sussidi che compensano parzialmente un dollaro eccessivamente forte, per via dei tassi di interesse elevati, che danneggia le esportazioni americane; mentre gli accordi europei non consentono sussidi a imprese di questo genere. In secondo luogo, in linea con le politiche dell’amministrazione precedente, questo aspetto della Bidenomics mira a riportare in patria le aziende che la globalizzazione aveva spinto a investire all’estero. D’altro canto, è evidente che gli Stati Uniti non intendono trascinare le economie occidentali fuori dalla stagnazione economica post-pandemica, come hanno fatto ripetutamente in passato. Infine la politica democratica ricorda che il nazionalismo economico è un istinto duraturo non limitato al caso Trump. Con la notevole differenza che Biden riesce a praticarlo senza causare tensioni con gli alleati.
Contrariamente alla tendenza che domina il pubblico dibattito sulla nostra sponda dell’Atlantico, Biden dovrebbe essere nemico giurato degli europeisti, o di coloro che hanno a cuore gli interessi degli europei. Non perché l’alternativa si attesti su posizioni a noi più favorevoli. Tutt’altro, visto che c’è una sorprendente continuità nella diplomazia economica degli ultimi due governi statunitensi. Ma bensì perché l’assenza di tatto dell’ex presidente repubblicano e la sua ostilità per i parassiti europei che vivono a spese degli americani avrebbe il potenziale di generare progressi verso una maggiore coesione europea. Questa riflessione non vuole suscitare viscerali sentimenti antiamericani. È velleitario per gli europei pensare che sia alla loro portata, forse anche nel loro interesse, allontanarsi da Washington. Appare invece necessario guardare alle relazioni transatlantiche non in modo dogmatico, ma comprendendone le sfumature e complessità. L’avvicinamento a un’utopia europea non va vista nell’ottica di un irrealizzabile alternativa geopolitica all’egemonia americana, o cinese. Va invece vista come il modo più efficace per creare un margine di manovra nell’inevitabile dialettica con gli Stati Uniti.