Oggi tutto è memoir, ogni libro ispirato da una autobiografia, ogni serie televisiva da esperienze vissute sulla pelle delle scrittrici e degli scrittori di turno. La letteratura, la politica, la televisione, il giornalismo, il cinema e perfino le scienze empiriche, dure, rigide, sono pervase e animate da un movimento identitario. L’identità e il vissuto dell’autore hanno fatto un gran ritorno sulla scena artistica, politica a e sociale. O forse è sempre stato così ma l’io veniva nascosto dietro altre parole – più innocenti, più “oggettive”.
Nel 2016, J.D. Vance è entrato con forza all’interno di questo movimento con Hillbilly Elegy. Un memoir sulla sua salita sull’ascensore sociale americano. Subito bestseller, poiché uscito in concomitanza con l’elezione di Trump a presidente degli Stati Uniti d’America. I suoi nonni erano emigrati nello stato dell’Ohio, che cresceva grazie al boom dell’industria manifatturiera statunitense nel Novecento, e avevano portato con loro e conservato i valori dell’Appalachia. Un’area negli Stati Uniti del sudest.
La migrazione però, diventa mezzo di conservazione dei valori. La nostalgia della comunità abbandonata ritorna in un attaccamento ai valori di quella comunità, e che a volte sfocia in posizioni ultra-identitarie e nell’intorno esterno della xenofobia. “Non ci piacciono gli stranieri [outsiders]”, scrive Vance, “o le persone che sono differenti da noi, e la differenza può essere in come appaiono, si comportano, o come parlano, e questa è la differenza più importante.”
Cresciuto nell’Ohio che si stava muovendo verso un’età post-industriale, Vance canta l’elegia dei valori hillbilly: lealtà verso la famiglia, senso dell’onore, devozione, virtù comunitarie, severità e “bizzarro sessismo”. Valori sul punto della decadenza e che avrebbero portato con sé dentro il burrone della depressione sociale la classe operaia bianca.
I suoi nonni erano scappati dalla povertà del Kentucky e del decadimento economico dell’area centrale e a sudest dei Monti Appalachi. A seguito della chiusura delle miniere che davano lavoro alle famiglie e alla lenta scomparsa di un senso di dignità basato sulla manovalanza e sulle famiglie allargate, gli hillbillies si trovarono abbandonati dallo stato federale e lasciati in una condizione sociale fragile: che si tramutò presto in una sovraesposizione agli abusi di droghe, violenze in famiglia, schiavitù dai prodotti miseri del capitalismo e povertà relativa. Chi restava rischiava la dignità della vita, chi emigrava forsennava la fortuna.
Questo ciclo si ripetè con la stessa forza quando le grandi industrie dell’Ohio cominciarono a delocalizzare e lasciare nel degrado di città in declino la classe operaia che era emigrata e aveva trovato lavora nell’industria siderurgica, meccanica e dell’automobile. Un ciclo che finì per deprimere un’intera classe sociale: la white working class. Di cui Vance canta l’elegia, l’elegia di una tradizione culturale. “La nostra elegia è sociologica, certo, ma tocca anche la psicologia e la comunità e la cultura e la fede.”
Il libro è stato pubblicato in Italia da Garzanti con il titolo Elegia Americana. Un’allusione alla Pastorale Americana di Roth. Ma un titolo più adeguato al memoir di Vance sarebbe Elegia del terrone, o del meridionale. In Italia, questi strappi e arresti improvvisi della mobilità sociale esistono sulla via meridione-settentrione. La Campania, la Calabria, la Sicilia, la Basilicata e le regioni che hanno ricevuto storicamente meno investimenti sociali, hanno prestato la forza lavoro al progresso del nord nel Novecento. Ma quando le grandi industrie, come la ex-Fiat a Torino, chiudono la maggior parte dei loro investimenti sociali in un luogo o in un territorio, le persone finiscono per perdere uno stile di vita e le città decrescono. Portando con se le ragioni di un imminente crollo.
Con la mobilità dell’ascensore sociale arrestata, grandi fette di una classe sociale rimasero bloccate nelle angustie di un mezzo che andava più giù che sù. Nell’immobilità, le pareti si stringono, fiaccando chi aspirava a un tenore di vita migliore. La mobilità sociale è un movimento che si allontana da qualcosa, scrive Vance. Un movimento che porta gli individui a vedere il proprio passato da una posizione sociale differente, che garantisce una distanza sufficiente e un distacco per comprendere i valori della classe abbandonata.
La mobilità sociale non è solo una questione monetaria o economica, scrive Vance, ma è un cambiamento più radicale: un cambiamento di stile di vita. Esiste un intero sistema di norme, costumi e valori che si acquisiscono quando si sale sull’ascensore sociale. Vance, dopo aver finito la scuola in Ohio ai limiti della povertà, si arruolò nell’esercito e poi studiò alle università dell’Ohio e a Yale, attraversando una seconda scalata sociale. Dopo quella dei suoi nonni. Una scalata che lo portò ai ricevimenti lussuosi di Yale, lasciandolo incapace di comprenderne le cornici morali e i modi del socializzare.
“Quando vai da colletto blu a colletto bianco, quasi tutto della tua vecchia vita diventa fuori moda se va bene, o malsano al peggio.” Come comandare a un’intera classe sociale di abbandonare i suoi costumi profondi, i suoi principi incastonati nella carne? Negli Stati Uniti, il partito della working class, il Partito Democratico aveva tradito gli impulsi politici che proteggevano i lavoratori dell’industria manifatturiera. Allo stesso modo del Partito Repubblicano, mai campione e rappresentante di quella frangia sociale. Una classe operaia tradita dai dirigenti e dai colletti bianchi, così come dalle senatrici e dalle governatrici. Una comunità fondata sull’amore per la nazione e i suoi eroi, ma se non si trova nessuno da ammirare diventa difficile andare avanti.
Già nell’Ottocento, il filosofo americano Ralph Waldo Emerson aveva scritto che il miglioramento delle leggi dovrebbe provenire dalle concessioni delle sezioni ricche della società, non dagli affanni di quelle povere. Vance è stato scelto dal Partito Repubblicano come candidato vicepresidente al fianco di Donald Trump, per dare un segnale che il partito tradizionalmente lontano dagli interessi e dagli istinti della classe operaia ha cambiato direzione.
Tra le richieste del populismo economico di Vance, compare anche la richiesta di un salario minimo di $20 per alcuni settori dell’industria statunitense. Una richiesta socialista che non stupirebbe se fatta da Bernie Sanders per i metallurgici della Pennsylvania o da Alexandra Ocasio Cortez per le lavoratrici della ristorazione dello stato di New York. Ma che stride con la tradizione del partito conservatore. E l’eredità valoriale di Vance lo spinge anche a questo. Alla Republican National Convention tenuta a Milwaukee in Wisconsin il mese scorso, Vance ha venduto al pubblico entusiasta le promesse di ricostruire l’industria e rinnovare il valore della famiglia statunitense. Il protezionismo economico, ovvero “prima la working class USA”, sarà uno dei mezzi per cercare di raggiungere queste promesse elettorali.
A giugno, in un’intervista con il New York Times, Vance aveva ribadito di credere nelle politiche di Trump, soprattutto su immigrazione, commercio e relazioni politiche esterne. Completando così la parabola di conversione al trumpismo. Per proteggere la forza lavoro nazionale e impedire la “labor substition”– la sostituzione di una classe lavoratrice con impiegati che vengono pagati meno – si dovrebbero usare i dazi sulle merci, per Vance.
Un pessimista che denuncia il decadimento di una società – la decadenza di un popolo, di una comunità, degli hillbilly, della white working class, di una nazione – e che cerca una via per combatterlo.
Dopo aver sorpassato la linea di demarcazione che separa le classi medio-basse dalle elites, Vance è sbarcato alla Silicon Valley. Finendo nelle grazie di Peter Thiel e diventando un’anomalia del conservatorismo politico. Con una fede estrema, e un’ideologia voltata all’autosufficienza individuale e al lavoro duro. Vance è una promessa per il partito repubblicano e una speranza, una risposta al declino dell’economia dei colletti blu. Per salvarli dal pessimismo morale e della penuria materiale portata dalla recessione.