L’ultimo numero di Limes dal titolo “Occidenti contro” – e che tutti dovrebbero leggere alla vigilia del voto Oltreoceano – è un ritratto incredibilmente lucido del grande scisma iniziato quattro anni fa con l’elezione di Donald Trump, il quale ha ridefinito alla velocità della luce i confini dell’euro-americanismo. È la dimostrazione che il presidente repubblicano non porta avanti la sua agenda in maniera istintiva bensì segue una dottrina geo-filosofica con un obiettivo molto preciso: il contenimento strategico del corridoio Parigi-Berlino-Mosca, laddove è in gioco l’indipendenza europea, soprattutto se il terminale rischia di diventare Pechino. Quello è il cuore del problema, quello è il vero punto di implosione dell’Occidente così come lo abbiamo conosciuto. I leader europei lo sanno, e a parte qualche dichiarazione fuori dalle righe di Emmanuel Macron e Angela Merkel, i due non hanno mai avuto il coraggio di andare fino in fondo. Solo il Vaticano al momento, che è potenza di cielo, è riuscita a tagliare il mare e la terra, e viaggia su nuove dimensioni, imperiali e celesti.
La differenza col passato, ed è ciò a far di Donald Trump un presidente isolazionista sui generis, lontano dalla scuola neoconservatrice, è la volontà di potenza e l’applicazione del controllo “da remoto” e non “di prossimità”. Per l’Europa è valido lo stesso approccio adottato dalla Casa Bianca che si è visto nel Vicino e Medio Oriente con gli “accordi di Abramo” (all’impegno militare si preferisce dare mandato ai più stretti alleati della regione per contrastare i nemici storici). Così in questi ultimi anni l’asse franco-tedesco è stato accerchiato, messo sotto pressione, indebolito, destabilizzato: prima dalla Brexit, poi dall’ascesa della Lega di Matteo Salvini in Italia, e infine da quel blocco euro-orientale, che va dalla Polonia all’Ucraina passando per i Paesi baltici, nuova frontiera della cortina di ferro anti-russa. L’Unione Europea come l’avevamo conosciuta in tempi recenti sembrava sgretolarsi su sé stessa, e invece, improvvisamente, con la diffusione dell’epidemia è riuscita a ribaltare quella percezione negativa che i Paesi membri (e con loro i popoli) avevano nei confronti delle tradizionali politiche di austerity di Bruxelles. Il fato, in politica, è un elemento soprannaturale che troppo spesso gli addetti ai lavori continuano a sottovalutare.
Ad ogni modo quando si scrive di elezioni americane da una prospettiva eurocentrica la premessa è sempre stata la stessa: negli Stati Uniti non esistono partiti filo-europei, a differenza dell’Europa in cui tutti i partiti sono filo-americani. Questa potrebbe invece essere l’elezione in cui l’europeismo mette una volta per tutte una pietra tombale sull’americanismo di maniera. C’è un paradosso tutto occidentale infatti che fa di Donald Trump il presidente ideale non tanto per i populisti in fase terminale, ma per gli europeisti di ritorno, i quali, con un repubblicano alla Casa Bianca, hanno la possibilità di portare gli “Occidenti” a un livello avanzato dello scontro. Che per l’Europa significa ridimensionare quel rapporto decennale di subalternità nei confronti degli Stati Uniti. È un calcolo a ritroso necessario perché se dobbiamo dare un merito a Donald Trump è proprio quello di aver insegnato al mondo che uno Stato, anche se è “la più grande democrazia al mondo” (sic), resta un sistema complesso animato da corpi intermedi, apparati di potere distaccati, gruppi di pressione o di sovversione, che può essere governato solo col cinismo di chi sa trattare gli alleati come sudditi e i nemici senza ipocrisia.