Intervista

«Non esiste alcuna Internazionale Reazionaria, se non nei cassetti delle redazioni dei giornali di sinistra». Intervista ad Andrea Venanzoni

«Credere che i titani del Tech seguano una certa agenda politica perché hanno letto e apprezzato le teoriche neocamerali di Curtis Yarvin o l’’Illuminismo Oscuro’ di Nick Land o ‘Democrazia: il dio che ha fallito’ di H. H. Hoppe, che Liberilibri ha in queste settimane meritoriamente ripubblicato, e a loro ispirino la loro agenda economica e finanziaria, è un esercizio di dadaismo interpretativo.»
«Non esiste alcuna Internazionale Reazionaria, se non nei cassetti delle redazioni dei giornali di sinistra». Intervista ad Andrea Venanzoni
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L’Europa vive una fase di grande fibrillazione tanto politica e istituzionale, quanto culturale e filosofica che viene accompagnata da una sorta di nuovo “riflusso nel privato” antistatalista, antimoralista, antimultilaterale sulla scia delle esperienze statunitensi e argentine. Un fenomeno politico e culturale, tra neoreazionarismo e paralibertarianismo, spesso schematizzato con vaghi neologismi e formule mediatiche che oscillano tra demonizzazione e glorificazione, utopismi e tendenze apocalittiche, che meriterebbe un più lucido approfondimento. Per meglio comprendere i nodi e i caratteri di questi fenomeni che sono stati amplificati dal più recente “vento di destra” proveniente dall’America trumpiana e muskiana abbiamo intervistato Andrea Venanzoni, saggista, editorialista e ricercatore di diritto pubblico e delle nuove tecnologie.

-Per commentare le evoluzioni culturali del cosiddetto muskismo sono stati utilizzate varie semplificazioni come “tecnodestra”, “tecnofascismo”, “tecnoreazionarismo”. Come valuta queste etichette molto fuorvianti e cosa sfugge a questa narrazione?

Sono tutte categorie di polemica politica, non politologiche. Sono volgarizzazioni che piegano, ad usum Delphini, argomentazioni e elementi che appartengono invece ad un dibattito più serio e che riguarda la pervasività dei grandi poteri del digitale, a fronte della obsolescenza delle istituzioni rappresentative. Una sinistra a corto di argomenti e in posizione di totale negazione del reale non trova di meglio che utilizzare la solita, ma ormai logora e inerte, strategia della criminalizzazione dell’avversario, semplicemente aggiungendo il suffisso ‘tecno’ all’ur-fascismo che scorge e vede ovunque si staglino qualcuno o qualcosa che non condividono la visione del mondo progressista. Quando parlo di ‘volgarizzazione’ e di strumentalizzazione intendo, molto semplicemente, che nessuno parlava di ‘tecnosinistra’ e nessuno del pari paventava minacce alla tenuta democratica quando alcune piattaforme cancellavano post, intere pagine, argomentazioni, immagini appartenenti al mondo genericamente di ‘destra’. 

La cancellazione della pagina di Donald Trump, all’epoca, da parte di Twitter fu una decisione oggettivamente senza precedenti, ma che del pari non suscitò particolari perplessità tra chi oggi si straccia le vesti davanti lo spirare dei venti algoritmici della ‘tecnodestra’. Eppure si sarebbe dovuto ragionare sul fatto che Trump può starti antipatico quanto vuoi ma quello rimane un precedente pericoloso, perché spalanca la porta alla gestione di libertà di ordine costituzionale, in questo caso politiche, da parte delle piattaforme. Un tema su cui si sono dovuti esercitare anche i nostri tribunali quando nella nota vicenda Casapound contro Facebook hanno dato ragione al movimento di estrema destra, che all’epoca si candidava alle elezioni, evocando i giudici l’articolo 49 della nostra Costituzione e non più solo il 21.

Ha fatto molto discutere in tal senso l’intervista-dialogo tra Alice Weidel e Elon Musk. Sia per la sua condanna del nazismo come “comunismo di destra” sia per la sua sostanziale conversione ad una bussola antistatalista. Che ne pensa?

Hitler non era un marxista e non era comunista ovviamente per come politicamente si è affermato il termine ma la Weidel con la sua affermazione ha colto perfettamente nel segno che le interessava colpire; snudare l’essenza socialista e collettivista del nazional-socialismo e, al tempo stesso, legittimarsi allontanando da sé l’accusa di simpatie per quella esperienza storica. I babbei ironizzano, ma la sua mossa è stata strategicamente furba e raffinata. Ha usato quella polarizzante e sensazionalistica semplificazione perché si stava rivolgendo a un pubblico prevalentemente americano e chiunque segua la Weidel sa benissimo che di solito utilizza argomentazioni molto più complesse. 

Negli USA la matrice socialista dei totalitarismi è un assunto concettuale piuttosto diffuso, e non sono pochi quelli che ritengono lo stesso Terzo Reich una esperienza politica ‘socialista’, si pensi al Rainer Zitelmann di ‘Was Hitler Really Right-Wing?’ o ‘The Myth of “Nazi Capitalism” ‘ di Chris Calton, a cui si può aggiungere il risalente saggio di Erik von Kuehnelt-Leddihn ‘Leftism’ proprio sulle radici socialiste del totalitarismo, assunto concettuale che Mises d’altronde aveva sviluppato decenni prima in ‘Planned Chaos’. In questo senso la Weidel sta cercando di accodarsi a quel coacervo di formazioni politiche, pur molto eterogenee tra loro, che sostengono la piena libertà economica ma sono meno ‘liberali’ sui diritti civili e che soprattutto si oppongono alla immigrazione incontrollata e a una certa deriva esasperante della religione dei diritti civili, roba questa ultima che ha prodotto il wokeism, i cui eccessi, più che la presunta Internazionale Reazionaria, hanno propiziato il trionfo di questo vento di destra. Ecco, se certi commentatori di sinistra vogliono davvero vedere l’Internazionale Reazionaria si guardino allo specchio.

-Quali potranno essere per l’Italia gli effetti di questo effetto Musk, specie sul piano culturale e valoriale? Crede che questa atmosfera culturale possa intaccare quella “repubblica fondata sulle rendite” (per dirla con una definitiva formula di Geminello Alvi) oppure l’Italia rimarrà impermeabile a queste trasformazioni?

La nostra ‘destra’ plaude Milei e poi, ovviamente, fa l’esatto opposto. Loda Musk e poi istituisce tavoli, comitati, commissioni, per ‘regolare’ l’alta tecnologia, come se non bastassero le regole europee. Naturalmente l’esperienza argentina e quella americana non possono essere riprodotte sic et simpliciter in Italia, stanti profonde differenze sociali, storiche, ordinamentali ma c’è una diversità radicale di cultura e di coordinate ideologiche tra queste ‘destre’; noi qui non riusciamo, e spesso non vogliamo per quel tribalismo politico delle rendite di cui parlava Alvi, e non solo lui, nemmeno limitare lo stock di legislazione o la selva oscura delle partecipate statali o comunali. Se fosse da anarco-capitalisti dire che abbiamo troppe partecipate o troppe leggi, beh dovremmo concluderne che gran parte degli studiosi della scienza dell’amministrazione, del diritto pubblico o del diritto amministrativo sono anarco-capitalisti…

La ‘destra sociale’ italiana, che permea profondamente come imprinting culturale il maggior partito di governo e che si ispira a una evidente statolatria, è incompatibile con quel genere di visione più libertaria. Poi, chiaramente, pacche sulle spalle, applausi, anche per reciproche convenienze internazionali e per comune opposizione al progressismo ma la sostanza resta inconciliabile. Mi auguro comunque che la frequentazione, sia pure episodica, con queste altre latitudini concettuali possa conciliare la nascita di aree culturali nella destra italiana meno legate a una certa tradizione statalista o almeno smussarne gli eccessi statalisti.

-In una sua recente dichiarazione ha distinto dalle varie formule utilizzate quella del “Tecnofeudalesimo”. Ritenendola, tra le tante usate la più appropriata per descrivere il fenomeno dell’unione tra valori reazionari e libertariani e mondo high tech. Che cosa è il Tecnofeudalesimo e quali sono i suoi caratteri e miti?

Tecnofeudalesimo è un termine utilizzato ormai da anni anche in sede accademica e che rappresenta l’evoluzione del neofeudalesimo, altro termine entrato nel lessico degli studi sulla globalizzazione. Si tratta di concetti sociologici e politologici e giuridici, che non hanno nulla a che vedere, ovviamente, con il feudalesimo storico. Ma che ne assumono alcune caratteristiche, come la gestione a base contrattuale dei rapporti e delle relazioni, il decentramento su base funzionale del potere, la connessione reticolare e la integrazione verticale e quella conglomerale. Un fenomeno come il ‘market-tipping’, ovvero la centralità di una data piattaforma che porta al riassetto di un segmento di mercato a seconda del suo potere, è spesso richiamato negli atti antitrust che riguardano piattaforme digitali. 

Ovviamente il tema non è solo antitrust, perché nel momento in cui le piattaforme erogano servizi nei fatti pubblici o possono maneggiare diritti di ordine costituzionale, influenzando il circuito politico, assumono un ruolo esse stesse sovrano. La mole di dati che detengono le trasforma, anzi, in signori assoluti. Non è semplicemente il ‘capitalismo della sorveglianza’ su cui ha scritto la Zuboff, ma qualcosa di più profondo e capillare capace di divenire quel ‘computer intimo’ evocato dalla Lupton. L’aura ideologica che permea una parte della Silicon Valley, e che porta a una qualche commistione tra pensiero libertarian e neocameralismo reazionario, la sedicente ‘Californian Ideology’ teorizzata da Richard Barbrook e che tanto titilla i sogni della sinistra post-marxista quando c’è da decostruire il neofeudalesimo neoliberista, è comunque insufficiente per spiegare fenomeni così complessi, perché la sovrastruttura concettuale che anima la Silicon Valley è assolutamente ancillare e formale. Non è essa a influenzare l’azione e l’operato dei grandi conglomerati digitali, è essa invece a esserne influenzata, come il landiano ‘Illuminismo Oscuro’ che nei fatti è un, per quanto affascinante, abbellimento di elementi concettuali espressi e formulati prima da Peter Thiel, e che restano, nella prassi degli affari, elementi finanziari ed economici, non politici o filosofici.

-Non è però la prima volta che il “feudalesimo” viene recuperata come categoria concettuale e interpretativa per analizzare i nostri modelli sistemici. Ed anzi su ciò c’è una copiosa letteratura, che però indaga una categoria ben diversa: quella del “neofeudalesimo”. Su cui ha scritto molti testi accademici tra cui il suo “Ipotesi neofeudale: libertà, proprietà e comunità nell’eclissi globale degli Stati nazionali”. Che cos’è il neofeudalesimo e quali sono le caratteristiche che lo distinguono dal Tecnofeudalesimo?

Come dicevo, il neofeudalesimo è una categoria che punteggia gli studi sulla globalizzazione e che origina nell’alveo di una certa critica sociale marxista e post-marxista, nonostante ironia del caso il termine sia stato coniato dal libertarismo americano in polemica contro Galbraith e contro i processi di centralizzazione burocratica. A partire dalla teorica di Immanuel Wallerstein sul ‘sistema-mondo’, si è iniziato a parlare dei poteri privati egemoni nello spazio vuoto di sovranità della globalizzazione. D’altronde il medioevo come categoria didascalica, non storica, è richiamato da moltissimi autori, dal Galgano di ‘Lex mercatoria’ nelle cui ultime pagine si parla di una tecnodemocrazia di matrice aziendale agli studi di Maria Rosaria Ferrarese. 

Il neofeudalesimo, o neo-medievismo, è una categoria, penso alle analisi di J. Zielonka, utilizzata spesso per spiegare la iper-frammentazione internazionale, la embricazione tra poteri pubblici e poteri privati, i processi di produzione normativa che sfuggono agli Stati e vengono esercitati da soggetti privati. Il tratto comune di questa impostazione è la connotazione tendenzialmente caotica e negativa, oscura, che viene assegnata al medioevo. Nella mia prospettiva al contrario è possibile anche parlarne in accezione positiva, valorizzando una teorica di pluralismo ordinamentale, quale il medioevo fu; ovvero mettere l’accento su come la frammentazione e la connessione di aree sulla base di reciproci interessi e sensibilità possano essere un incentivo alla libertà, alla inventiva, e non solo qualcosa di distruttivo. L’unica differenza tra i due termini è data dal suffisso ‘tecno’, perché quando si affacciano all’orizzonte le teoriche neofeudali la tecnologia avanzata non era poi così diffusa come oggi. Sul tecnofeudalesimo ormai c’è una cospicua produzione libraria. Penso a ‘The Coming of Neofeudalism’ di Joel Kotkin, che nonostante il titolo è proprio sul tecnofeudalesimo, o ‘Techno-Feodalisme. Critique de l’économie numerique’ di Cédric Durand, libro del 2020 che pochi mesi fa è stato tradotto e pubblicato anche nel mondo anglo-americano. Molte di queste ricostruzioni appartengono al mondo della New Left, non quella di Kotkin però, e vedono nel tecnofeudalesimo il pericoloso colpo di coda di un capitalismo crepuscolare.

Roma, Gennaio 2025. XXIII Martedì di Dissipatio

-In molti hanno parlato della nascita di una cosiddetta “internazionale reazionaria” o “internazionale accelerazionista reazionaria”. Come commenta la visione sulla diffusione di una cultura più ispirata ad un certo “libertarianismo oscuro”? E secondo lei quali ne sono le cause e i precursori?

Non esiste alcuna Internazionale Reazionaria, se non nei cassetti delle redazioni dei giornali di sinistra. Le piattaforme digitali seguono i loro interessi e per farlo oscillano tra aree politiche spesso persino confliggenti tra loro, come ha dimostrato il caso di Meta che era il conglomerato digitale beniamino dei progressisti fino al riposizionamento di Zuckerberg, o Twitter prima dell’avvento di Musk. Il riposizionamento di Meta precede la vittoria di Trump e origina dalla insofferenza nei confronti della regolazione europea, che Meta ha sempre ossequiato ma sopportando, per questo, costi non banali. A inizi 2024, quando il Commissario europeo Breton inviava alle piattaforme lettere di compliance al DSA, Meta ha iniziato a dimostrare la propria insofferenza. Il sostegno a formazioni politiche euro-scettiche non è necessariamente adesione ideologica quanto lotta contro l’attuale architettura iper-regolatoria europea che le piattaforme digitali, anche se americane, sovente subiscono.

Credere che i titani del Tech seguano una certa agenda politica perché hanno letto e apprezzato le teoriche neocamerali di Curtis Yarvin o l’’Illuminismo Oscuro’ di Nick Land o ‘Democrazia: il dio che ha fallito’ di H. H. Hoppe, che Liberilibri ha in queste settimane meritoriamente ripubblicato, e a loro ispirino la loro agenda economica e finanziaria, è un esercizio di dadaismo interpretativo. Senza dubbio alcuno esponenti della Silicon Valley possono essere influenzati dal pensiero libertarian, o magari anche da quello di Yarvin, ma tutto ciò si traduce in attività minori, come il finanziamento del Seasteading, di Patri Friedman, figlio del teorico anarco-capitalista David Friedman e nipote di Milton. Quando Thiel ha finanziato Yarvin l’ha fatto per una start-up digitale, non per la disseminazione politico-culturale. A oggi uno dei pochi veri tentativi politici anarco-capitalisti originati in seno alla Silicon Valley è stato il referendum sulle Six Californias che avrebbe dovuto fare della Silicon Valley uno Stato autonomo, e che si è rivelato un fallimento.

-Cosa sta scrivendo? Può farci qualche anticipazione?

Un libro che approfondirà molti dei temi di cui abbiamo appena parlato.

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