L’apparato tecnico, anziché risolvere le contraddizioni, spesso le amplifica, le esaspera, proprio perché continua a fondarsi sul presupposto illusorio del divenire. Pretendere di ridurre l’essere ad oggetto della volontà, significa ignorare la natura ontologica del reale, cadere in una contraddizione insanabile, la quale si traduce, sul piano pratico, nel senso di smarrimento e nell’angoscia.
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Il 15 ottobre 2024, Google Quantum AI ha annunciato un investimento strategico in QuEraComputing, una startup con sede a Boston specializzata nello sviluppo di computer quantistici su larga scala, in grado di restituire simulazioni predittive avanzate. Nel febbraio 2025, QuEraComputing ha dichiarato di aver raccolto ben 230 milioni di dollari in finanziamenti, provenienti non solo da Google, ma anche da diversi fondi di investimento: una cifra che lo rende il progetto più consistente su scala planetaria tra quelli di analogo rilievo, che abbiano come focus principale la previsione ad ampio raggio. Si tratta, infatti, di previsioni complesse, con un alto grado di affidabilità, e potenzialmente utilizzabili in vari campi del sapere scientifico. È, allo stato, un progetto con obiettivi ambiziosi di previsione computazionale tramite l’impiego congiunto di sistemi quantistici ed intelligenza artificiale. Dalla Cina non si hanno informazioni sufficienti per comparare la portata dei finanziamenti, ma si può ragionevolmente supporre che, dopo il lancio dello scorso marzo di Manus AI, l’intelligenza artificiale sviluppata dalla startup cinese Monica, siano in corso ricerche e studi nel campo del software con intenti analoghi, dai risultati promettenti. La corsa all’intelligenza artificiale è iniziata da diversi anni, ma ha assunto un’accelerazione esponenziale quando gli investimenti globali nel settore hanno cominciato a moltiplicarsi.
Tuttavia, basta guardarsi intorno per percepire che l’accelerazione esponenziale della tecnica predittiva è accompagnata da un senso di smarrimento collettivo che rivela una profonda contraddizione fra il progresso tecnico-scientifico e le grandi crisi che avvolgono il presente. Perché, se da un lato l’investimento nell’intelligenza artificiale sta fornendo i risultati sperati, pur senza certezze sull’attendibilità delle previsioni complesse, dall’altro l’uomo si trova ancora di fronte ai medesimi pericoli per la propria sopravvivenza che alimentano ansie collettive, mettendo in dubbio il raggiungimento del paradiso per la civiltà della tecnica.
La contraddizione moderna affonda le proprie radici in una contraddizione ontologica originaria che, ormai è chiaro, rappresenta il substrato ideologico dell’occidente. La civiltà moderna, pur non sapendolo, poggia le basi su una convinzione che rappresenta il pilastro oscuro del suo pensiero, la radice di tutte le contraddizioni: la fede nel divenire. L’idea secondo cui ciò che è, è destinato, prima o poi, a cessare di esistere per mezzo della forza creatrice e distruttrice, il divenire appunto, in grado di estrarre ogni ente dal nulla e ricondurvelo strappandolo violentemente, e con dolore, all’esistenza. Nella sua forma più estrema, ogni ente, in ogni istante misurabile, sarebbe destinato a scomparire, non essendo più identico nemmeno in minima parte alla sua configurazione precedente. Corollario inevitabile è la fede nella morte. Non solo intesa come evento biologico, ma come paradigma fondamentale del divenire. Questa fede, radicata nel mito come nella modernità scientifica, è il motore delle grandi narrazioni della salvezza umana, che oggi presuppongono, con maggiore vigore, che l’essere possa essere annientato e che, quindi, debba essere salvato. La contraddittorietà della fede nella configurazione violenta del divenire emerge nettamente. Affermare che qualcosa possa cessare di essere equivale a contraddire il principio d’identità: “ciò che è” non può “non essere” senza violare la struttura fondamentale del pensiero, al pari di quanto affermato da Severino riprendendo il punto di partenza di Parmenide.
La contraddizione è estrema e mostra che la morte, intesa come annientamento, sia un’impossibilità ontologica. È la contraddizione originaria. L’affermazione secondo cui tutto diviene, ossia che tutto provenga dal nulla e in esso ritorni, si presenta come un paradosso. È l’unico contenuto che pretende di essere immutabile proprio per rendere plausibile la realtà del divenire. Ma se davvero tutto divenisse, anche questa affermazione dovrebbe venir meno. E invece essa si sottrae al divenire per sostenere il divenire stesso, mostrandone l’intrinseca contraddittorietà e svelando la fragilità della fede nell’annientamento. Il cortocircuito logico è evidente tuttavia non impedisce di aver fede nella possibilità che tutto possa essere definitivamente annientato e non esista verità capace di resistere al tempo. Se una verità immutabile non esiste, come ci insegna la scienza moderna, la capacità della Tecnica di salvare l’uomo, non può essere considerata una verità.
In Oltre il linguaggio, Severino affermava che:
«La Tecnica può liberare l’uomo dalla morte, ma l’immortalità raggiunta è minacciata dalla possibilità del suo annientamento. Il paradiso della Tecnica è il luogo dove l’angoscia diventa estrema. Nell’intervallo che separa il tempo presente dal paradiso della Tecnica, la crescita della felicità è insieme l’incubazione della forma estrema dell’angoscia.»
In un mondo stretto nella morsa di crisi che sembrano non avere precedenti, ognuna delle quali reclama di essere definitiva, l’umanità si affanna nel tentativo di trovare soluzioni, spesso con esiti deludenti. Pochi, tuttavia, hanno la lucidità e la libertà morale necessarie per cogliere la radicalità del problema. Eppure, è proprio in questo frangente storico, in cui le contraddizioni si fanno più evidenti e dolorose, che la filosofia radicale ci invita ad una riflessione imprescindibile. Non si tratta di sciogliere i nodi dolorosi, ma di riconoscere l’illusione che li genera. Guardare oltre l’illusorietà del divenire, inteso come struttura logica in cui l’individuo crede che si sviluppi l’essere, significa riconoscere come esso si sia imposto non come semplice apparenza, bensì come forza che, presupponendo il nulla, strappa gli enti all’esistenza per ricondurli al nulla. Il divenire che a sua volta genera l’illusione del tempo, la forma apparente in cui l’illusorietà del divenire si manifesta, impedendo all’uomo di riconoscere ciò che è eterno e immutabile. Sarà possibile oltrepassare la fase in cui l’uomo crede di essere isolato dal destino, comprendendo come proprio in tale fede risiedano insieme il problema e la soluzione al paradosso che soffoca la terra?
Se misuriamo gli effetti di tale substrato ideologico nella realtà fenomenica della civiltà occidentale, è impossibile far a meno di cogliere, per dirla come Severino, che la storia dell’Occidente è la storia della progressiva dimenticanza dell’eternità dell’essere. Accanto alla contraddizione ontologica che grava sull’essere, emergono le contraddizioni contingenti: manifestazioni storiche, culturali e psicologiche della contraddizione originaria. Sono le tensioni della “Terra isolata dal destino”, il luogo dove l’essere è creduto mortale. Sono i conflitti irrisolti della civiltà e dell’individuo che, credendo nel nulla, si affannano per salvare l’uomo e tutto quanto a lui caro. La lotta per il potere, la distruzione della natura e la violenza preventiva rappresentano il disconoscimento dell’eterno che abita ogni uomo.
Lo sfruttamento terrestre è un esempio emblematico del conflitto ontologico irrisolto: l’uso massiccio e predatorio delle risorse naturali, indispensabile al funzionamento dell’attuale sistema economico, entra in conflitto diretto con l’urgenza di preservare la terra. La crisi energetica, in particolare, incarna una contraddizione apparentemente insanabile se ci si limita a pensare nell’orizzonte della terra come entità finita e mortale. Da un lato, il sistema globale dipende ancora massicciamente da fonti energetiche non rinnovabili, il cui sfruttamento intensivo ha causato un impatto devastante sul clima e sull’ecosistema planetario. Dall’altro, si avverte la necessità urgente di una radicale transizione verso fonti sostenibili e un diverso modo di abitare il pianeta. Questa opposizione tra l’uso massiccio e predatorio delle risorse e la necessità di preservare la terra come ambiente vivibile è fonte di sofferenza. Non sono semplici paradossi astratti: sono i nodi dolorosi della nostra esistenza collettiva e personale, visibili in modo chiaro nelle tensioni che agitano il nostro presente, da quelle geopolitiche a quelle sociali per finire nei conflitti individuali.
Nello scacchiere internazionale, queste contraddizioni trovano espressione nelle tensioni crescenti tra potenze globali. Le competizioni per il controllo delle risorse naturali, come le contese in Africa per il litio e il cobalto, si sviluppano in contesti di forte instabilità politica, dilaniati da guerre e crisi umanitarie. Questi conflitti non nascono solo dal desiderare un livello maggiore di potenza, ma dalla convinzione che l’attuale benessere possa svanire nel nulla e che il futuro sia qualcosa da dominare per non esserne dominati. La lotta per la supremazia diventa così il riflesso di un terrore più profondo, quello dell’uomo divorato dall’ansia di non sapere dove sia finito ciò che di grandioso ha vissuto e quale percorso lo attenda. Ed è proprio questa lotta che alimenta il circolo vizioso della contraddizione originaria. Da un lato si afferma la precarietà del reale, dall’altro si tenta di governarla con strumenti tecnici che, proprio perché fondati sulla negazione dell’eternità, risultano sempre insufficienti e fallimentari nel voler proporre una visione definitiva.
Le grandi contraddizioni, in definitiva, sono l’origine della violenza, in quanto pretesa di disporre dell’essere, e dell’angoscia individuale e collettiva, insopportabili corollari dell’ipoteticità del sapere scientifico. Sono l’origine della frattura esistenziale che impedisce all’uomo di riconoscere sé stesso come parte dell’eterno, incapace di vedersi per quello che è avendo di fronte una visione parziale dell’esistenza. Tuttavia, questa contraddizione non può essere risolta attraverso soluzioni parziali o tecniche, come, ad esempio, nel caso della crisi energetica, con un semplice passaggio alle energie rinnovabili. Come non può ricercarsi la soluzione laddove risiede il problema, ovvero nella visione della terra come un luogo destinato a consumarsi e scomparire. Finché l’uomo pensa che la terra sia mortale e che tutto sia soggetto a dissoluzione definitiva, continuerà a vivere come se tutto fosse un bene da sfruttare fino all’esaurimento oppure nel vano tentativo di porre un argine alla fine dell’esistenza, salvando il pianeta e, con questo, l’uomo.
Ormai lo si sarà compreso, l’illusione che la tecnoscienza possa governare l’essere è la più evidente manifestazione della contraddizione tra ciò che è e ciò che si vorrebbe, in grado di riassumere la tensione fondamentale del nostro tempo. Il tratto distintivo dell’epoca attuale, giunta al culmine di un percorso attraverso i secoli di storia, in cui l’uomo ha coltivato la Follia. La Tecnica nasce dall’idea che tutto possa essere ridotto a un sistema manipolabile. Le promesse dell’intelligenza artificiale e del calcolo quantistico sembrano un porto sicuro per garantire la salvezza dell’uomo. Eppure, la Tecnica, in quanto forma storica compiuta della volontà di potenza, e quindi, essenzialmente, volontà, è l’illusione che incarna in modo emblematico la contraddizione fra il voluto e l’ottenuto, perché non si può ottenere ciò che già esiste. L’agire tecnico rappresenta la forma estrema della volontà di potenza nella misura in cui realizza la convinzione, radicalmente nichilista, che l’essere venga dal nulla e possa essere ricondotto al nulla. È il compimento storico della fede nella mortalità. Ma il reale non è un oggetto da dominare o da annientare, bensì un eterno apparire del destino. Questa tensione tra la promessa della tecnica e la sua impossibilità ontologica di dominare l’essere, si traduce nella percezione diffusa di incertezza, instabilità e fragilità, che si manifesta nelle grandi crisi globali. L’apparato tecnico, anziché risolvere le contraddizioni, spesso le amplifica, le esaspera, proprio perché continua a fondarsi sul presupposto illusorio del divenire. Pretendere di ridurre l’essere ad oggetto della volontà, significa ignorare la natura ontologica del reale, cadere in una contraddizione insanabile, la quale si traduce, sul piano pratico, nel senso di smarrimento e nell’angoscia. In questa luce, la crescente dipendenza dalle tecnologie digitali, l’illusione di poter prevedere e governare il futuro, riflettono non un passo in avanti verso la verità, ma una perpetuazione del cortocircuito filosofico originario, la negazione del destino.
Nel contesto globale odierno, queste contraddizioni sono sotto gli occhi di tutti. E tuttavia, o forse proprio per questo, l’umanità sembra sempre meno capace di affrontarle. Non perché esse siano insolubili, ma perché la loro intensificazione le ha rese indistinguibili dal pensiero stesso che vorrebbe risolverle. Per poterne uscire è richiesta una capacità di oltrepassare il contesto in cui è immerso il pianeta che soffre, per riconoscere che il nodo doloroso non va sciolto, in quanto mero riflesso dell’illusione.
Tornando alla domanda iniziale, è possibile che l’era delle contraddizioni possa essere oltrepassata?
Se con oltrepassare si intende una forma definitiva del passar oltre ogni contraddizione, è bene chiarire che non si tratta né di un evento storico, né, tantomeno, di una terra di conquista. Perché se ogni tentativo di salvezza nasce dalla fede nel nulla, che è la radice di ogni angoscia, allora non è la salvezza ciò che va cercato. L’oltrepassamento definitivo è il momento in cui tutte le manifestazioni contraddittorie, di qualsiasi epoca, espressioni di un pensiero che ancora crede nel divenire e nella mortalità dell’essere, sono superate. Il momento in cui il destino, in conseguenza del tramonto della terra isolata, si fa innanzi, e con esso la consapevolezza dell’eternità dell’essere che smaschera l’illusione del tentativo di dominare la terra e di prevedere ciò che già esiste, da sempre. Prima che tramonti la terra isolata dal destino, all’uomo non resta che maturare la consapevolezza che il compito più radicale del pensiero non è quello di “agire nel mondo” per correggerlo, ma dischiudere l’orizzonte in cui l’apparire dell’essere non è più creduto mortale.
Nonostante siano scaturiti dall’alienazione e dalla violenza estrema del nichilismo, ogni architettura dell’agire ed ogni atto umano, cominciano ad essere illuminati da un bagliore che non gli appartiene, e che tuttavia li attraversa. Pur restando inscritto nella terra isolata, il tempo della testimonianza non è la salvezza che sopraggiunge, ma la luce che mostra che nessuna salvezza è possibile dove il divenire è scambiato per l’essere. La terra isolata continua a costruire, a progettare, a inventare nuove potenze, perfino nuove intelligenze capaci di scandagliare l’avvenire, credendo di poter afferrare il futuro per salvarsi da esso. Ma ogni tentativo di predire il tempo che verrà, resta gesto della volontà di dominio, e perciò gesto che ancora considera il futuro una terra di conquista. È il momento in cui viene oltrepassata la contraddizione più potente, quella del divenire come verità del mondo, che il destino inizia ad essere testimoniato dai popoli, in attesa che tutte le contraddizioni siano superate nel manifestarsi definitivo del destino stesso. In un’epoca che affida la propria sopravvivenza alla previsione della tecnoscienza, la testimonianza del destino è l’unico gesto che non alimenta la contraddizione, ma la lascia dissolvere, riconoscendo che nessun progetto possa salvare ciò che non ha mai corso il rischio di perire.L’inquietudine del presente, frutto della contraddizione, è destinata ad essere oltrepassata dallo sguardo doloroso che inizia ad aprire un varco attraverso il quale il destino possa essere testimoniato. In questo senso, testimoniare il destino è lo sguardo sull’eternità che si fa innanzi, prima che ogni contraddizione sia definitivamente risolta. Anche quella del linguaggio che, per quanto attraversato da una luce più grande, appartiene alla terra dell’uomo che si crede mortale. Se come diceva Heidegger, “Il linguaggio è la casa dell’essere”, è pur vero che il linguaggio, nonostante testimoni il destino, rimane volontà che si fa parola e, in quanto tale, è destinato al tramonto con l’avvento della Terra che salva. La verità immutabile, in grado di disvelare l’illusorietà di qualsiasi contraddizione.