Da Occidente a Oriente qualsiasi forma di agglomerato umano riserva sincera gratitudine al proprio corso d’acqua, secondo un legame ancestrale fra l’uomo e le sue origini. Dall’altopiano del Tibet sorge il Mekong, immenso fiume che percorre il territorio cinese per poi segnare il confine fra Laos e Birmania per circa 200 km. Prima di frastagliarsi e sfociare nel Mar Cinese Meridionale attraversa sei Stati, ciascuno dei quali gli attribuisce un nome diverso. Nella provincia cinese dello Yunnan è il “fiume turbolento” mentre per i vietnamiti è il “Fiume dei nove draghi” con riferimento ai nove rami in cui il corso d’acqua si divide nel delta. Per i laotiani il Mekong è semplicemente la “madre di tutte le acque”, il fiume che restituisce il sostentamento necessario alla terra che ne ospita il corso. Le sue acque ricche di sedimenti rendono possibili chilometri e chilometri quadrati di risaie ed alimentano un’area circostante fra le più ricche al mondo in termini di biodiversità. Da sempre le popolazioni che vivono sulle sue rive hanno basato la loro sopravvivenza sulla pesca e sulla fertilità delle aree limitrofe, conservando la devozione per quell’acqua aspra e marrone che è sinonimo di vita. Oggi le dighe cinesi provocando improvvise fluttuazioni dei livelli d’acqua interferiscono con la migrazione dei pesci e con la deposizione delle uova.
Un popolo che intende rinvigorire il legame con le proprie radici si rivolge alle acque che lo attraversano alimentando leggende in grado di scandire la quotidianità e rinsaldare lo spirito comunitario. Il Naga del Mekong non è soltanto una creatura mitologica a protezione del fiume, è l’anima stessa di un popolo che oppone il gigantesco serpente, destino di un popolo intero, alla famelica sete di denaro dei potenti vicini. Sulle rive del Mekong il mito esprime il sentimento di un popolo legato a doppio filo all’acqua fertile del suo fiume. Una connessione profonda che dura da sempre, prima ancora che l’insieme delle comunità lao fosse riunito sotto lo stesso vessillo da Fa Ngum, principe dell’allora Muang Sua, oggi Luang Prabang.
Il Regno di Lan Xang, letteralmente “il Regno di un milione di elefanti”, vide la luce soltanto nel 1354 segnando l’unione del popolo lao, sino a quel momento frammentato e assorbito nell’orbita dell’Impero Khmer. Gli succedette il Regno di Luang Prabang che durò fino al 1947 quando i francesi, riprendendo il controllo del Paese dopo la parentesi della Seconda Guerra Mondiale, riposero sul trono il sovrano Sisavang Vong dando vita a una monarchia costituzionale, il Regno del Laos. Dopo essersi liberato definitivamente dalla dominazione coloniale francese con la prima guerra d’Indocina, terminata nel 1954 con la Conferenza di Ginevra, il Laos non avuto il tempo di assestarsi che la guerra civile fra le forze governative ed i comunisti del Pathet Lao ha sconvolto il Paese. Parallelamente gli Stati Uniti, alleati del Regno Laotiano, per mezzo della Cia hanno avviato le operazioni di bombardamento del Paese in funzione anti comunista. Ad oggi il Laos è la nazione più bombardata al mondo pro capite e sparse lungo il Paese ci sono ancora 80 milioni di bombe inesplose.
Il conflitto ha lasciato in dote al Laos intere aree disseminate di ordigni lanciati dall’aviazione americana, oltre a problematiche di salute derivanti dall’uso di agenti chimici sulla popolazione. La colpa del Laos secondo gli Stati Uniti è stata quella di aver prestato aiuto ai vietcong impegnati nel sud trasportando risorse belliche e rinforzi lungo il sentiero di Ho Chi Min. In silenzio il popolo laotiano ha affrontato con dignità le conseguenze nefaste di una guerra altrui. Come conseguenza a lungo termine, decenni dopo la fine del conflitto, gli ordigni continuano a rappresentare una grave minaccia per la popolazione e lo sviluppo del Paese. Nonostante la mappatura degli ordigni inesplosi, ogni anno centinaia di persone rimangono ferite o perdono la vita nelle attività più basilari quali lavorare la terra. Dalle pianure alluvionali del Mekong sino alle regioni montuose nel nord, le risaie rappresentano la principale fonte di sussistenza per la popolazione nonostante i contadini siano spesso costretti a lavorare su terreni contaminati. Addirittura vaste aree sono in stato d’abbandono per l’eccessiva contaminazione, in attesa di bonifica. L’intervento americano è stato riconosciuto ufficialmente solo nel 1997, trattandosi di una guerra segreta mai dichiarata e mai votata dal Congresso.
Nel 2016 Obama in visita nel Paese ha annunciato un risarcimento da 90 milioni di dollari per finanziare il processo di sminamento del Paese, una scelta che si inserisce all’interno della più ampia operazione tesa a riabilitare l’immagine dello zio Sam nel sud-asiatico in funzione commerciale. Terminata la guerra civile e caduta la monarchia, dal 1975 il Laos è una repubblica socialista monopartitica, sull’impronta del Vietnam al quale il regime laotiano è profondamente connesso. Esordiva così nel 1985 Inpeng Suryadhay, presidente del Fronte Unito Nazionale di Liberazione del Popolo Lao, durante una riunione dell’Istituto di Strategia del Sud-Est Asiatico: “Secondo gli osservatori meglio informati il Laos, dopo dieci anni di regime comunista, è diventato una provincia del Vietnam, un retroterra che serve come territorio per l’insediamento di popolazione vietnamita e come colonia per lo sfruttamento delle risorse naturali. L’occupazione da parte delle forze armate vietnamite, la vietnamizzazione della sua struttura politico-amministrativa, la presenza strategica dell’unione Sovietica, sono destinate a fare di questo paese una base d’appoggio per destabilizzare la Thailandia e permettere la marcia verso occidente dell’espansionismo comunista vietnamita. Ciò costituisce una minaccia per la sicurezza e la stabilità di tutta l’Asia sud-orientale. È ormai un fatto provato che la fondazione della Repubblica Democratica Popolare del Laos (RDPL) è stata opera del Partito Comunista Vietnamita (PCV).”
Dal termine della guerra civile le influenze dei Paesi confinanti si sono fatte sentire per strappare il Laos a quell’isolamento in cui intendeva raccogliersi. L’estremo tentativo di conservare la propria identità reso vano dalla posizione geografica. Le ingerenze straniere avevano l’intento preciso di fare dell’ex colonia francese un avamposto dei più potenti vicini di casa. Se a cavallo degli anni Settanta e Ottanta erano i vietnamiti ad aver stabilito una sorta protettorato sul Laos, mascherato da relazioni bilaterali fondate sul Trattato di Amicizia e Collaborazione del 1977 siglato fra i due Paesi, la normalizzazione dei rapporti con i vicini cinesi negli anni Novanta ha mutato lo scenario. Il recente espansionismo del governo di Pechino ha preso di mira il Laos finanziandone lo sviluppo economico da almeno un decennio. La Nuova Via della Seta, progetto lanciato da Xi Jinping nel 2013 per il miglioramento dei rapporti commerciali con i Paesi confinati, ha interessato il Laos grazie alla costruzione di una linea ferroviaria che collega i due Paesi partendo da Kunming, nel nord della Cina, e terminando a Vientiane. L’ottica è quella di incrementare i flussi commerciali fra i due Paesi. La linea ad alta velocità è stata inaugurata nel dicembre del 2021 e così facendo Pechino si è assicurata un ponte commerciale con l’Indocina. L’apertura di linee turistiche sulla medesima ferrovia ha ufficialmente sottratto il Laos dall’isolazionismo. E’ ancora in piedi il progetto di far del Paese l’idro-batteria del sud-est asiatico tramite la costruzione di dighe e centrali idro-elettriche sul Mekong che mettono a repentaglio l’ecosistema fluviale. Dal nord sino alle quattromila isole nella parte meridionale del Paese, dove il corso del fiume raggiunge la sua larghezza massima, il futuro dei pescatori del Mekong è segnato.
Dalla prima diga del 1995 la Cina non si è più fermata. Oggi le dighe cinesi, provocando improvvise fluttuazioni dei livelli d’acqua, interferiscono con la migrazione dei pesci e con la deposizione delle uova. Quantomeno il tratto di Mekong che attraversa il Laos non è ancora devastato dagli agenti chimici e dagli scarti industriali di siti industriali situati prevalentemente in Vietnam che lo inseriscono nella lista dei dieci fiumi più inquinati al mondo. Se di fronte allo spettacolo del mondo primordiale l’uomo si fa convinzione di poter determinare l’esistenza, crollano le speranze di poter ammirare ancora certi paesaggi. La sensazione è che fra dieci o venti anni la grande riserva naturale dell’Indocina avrà cambiato definitivamente volto. Fino a qualche decennio fa il Laos era riuscito a resistere alle influenze straniere. Ad oggi i fondi cinesi indispensabili per la costruzione di infrastrutture moderne hanno portato il Laos ad un livello di indebitamento difficilmente sostenibile. Recenti analisi di inizio anno riportano che il debito nazionale del Laos è salito al 112% del Pil e più della metà del debito, ormai da anni, è in mano cinese. L’influenza giapponese nel Paese, per quanto non indifferente considerati i circa 9 miliardi di yen utilizzati per finanziare l’ampliamento dell’aeroporto della capitale laotiana, non è paragonabile a quella del Dragone.
Cosa resta dell’aura di sacralità che circondava Luang Prabang, l’antica capitale del Regno, ormai scemata a causa del turismo che ne ha fatto meta di passaggio negli itinerari turistici dell’Indocina. Aver resistito il più a lungo possibile alle lusinghe della società della tecnica ha permesso ai laotiani di mantenere parte del territorio inalterato, fatte salve le bombe americane ancora inesplose e l’interferenza cinese sul Mekong. È un territorio inesplorato, battuto ogni anno da spedizioni di speleologi occidentali che contribuiscono alla mappatura delle grotte principali del Paese. Le montagne del Paese, spesso inospitali, restituiscono all’osservatore scenari primordiali, prospettive prive di traccia umana nel raggio visivo. Distese di montagne e vallate dove la giungla e la sua fauna hanno ancora il sopravvento. Grazie alla scarsa densità abitativa ed all’assenza di una vera e propria produzione interna al contrario degli ingombranti vicini, perdendosi per il Paese si ha la sensazione che il tempo si rifiuti di scorrere. Secondo un vecchio detto francese “I Vietnamiti piantano il riso, i cambogiani stanno a guardare, i lao lo ascoltano crescere”. Come tutti quei paesi che si apprestano a percorrere la via dello sviluppo i laotiani mantengono residui di innocenza radicati nella tradizione buddista. Lo spirito contemplativo di quei popoli che restano immersi nel ciclo di vita e di morte che scandisce l’esistenza. Se si sale sulle montagne sopra Nong Khiaw è netta la sensazione di un panorama senza tempo, dove il presente racconta del passato e prefigura il futuro mentre sfumano i contorni della civiltà.
Il Mekong è distante a tal punto che dà l’impressione di non scorrere nemmeno, quasi fosse immortalato in un’istantanea. Un paesaggio che resiste nei millenni alimenta l’illusione del tempo. Appena prima di iniziare il lungo itinerario nel sudest asiatico Tiziano Terzani verso la fine del 1992 è volato per l’ultima volta atterrando in Laos. Il 1993 sarebbe stato un anno senza voli per il giornalista fiorentino a causa di una profezia a cui anni prima aveva prestato ascolto, quasi che si fosse sforzato di credere al vaticinio di un indovino di Hong Kong nonostante lo scetticismo e l’orgoglio tipici di chi è nato sulle rive dell’Arno e mal tollera certe credenze. Terzani riprende l’intuizione del Siddhartha di Herman Hesse che, osservando il corso del fiume, percepì l’illusorietà del tempo realizzando che il passato e futuro esistono tanto quanto il presente, come esiste l’acqua del fiume alla sorgente ed alla foce. Se il passato e il futuro sono eterni il pensiero del tempo si dissolve e rivela i caratteri dell’illusione. Il tempo che, tuttavia, secondo i dettami buddisti è il distruttore che governa il Samsara, il ciclo vitale al quale sono sottoposti tutti gli esseri senzienti. Il peso della caducità che l’uomo avverte su di sé ormai da Occidente ad Oriente lo spaventa al punto tale da ergersi egli stesso a creatore e distruttore, nel tentativo estremo di sfuggire al diventar altro di tutte le cose. La follia suprema agisce nell’ossessione di controllare lo scorrere il divenire, fin quando la verità non si farà innanzi costringendo l’uomo a rivedere il senso del tempo. “E se il tempo non è reale” suggerisce Siddhartha “allora anche la discontinuità che sembra esservi tra il mondo e l’eternità, tra il dolore e la beatitudine, tra il male e il bene, è un’illusione”.