C’è una nuova malattia ideologica che si aggira in alcuni circoli cultural-finanziari d’Oltreoceano e che ha bisogno dell’Europa per diffondersi fino in Russia, tassello fondamentale per arginare un presunto espansionismo – secondo questa visione del mondo – della Repubblica Popolare cinese. In sintesi la sinofobia, nella nuova prospettiva neoconservatrice, deve sostituire la russofobia diffusa negli ultimi decenni in modo martellante. E in sintesi della sintesi, la Russia non deve essere più un nemico ma un alleato strategico contro lo strapotere della Cina. Impresa ardua perché i governi di Mosca e di Pechino sono sempre più uniti sul piano strategico e commerciale – anche per colpa delle sanzioni europee imposte dagli americani – consapevoli che la transizione multipolare delle relazioni internazionali è possibile soltanto se c’è una visione comune e una condivisione delle prospettive. Ancora di più se c’è di mezzo il gas. La Cina è il maggiore consumatore e importatore mondiale di energia, di conseguenza la Russia dal 2014, sulla scia della crisi ucraina e del grande gelo con l’Occidente, ha firmato un importante contratto energetico tramite Gazprom per la fornitura di 38 miliardi di metri cubi (vedere il progetto del gasdotto “Forza della Siberia” rinnovato di recente a Sochi per credere).
Insomma, siamo alle solite. Il secolo americano per sopravvivere ha bisogno della fabbricazione di un nuovo nemico esterno, in sostituzione dell’Unione Sovietica (dottrina Brzezinski degli anni Ottanta) e del mondo islamico (dottrina Bush degli anni duemila). E quello del dragone cinese è ideale perché rimane valido almeno per i prossimi cento anni. Da qui si spiegano i tentativi da parte di Donald Trump di avvicinare Vladimir Putin alla sfera occidentale e la progressiva russofilia di quegli stessi ambienti culturali che hanno portato Donald Trump alla Casa Bianca. Senza parlare delle pressioni esercitate dai grandi mezzi di informazione statunitensi attraverso una sovra-esposizione mediatica della rivolta di Hong Kong, e della sua giovane icona Joshua Wong, nonché della discriminazione degli uiguri, minoranza di religione musulmana e di etnia turcofona che risiede principalmente nella vasta regione dello Xinjiang, nel nord ovest del Paese. Senza parlare dei tentativi ancora più goffi degli avversari di Greta Thunberg, che hanno legittimato le tesi del cambiamento climatico e sposato l’ambientalismo progressista – un’ideologia green modaiola per ricchi – pur di attaccare il governo di Pechino e il suo sviluppo economico.
E se oggi un’alleanza di circostanza con gli Usa appare quasi necessaria – finché la dottrina Trump, che a differenza di quella di Obama è basata su un controllo “da remoto” e non “di prossimità”, non verrà inghiottita dall’interventismo neoconservatore – in una prospettiva accellerazionista della disgregazione dell’architettura europea, domandiamoci piuttosto, in particolare noi italiani dopo le pressioni ricevute sul 5G e l’adesione del nostro Paese al memorandum della “Nuova Via della Seta”, se davvero vale pena sacrificare i nostri interessi nazionali di medio e lungo periodo. I presidenti passano, l’establishment rimane, la geopolitica mondiale viaggia su binari completamente nuovi rispetto al passato. A porsi questo interrogativo è stato proprio il presidente francese Emmanuel Macron che in occasione del settantesimo anniversario della Nato, ha definito questa organizzazione militare “in stato di morte celebrale” attirandosi subito l’ira di Donald Trump, che pur essendo un uomo critico nei confronti dell’establishment americano rimane un sottoprodotto culturale dell’eccezionalismo americano. Senza parlare della volontà politica dell’Eliseo di mettere in cima alla sua agenda internazionale il “formato Normandia” volti alla normalizzazione dei rapporti tra Ue e Russia.
Per l’Italia, e le sue proiezioni legate al bacino Mediterraneo, che si rilegano inevitabilmente alla visione geopolitica del Cremlino di pari passo all’altra Via della Seta cinese, quella che passa nel Vicino e Medio Oriente, la questione è decisiva. Molti analisti non sanno che quest’ultima integrerà il corridoio geostrategico, confessionale e trans-nazionale che da Teheran arriva a Beirut passando da Baghdad e Damasco, il quale si è rafforzato dall’esito della guerra in Siria, un Paese che doveva essere destabilizzato per varie ragioni tra i quali il suo coinvolgimento nel progetto monumentale della Cina. Dicono che l’Italia, aderendo al memorandum, stia andando da sola, senza il consenso dei suoi alleati. È vero, ed è anche nel suo interesse nazionale di potenza regionale che opera in questo contesto geografico. Sarebbe il caso ora di studiare meglio la Cina, da parte di chi scrive, e di chi prova a capire le nuove geometrie mondiali sul campo, tra luoghi e persone. Con un altro pregiudizio: quello cinese non è né un colonialismo né un imperialismo, bensì un millenarismo. Non a caso prima di essere una Repubblica Popolare, la Cina è un Impero Celeste.