Intervista

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Magia vs. Tecnica: un nuovo modo di guardare il mondo. “Questo è un libro per chi giace sconfitto dalla storia e dal presente”. Dialogo con Federico Campagna
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L’idea, infine, quasi teurgica, è quella di rivoluzionare il nostro sguardo sul mondo. Questo libro, in fondo, è una lama con cui tagliare la superficie del tempo, rovinare in sudario le evidenze, sgangherare la ‘storia’, inoltrandoci in un’altra dimensione. “Questo è un libro per chi giace sconfitto dalla storia e dal presente”, attacca l’autore, con l’enfasi di chi sa distinguere l’incanto dagli incantatori. “Non è un manuale per trasformare la disfatta in un futuro trionfo, ma piuttosto una leggenda su un passaggio nascosto all’interno del campo di battaglia, che si dice conduca a una foresta al di là di esso”. Il libro, dotato di una scrittura arcana, a tratti involuta, piena di rivelazioni, tocca le questioni determinanti, denuda la canea delle opinioni:

“La vita, persino la vita mortale, cerca sempre di partecipare all’eternità. Il governo del mondo da parte della Tecnica non può evitare di prendere in considerazione questa richiesta impossibile – che, se accetta, ne metterebbe in pericolo l’intera struttura cosmologica. Come può la Tecnica risolvere questo enigma apparentemente insolubile?”.

La gimkana tra le sapienze è impressionante: Plotino, il sufismo, Ernst Jünger, Ernesto de Martino, Mulla Sadra – filosofo iraniano del XVI secolo –, Pessoa, Eliade, Stirner, Jung, Henry Corbin, soprattutto.

“La nozione di ‘ineffabile’ costituisce il principio primo originale all’interno della cosmogonia della Magia – in opposizione speculare al principio del ‘linguaggio assoluto’ della Tecnica”.

Insomma. Ho iniziato a leggere il libro con attenzione sbadata, in una bava di tempo, sul divano, e il divano è diventato un vortice stellare, d’improvviso la scala, la sedia, la luce distillata dalla finestra, il ragno che corre sul pavimento e il merlo, in giardino, che arrotola il verme nel becco, mi sono sembrati parte di uno stesso rebus, un fiume di corrispondenze mi ha solcato. Federico Campagna, leggo, “è un filosofo italiano residente a Londra”. In effetti, il libro che ho in mano, cioè una capriola nell’abisso, è stato pubblicato da Bloomsbury nel 2018, in origine; l’edizione italiana, pubblicata da Tlon, suona così: Magia e tecnica. La ricostruzione della realtà (2021). L’ultimo libro di Campagna s’intitola Prophetic Culture: Recreation for adolescents, è edito da Bloomsbury quest’anno.

“La relazione fra Magia e Tecnica non è solo di fondamentale alterità. Da una certa prospettiva, la Magia può anche essere considerata come una forma di terapia rispetto al brutale regime imposto dalla Tecnica sul mondo, che essa ha costruito a propria immagine”.

Una specie di ferocia, grossolana, inquieta, ha soffocato l’altro, l’importante, aggiogando il magico al gioco, a un cruento sistema dei consumi. Invece, la magia è “un sistema di realtà fondamentalmente alternativo a quello della Tecnica: una cosmologia alternativa originata da una forza cosmogonica alternativa”. Non si tratta, dunque, qui, di criticare la società, di mettere in scacco il ‘sistema’, ma, come dire, porsi da un’altra parte, ago nell’iride del millennio, surf fra le ombre, nella sola latitudine possibile.  

Lei scrive, al principio del suo lavoro, con una certa enfasi, “Questo è un libro per chi giace sconfitto dalla storia e dal presente”. Un libro per tutti e per nessuno, dunque. Mi viene da chiederle, chi può dirsi vincitore, pieno di questo presente, del tutto certo di essere ‘storico’? Mi viene da credere che solo lo sconfitto possa guardare con inquieta lucidità il proprio tempo…

In ogni epoca, i vincenti sono sempre gli stessi: non necessariamente i più ricchi o i più potenti, ma chi riesce a conformarsi più pienamente alla narrazione del mondo che è egemonica in un particolare momento. Tra i vincenti, ovviamente, esistono significative gradazioni: ci sono quelli che ne guadagnano anche in termini di potere e denaro e quelli che invece investono la propria fede a fondo perduto, ci sono i fanatici e gli opportunisti, e ci sono anche quelli che si adeguano non tanto per un desiderio di conformismo ma per via di una scarsa immaginazione. I vincenti non mi danno alcun fastidio. A meno che non decidano di ergersi a guardiani dell’ordine in cui credono – guardiani armati di manganello e di manette. La polizia e le guardie carcerarie, con o senza divisa, quelle sì mi insospettiscono: rivelano una perversione dell’animo secondo cui il proprio credo può ritenersi saldo solo quando ogni alterità è annichilita. Non manca loro la lucidità nel capire il proprio tempo – anzi, ne hanno in eccesso – ma piuttosto la capacità di guardare al di fuori del proprio tempo. Quando questo succede, e il proprio tempo diventa “tutto” il tempo, la possibilità del sacro di colpo svanisce: questa è la blasfemia dei vincenti.

Non credo però che gli sconfitti, per il solo fatto di essere sconfitti, abbiano una visione più lucida del mondo o della realtà. L’unico, magro vantaggio degli sconfitti rispetto ai vincenti è di avere una cognizione vivida del dolore. Nemmeno questo, di per sé, basta per avere una comprensione più profonda della realtà. È solo quando la cognizione del proprio dolore si estende a una cognizione unitaria di tutto il dolore (proprio o altrui), che gli sconfitti iniziano ad avere un’illuminazione di portata metafisica. Si tratta di riconoscere l’indivisa unità metafisica che corre all’interno di tutto ciò che esiste e che, il più delle volte, si esprime a livello esistenziale secondo le sfumature del dolore. Un ultimo chiarimento a questo proposito: il dolore non è lo stadio finale di un’illuminazione metafisica. Il dolore è la domanda, ma è una domanda che cerca e infine può trovare una risposta. La gioia, piuttosto che il dolore, è lo stadio conclusivo di una visione della realtà davvero integrale, in cui ogni cosa è riconosciuta al contempo in quanto se stessa, in quanto parte di una coincidenza di opposti, e in quanto manifestazione del nulla che tutto anima e tutto trascende. Non a caso, nel Sufismo, allo stadio iniziale della dissoluzione (fana), segue quello della ricostituzione (baqa).

La più prodigiosa delle tecniche è il linguaggio, che mente e misura, che si misura con il potere. Già, ma… che cos’è il linguaggio?

Per rispondere in breve: il linguaggio è il processo di divisione delle proprie percezioni “crude”. Quando osserviamo il mondo attorno a noi, non abbiamo a che fare con un mondo già pre-ordinato e separato: siamo invece investiti da un’onda di percezioni “crude” e indivise. Il linguaggio è quello strumento che permette di tagliare quest’onda e di trasformarla in un paesaggio composto di oggetti singoli e comprensibili – un paesaggio in cui sia possibile vivere al modo di chi vive in un cosmos. In questo senso, il linguaggio è uno degli strumenti fondamentali per la vita nel mondo. Ma come tutti gli strumenti, diventa pericoloso nel momento in cui ci si dimentica che è uno strumento e lo si erge invece a legge suprema e “naturale”. Faccio un esempio: le comunità identitarie (etniche, nazionali, eccetera), sono prodotti del linguaggio. Esse forniscono dei nomi per gli oggetti che incontriamo (le altre identità) e per il soggetto che vogliamo essere (l’identità che scegliamo come nostra propria). Le identità sono strumenti linguistici molto utili, anche solo per poter costruire una frase con un “io” e un “tu”. Ma si badi bene a non credere che a queste divisioni, a queste identità, corrisponda qualcosa di “naturale” e di già dato da sempre. Ancora una volta: credere nella naturalità del linguaggio è una grande blasfemia.

A questo livello si può individuare la differenza fondamentale tra un pensiero autenticamente religioso (e dunque mistico) e un pensiero secolare (anche quando esso si ammanta di paramenti religiosi). È possibile maneggiare le identità senza porre fede nel loro essere “vere” e “naturali”, solo a condizione di avere a mente che il livello più profondo della realtà (quello che in metafisica si può chiamare l’“esistenza” stessa della realtà) al contempo sostiene e supera ogni distinzione. In termini mistici, questo livello di pura esistenza si definisce come il livello supremo del sacro. Il sacro ha infinite possibili manifestazioni (le identità), nessuna delle quali è più o meno vera delle altre, in quanto tutte sono solo manifestazioni di qualcosa che le include e le supera tutte.

Che cosa intende, soprattutto, per ‘magia’? La vulgata vede la magia come un ritorno nostalgico a rapporti ormai interrotti – per abuso, per oblio – con la natura delle cose. La tecnica, invece, dileggiata o magnificata, è necessaria al ‘progresso’ cui tutti ambiscono: è così?

Per come la descrivo nel mio libro, la magia è semplicemente un particolare modo di ristrutturare in forma di “mondo” l’onda di percezioni “crude” che ci investe a ogni momento. Allo stesso modo, nel mio libro descrivo la tecnica come un’altra modalità di fare-mondo. La magia crea il proprio cosmos sulla base di un’intuizione dell’esistenza pura, ineffabile e indivisa, come il cuore stesso della realtà. La tecnica, all’opposto, fonda il proprio progetto cosmogonico su una fede nel linguaggio assoluto: il linguaggio innalzato al livello di legge naturale della realtà. Il progresso non è esclusivo appannaggio di un particolare modo di fare mondo: ciascuna cosmologia, all’interno dei propri parametri, ha un orizzonte di progresso possibile (ad esempio, si parla di “progresso spirituale” per i mistici). In questo senso, il progresso è semplicemente lo svolgersi di una certa “storia del mondo” (un certo modo di intendere la realtà in forma di narrazione) coerentemente con le proprie basi metafisiche. Il problema del progresso all’interno del mondo della tecnica sta nell’esclusività che esso si auto-assegna, come se fosse l’unico progresso possibile. Ad esempio: è indubbio che il progresso tecnico abbia fornito soluzioni per problemi materiali di ogni tipo. Al contempo, però, concentrarsi unicamente su questa linea di sviluppo porta a dimenticarsi della funzione ultima di questo progresso. Come cantava Battiato, “l’evoluzione sociale non serve al popolo, se non è preceduta [ma preferirei dire, se non è accompagnata] da un’evoluzione di pensiero”.

Mi affascina la sua capacità di fondere mondi: passa, a passo di danza, da Plotino a Mulla Sadra, dai greci ai sufi: da dove arriva l’ispirazione per il suo libro?

L’ispirazione per il contenuto del libro deriva dalla mia vita. Mi sono basato sull’urgenza di un problema personale (un crescente senso di irrealtà del mondo e di impotenza individuale), sulla supposizione che tale problema non fosse solo mio, e sul desiderio di immaginare una via d’uscita possibile. Per quanto riguarda la struttura, l’ispirazione sono stati i filosofi neoplatonici, soprattutto quelli più tardi – in cui le strutture delle ipostasi si fanno via via più complesse. E infine, l’atmosfera Mediterranea del libro è dovuta a una combinazione di letture (tra cui in primo piano sta Henry Corbin, mistagogo in molti campi), e della mia storia personale. In quanto figlio di Siciliani emigrati al nord, e in quanto a mia volta emigrante in Inghilterra, ho sempre mantenuto un legame immaginale molto forte con il Medio-Occidente Mediterraneo.

Cita, verso la fine del suo ragionamento, Max Stirner e Ernst Jünger: è quella, dunque, la via?

Né Stirner né Jünger sono dei profeti che indicano la via. Stirner è un filosofo di grande importanza, anche se non può vantare un pensiero sistematico né una produzione letteraria al di là del suo unico libro. Jünger è un maestro di stile e un finissimo artigiano di quello che lui definisce come “lo sguardo stereoscopico”: quel modo di intendere la realtà, per il quale ogni singola cosa è comprensibile contemporaneamente secondo livelli e sistemi di realtà reciprocamente contraddittori. Di entrambi i pensatori ammiro lo spirito anarchico, l’attitudine insurrezionale e la spinta mistica. Ma da entrambi sono molto distante su altre questioni. Questo è particolarmente evidente nel caso di Jünger: le sue posizioni politiche, soprattutto nella prima parte della sua vita, mi trovano totalmente ostile. Non ho alcuna simpatia né per il suo conservatorismo rivoluzionario, né per il suo elitismo di stampo militare. Se ci fossimo trovati entrambi per le strade nella Germania degli anni Trenta, saremmo stati su barricate opposte. Questo non toglie che si tratti di un grande scrittore e di un pensatore che ci ha regalato degli strumenti cognitivi molto utili per perseguire un proprio “progresso” esistenziale dentro la dura complessità di un mondo in cui stentiamo a riconoscerci.

Tra magia e tecnica dove si situa la politica, l’etica dello Stato, il ‘sistema sociale’?

La politica, l’etica dello Stato e il sistema sociale sono tre cose distinte – e nessuna di esse appartiene esclusivamente alla tecnica o alla magia. La politica ha a che fare con l’antagonismo e lo scontro per il controllo delle risorse (tra cui anche l’attenzione, la narrazione del mondo e la fede che viene posta in esso). L’etica dello Stato ha a che fare con l’imposizione di un sistema finalizzato a stabilizzare l’equilibrio di potere emerso dall’agone politico. Il sistema sociale è quel misto di costruzioni e di rovine che funge da campo di battaglia per la politica e da campo di lavoro per lo Stato. Le narrazioni metafisiche di base, quali la tecnica e la magia, funzionano per tutti e tre come la cornice di senso entro cui si svolgono le lotte della politica, gli spasmi dello stato e la vita contingente degli individui. Ciascuna di queste strutture di senso – questi “sistemi di realtà”, come li chiamo nel libro – rende possibili certi sistemi politico/sociali e non altri. Sta alla sensibilità di ciascuno scegliere quali forme di vita, e dunque quali mondi, siano degni di essere poste in atto, e quali invece è meglio lasciare nel limbo della pura potenzialità. Nel mio caso, ho voluto descrivere nel dettaglio il sistema di realtà della magia, proprio perché volevo immaginare quella struttura metafisica di base, all’interno della quale non fossero possibili certe strutture politico/sociali che ritendo ripugnanti – dal sistema dei confini rigidi e delle sclerotizzazioni identitarie, a quello in cui lo sfruttamento economico viene naturalizzato, a quello del giudizio senza perdono e del “fine pena mai”, e così via.

Leggendo il suo libro viene da chiederle: come devo vivere, allora? Glielo chiedo.

Ovviamente le dirò di vivere come le pare. Io e lei non ci conosciamo e non mi permetterei mai di darle un consiglio esistenziale di questa portata. Ma se ci conoscessimo e se ci volessimo bene, e se lei mi ponesse questa domanda, forse la inviterei a vivere come se lei fosse l’unico immortale in un mondo di mortali. Tutto le apparirà fragile, bellissimo, e degno di cura. Le verrà da sorridere alla vista della propria fragilità e sotto di essa scorgerà quel nucleo eterno che sopravvive a ogni distruzione. La paura, dopo un po’, inizierà a sciogliersi, e con essa l’impulso alla distruzione e alla repressione di ciò che le risulta incomprensibile. Le passerà anche la voglia di sprecare la propria eternità inseguendo inutili chimere o “ammazzando il tempo”. Mi pare che questo sia un buon modo di vivere, e una buona maniera di prepararsi degnamente alla fine del tempo della propria vita. 

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