OGGETTO: Il tempo della nemesi americana
DATA: 04 Dicembre 2024
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Analisi
AREA: Asia
Pechino, sospesa tra l’antica arte dell’equilibrismo e le ambizioni di un futuro da protagonista globale, si confronta con le sfide di un mondo sempre più polarizzato. Mentre le crisi internazionali scuotono vecchi assetti, essa cerca nel Medio Oriente una nuova frontiera strategica, che le permetta, giocoforza, di superare la sua "hedging strategy". Un percorso incerto, dove la linea sottile tra cooperazione e conflitto potrebbe riscrivere l’ordine globale.
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Di fronte alle crisi internazionali che da oltre due anni interessano diverse aree del mondo, emergono interrogativi centrali sulla Cina e il suo ruolo futuro: Pechino trasformerà le sue attuali partnership in alleanze militari formali? Sarà disposta e capace di assumere una posizione di leadership in un simile contesto? E infine, metterà da parte la tradizionale politica del “amica di tutti, nemica di nessuno”?

Sono domande che, soprattutto a Washington, continuano a suscitare riflessioni.

La Cina, infatti, rimane in gran parte un’incognita. Fino al 24 febbraio 2022, eravamo abituati a una Cina impegnata a rafforzare le proprie relazioni internazionali senza vincoli rispetto a blocchi o alleanze già esistenti. “Fare affari con tutti” sembrava essere il principio guida.

Un modus operandi tipico della strategia cinese, in ossequio ai principi di sviluppo economico e sicurezza nazionale, oltre che al rifiuto di alleanze militari. Aspetti formalizzati anche nella Global Security Initiative (Gsi), che sono stati come un faro per lo sviluppo del Celeste Impero nelle ultime decadi. Nel corso degli anni, questo approccio ha portato il sistema cinese ad essere estremamente interconnesso (dunque dipendente) dai mercati occidentali. Tale condizione, se da un lato ha portato enormi ricchezze e conoscenze, dall’altro ha mostrato le sue criticità, specialmente quando Washington ha iniziato a percepire la crescita cinese come una pericolosa minaccia alla sua supremazia globale.

Il rifiuto delle alleanze militari, d’altro canto, mostra la consapevolezza che si ha di un contesto asimmetrico, cosicché tale rifiuto si configura sia nei confronti delle alleanze nemiche volte ad ostacolarla, sia come l’intenzione di non volerne creare delle proprie, così da non alimentare la formazione di schieramenti opposti, mostrandosi contrari ad una divisione in blocchi del pianeta.

Questo approccio, nelle relazioni internazionali, viene spesso definito “hedging strategy” (letteralmente “strategia di copertura”), ossia il tentativo di perseguire i propri interessi economici e di sicurezza senza schierarsi esplicitamente con o contro qualcuno e inserendosi in una determinata regione senza stravolgere uno status quo che risulta vantaggioso per il perseguimento dei propri interessi. In poche parole, fare affari con tutti sfruttando il sistema americano poiché troppo oneroso pensare di sostituirlo con un altro.

Questo sistema si è incrinato quando gli Stati Uniti hanno iniziato a percepire l’ascesa della Cina, non più come semplice competitor economico, ma come principale minaccia al loro primato globale nel medio-lungo periodo. Concetto messo nero su bianco nella National Security Strategy (NSS) del 2017. È a partire da quegli anni che iniziò una vera e propria guerra commerciale da parte statunitense, volta a frenare l’ascesa cinese colpendo il suo principale vettore di potenza: l’economia.

La tensione è andata intensificandosi, prima con la guerra in Ucraina e successivamente con la crisi in Medio Oriente. Eventi che hanno accelerato dinamiche già in atto.

Questi sconvolgimenti, insieme alle continue tensioni nei mari cinesi, hanno portato il mondo a polarizzarsi, anche se contro le esplicite intenzioni di alcuni dei soggetti interessati.

Tuttavia, se da una parte si ha di fronte un blocco strutturato (per quanto pieno di malumori interni) con a capo gli Stati Uniti, dall’altro vediamo una serie di paesi con imperativi e interessi assai variegati. Alcuni di loro trovano nel principio “il nemico del mio nemico, è mio amico” uno dei pochi elementi di convergenza. Altri, invece, intendono sfruttare l’emergere dell’ostilità verso l’Occidente per promuovere un multipolarismo che permetta loro di ricavarsi maggior spazio di manovra al grido “né con l’Occidente, né contro l’Occidente” (ad esempio l’India).
Organizzazioni internazionali come i BRICS sono ben lungi dal diventare alleanze militari in grado di opporsi esplicitamente all’Occidente. Questo non solo per le divergenze interne, ma soprattutto perché molti dei membri non hanno intenzione di perseguire tale direzione. Uno di questi è la Cina, che sfrutta queste organizzazioni per accrescere la sua statura, ma che al tempo stesso si guarda bene dal provare a convertirle in alleanze de facto.

Russia, Corea del Nord e Iran, i principali partner della Cina, condividono con Pechino l’obiettivo di contrastare il sistema americano, ma divergono su modalità e tempistiche. I primi tre, infatti, sono già sufficientemente indipendenti dal sistema che vogliono abbattere, per cui il loro approccio, decisamente assertivo nei confronti dell’Occidente, prevede che questa opposizione si renda manifesta fin da subito e con determinazione. La Cina si trova in tutt’altra situazione. Ha l’obiettivo di ridefinire l’ordine internazionale nel lungo periodo, ma al tempo stesso ha necessità di preservarlo nel breve periodo, poiché ancora troppo dipendente dallo stesso. Per questo motivo, sta cercando di sganciarsi dai mercati occidentali sperando di sostituirli, da un lato con i paesi del cosiddetto “Sud globale”, dall’altro incentivando i consumi interni. 

La Cina, quindi, intende far leva su tutti quei paesi che si oppongono al sistema Occidentale e di porvisi come massimo rappresentante per costringere Washington a scendere a patti e ripensare un equilibrio internazionale che vada maggiormente incontro alle sue esigenze. Avere mano libera nel sud-est asiatico e non vedersi ostacolata nel perseguimento del proprio sviluppo economico. 
Nel farlo, però, non ha intenzione (né la possibilità) di creare un nuovo Patto di Varsavia in salsa cinese. Intende avere una propria sfera di influenza, ma non formare un’alleanza militare che porti ad una suddivisione del pianeta in blocchi impermeabili.

I motivi sono diversi: in primis, firmare un simile accordo porterebbe con sé il rischio di scivolare più facilmente in uno scontro diretto con gli americani per difendere uno dei possibili alleati (Russia, Iran o Corea del Nord); in secondo luogo, una simile alleanza implicherebbe che molti paesi occidentali – o filo-occidentali – che continuano ad intrattenere rapporti economici con Pechino, probabilmente interromperebbero tali legami; in terzo luogo, un’alleanza ha senso se ognuno è utile all’altro, e gli eventuali alleati, dopo tutto, potrebbero risultare non così utili lì dove la Cina ha più bisogno (mari cinesi).
Per questi motivi Pechino, finora, si è astenuta dalla formazione di qualsiasi alleanza militare.

Al di là delle sue intenzioni, però, rimane comunque il rischio che Pechino si veda costretta a mutare tale strategia. In altre parole, che la pressione statunitense la obblighi a ripensare al suo approccio strategico.

Non c’è bisogno di rifarsi a grandi teorici per comprendere che quando vi è una potenza egemone ed una in ascesa, la prima, vedendo la seconda come minaccia esiziale, farà di tutto per ostacolarla. Ma per sottrarsi alla Trappola di Tucidide, la potenza emergente dovrebbe riuscire a crescere al punto tale da ridurre al minimo il divario dal suo rivale prima che si scivoli in un conflitto aperto. L’unico modo per scongiurare una guerra è quello di raggiungere l’equilibrio di potenza.
Una nuova Guerra Fredda, a questo punto, apparirebbe quasi un successo per chi vedrebbe elevata la propria posizione.
Tuttavia, l’unico esempio storico di Guerra Fredda ci informa sulle condizioni che permettono a tale situazione di concretizzarsi. Quella fra Usa e Urss fu resa possibile dal fatto che le due superpotenze emersero come tali dopo aver combattuto un nemico comune in un conflitto mondiale e, quando emerse la rivalità esplicita, si trovarono già in sostanziale equilibrio.

Oggi, invece, il contesto è profondamente diverso. Vi è squilibrio di potenza e cercare di ridurre tale asimmetria è un compito assai complesso, soprattutto se gli Stati Uniti hanno come obiettivo proprio quello di impedirlo.
La sfida si fa ancora più difficile se il confronto si svolge nei mari cinesi, dove Pechino ha intenzione di emergere e dove Washington ha intenzione di frenarla, mostrandosi disposto anche allo scontro diretto, se la situazione lo richiederà.
In sintesi: non trovandosi già in condizione di “balance of power”, l’unica alternativa per la Cina è quella di trovare una strategia per raggiungere l’anelato bilanciamento. Pechino, finora, è sembrata convinta che la “hedging strategy” fosse la migliore opzione per perseguire tale obiettivo, ma col mutare del contesto e la sempre maggiore ostilità statunitense, la visione potrebbe cambiare. 

I benefici di giocare sul filo del rasoio stanno iniziando a svanire. Il fatto di volersi porre come massimo rappresentante di quei paesi che si oppongono all’unipolarismo americano comporta che, all’emergere di una crisi regionale che veda coinvolti uno di quei paesi (Russia, Iran o Corea del Nord, ad esempio), questi siano portati per necessità a rivolgersi a Pechino. Questo, se da un lato permette alla Cina di acquisire maggior peso geopolitico sullo scacchiere internazionale, dall’altro costringe a far ciò che da tempo cerca di evitare: schierarsi. Prendere posizione, a parole e nei fatti, è ciò che mina alla base la possibilità di proseguire con la “hedging strategy”.
La Cina, nella guerra tra Russia e Ucraina, ad esempio, ha evitato di dichiararsi esplicitamente a favore della Russia. Tenta di rimanere, così, in un precario equilibrio che le permetta, da un lato di ottenere benefici dall’accrescersi della relazione con la Russia, dall’altro di non incorrere in pesanti sanzioni occidentali e di tenere ancora aperti i canali con Ue e Usa.
Tuttavia, questo equilibrismo sta iniziando ad infastidire Washington. Nonostante le pressioni fatte verso gli alleati, l’ambiguità cinese permette infatti ai più refrattari di mantenere buoni rapporti con Pechino. Per questo negli Stati Uniti si inizia a discutere della necessità di considerare il nuovo “asse del male” come un blocco unitario, a prescindere dal fatto che non vi sia una effettiva alleanza alla base: «Invece di cercare di dividere il blocco, gli Stati Uniti devono fare il contrario: trattare i propri membri come se fossero completamente interconnessi. Ciò significa garantire che un cattivo comportamento da parte di uno porti a sanzioni per gli altri».

La Cina, consapevole dei rischi connessi a tale approccio, continua ancora oggi a condannarlo e rifiutarlo pubblicamente. Proseguendo però in questa direzione, è possibile che nei prossimi mesi e anni si possa innescare una spirale di tensioni crescenti. Da un lato, gli Stati Uniti, percependo ciò che avviene a Oriente come l’emergere di un blocco unitario, potrebbero intensificare la pressione sulla Cina, cercando di penalizzarla per il suo sostegno agli alleati. Dall’altro, Pechino, trovandosi progressivamente ostacolata, potrebbe abbandonare la politica dell’equilibrio e formalizzare un’alleanza militare con i propri partner per compensare le opportunità perdute. Questo scenario porterebbe a ciò che entrambe le potenze mirano a evitare: una divisione del mondo in blocchi contrapposti.

Il segnale, dunque, che può far presagire un cambio di approccio è dato proprio dal fato di schierarsi pubblicamente. Questo non è avvenuto nel conflitto tra Russia e Ucraina dove la Cina, seppur sottobanco continui a sostenere la Russia, pubblicamente si è sempre astenuta da qualsiasi sostegno o condanna.

È avvenuto invece nella crisi mediorientale. Dopo i tentennamenti iniziali, infatti, Pechino si è apertamente schierata dalla parte dei palestinesi e contro Israele.
I diplomatici cinesi hanno regolarmente chiesto a Israele di mostrare moderazione e cessare le ostilità, ma non hanno mai condannato Hamas per l’attacco del 7 ottobre che ha dato inizio all’attuale conflitto. Una posizione che ha portato, nel gennaio 2024, l’inviato palestinese alle Nazioni Unite a elogiare la Cina come “un vero amico pronto a fare tutto il possibile per aiutare il popolo palestinese“. Ancor più significativo, il 23 luglio 2024, Wang Yi ha ospitato le diverse fazioni palestinesi (tra le quali Hamas e Fatah) mediando una riconciliazione nella quale le parti si impegnano a porre fine alle divisioni e a rafforzare l’unità.
Se il sostegno ai palestinesi ha avuto come obiettivo principale quello di mostrarsi più vicina ad una causa molto sentita in Medio Oriente e nel “Sud globale”, Pechino ha però mostrato anche il suo sostegno all’Iran nei recenti scambi di attacchi con Israele che hanno tenuto il mondo col fiato sospeso. Il 24 settembre 2024, a margine della riunione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha incontrato il presidente iraniano Masoud Pezeshkian, promettendo supporto a Teheran nella salvaguardia della sua “sovranità, sicurezza, integrità territoriale e dignità nazionale”.

Se questi eventi rappresentano realmente un cambio di approccio della Cina alle crisi internazionali, c’è da chiedersi perché ciò sia avvenuto nella crisi mediorientale e non in quella ucraina. Diverse le ipotesi che si possono fare. 
In primo luogo la tempistica. L’invasione dell’Ucraina da parte russa è stato il primo evento che ha sconvolto il mondo negli ultimi decenni, segnando l’inizio di una fase di intensificazione delle rivalità globali. Un evento che ha preso in contropiede anche la Cina. 

Convinta forse che la crisi potesse rientrare invece che alimentare ulteriori tensioni in giro per il mondo, Pechino si è concentrata sul capitalizzare gli effetti positivi della guerra (una Russia rivolta sempre più verso Oriente), ma cercando al tempo stesso di circoscrivere la crisi all’est Europa.
In secondo luogo i paesi interessati. Sostenere pubblicamente e attivamente la Russia, viste le ritorsioni economiche e diplomatiche da parte europea, avrebbe comportato per Pechino l’enorme rischio di veder lacerare drammaticamente le relazioni con l’Europa. 
In terzo luogo i ridottissimi vantaggi da un supporto diretto a Mosca. A fronte degli enormi rischi ai quali sarebbe andata incontro, quali vantaggi vi sarebbero stati per Pechino? Dal punto di vista narrativo, nel resto del mondo (e anche in Cina) la questione russo-ucraina non godeva di grande interesse. Dal punto di vista fattuale, gli occhi (e i portafogli) dell’Occidente puntati verso Mosca erano (e sono tutt’ora) un formidabile elemento di distrazione dal quadrante indopacifico. 

Fino al 7 ottobre 2023, vi era probabilmente la speranza a Pechino che le aree di crisi restassero limitate e circoscritte a specifiche regioni, così da permetterle di portare avanti la propria agenda di sviluppo con le stesse modalità e logiche precedenti. Ma gli eventi che sono seguiti all’attacco di Hamas si sono subito intrecciati alle più importanti partite globali.

Fino a qualche mese prima dell’attacco di Hamas, Pechino era riuscita nell’impresa di mediare la riconciliazione fra due storici rivali regionali come Arabia Saudita e Iran e nel frattempo manteneva buoni rapporti con Israele. L’interesse cinese era, ed è, quello di avere un Medio Oriente più stabile e pacifico possibile e di continuare a fare affari con arabi, israeliani e persiani. Perché dunque schierarsi così esplicitamente, anche se per ora solo a parole? Perché rischiare di polarizzare ancora di più la regione andando incontro alla possibilità di incrinare i rapporti con importanti paesi arabi e con Israele? Perché, infine, correre il rischio di alimentare l’instabilità in Medio Oriente, visti anche i numerosi progetti infrastrutturali che lo attraversano (rientranti nella più ampia Belt and Road Initiative)?

Le motivazioni possono essere diverse e individuabili se si tengono bene a mente quali sono i principali obiettivi strategici di Pechino nel medio-lungo periodo: rompere il contenimento statunitense e raggiungere un equilibrio di potenza (prodromico per l’anelato G2).
Se la “hedging strategy” inizia a mostrare i suoi limiti, la Cina è costretta a rivedere le sue posizioni per non rischiare di perdere sia l’uovo oggi, che la gallina domani.
Il Medio Oriente, in questo senso, può essere un quadrante privilegiato per un nuovo approccio strategico di Pechino.

L’intento cinese di ergersi a baluardo del sistema anti-americano può concretizzarsi solamente se riesce ad estendere la sua influenza in una regione con un certo peso geopolitico. Il Medio Oriente, data la sua notevole rilevanza e nonostante l’enorme difficoltà di gestione (o proprio per questo), è un quadrante decisivo per assolvere tale obiettivo, sia per la posizione strategica che ricopre, sia perché ancora in gran parte conteso e con un diffuso sentimento anti-americano sul quale far leva. Riuscire a ottenere un’influenza rilevante in Medio Oriente rappresenterebbe quindi un successo che cambierebbe in modo significativo la percezione della Cina nell’ambito della competizione globale con gli Stati Uniti. 
In un contesto di rivalità crescente con gli Usa che costringe alla suddivisione in blocchi impermeabili, esso è fondamentale per il raggiungimento l’anelato equilibrio di potenza a cui aspira Pechino. Riuscire ad esercitare un ruolo importante nella regione, nella guerra o nella pace, sarebbe merce di scambio pregiata, da usare soprattutto nei confronti degli Stati Uniti, ma anche verso i paesi europei.
Ma il Medio Oriente è anche la regione ideale per “distrarre” gli americani dall’Indopacifico, più della stessa Ucraina. Oltre ad avere già truppe e basi in loco, gli americani hanno più volte dimostrato di essere disposti a dispiegare importanti mezzi e risorse in difesa dell’alleato israeliano.
Nell’ottica di Pechino, quindi, “il Medio Oriente può essere il quadrante decisivo in cui contrastare il contenimento aggressivo americano”. Una regione stabile conviene ad entrambi, ma un clima di tensione conviene forse più alla Cina che agli Stati Uniti.
A Pechino interessa la stabilità anche perché, con la guerra in Europa tra Russia e Ucraina, sono rimaste solo due vie terrestri della Belt and Road Initiative che possono arrivare in Europa: una che passa dal Kazakistan, Mar Caspio, Azerbaigian e poi Turchia; l’altra più a sud, che dovrebbe attraversare l’Iran e poi collegarsi alla Turchia. Tuttavia, la prima sembra ormai la più valida e quella dove si sta investendo maggiormente. Il che significa che lambirebbe il Medio Oriente a nord, senza rischiare di diventare oggetto di attacco in territorio iraniano. Per la Cina, dunque, avere un piede in Medio Oriente significherebbe anche tenere sotto controllo importanti progetti ma, al tempo stesso, la via attraverso il Caucaso meridionale permetterebbe di mantenere le infrastrutture parzialmente fuori dalla destabilizzazione mediorientale.

Ovviamente non sono poche le difficoltà e i rischi insiti in tale (ipotetica) strategia, ed è questo che spinge Pechino ancora alla cautela.

Innanzitutto, il punto di squilibrio iniziale. Gli Usa esercitano già una grande influenza nella regione, con uomini e mezzi dislocati in vari paesi. In alcuni, come Siria e Iraq, in funzione anti-iraniana e anti-jihadismo; in molti altri, soprattutto negli stati arabi del Golfo, in difesa dei paesi ospitanti. Quest’ultimo aspetto è il principale ostacolo per la Cina, poiché difficile è rinunciare ad un simile supporto americano.
Strettamente legato a questo punto vi è anche il desiderio di molti paesi arabi di non schierarsi esplicitamente. Questo vale proprio per alcuni importanti stati del Golfo i quali, pur rivolgendosi a Washington per la difesa dalla minaccia iraniana, non vorrebbero far parte di un vero blocco ma intrattenere proficue relazioni con tutti, soprattutto con la Cina. Quest’ultima è, infatti, il principale importatore di combustibili fossili dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi Uniti e dal Qatar, nonché investitore in numerosi progetti tecnologici ed infrastrutturali.

Tuttavia questi, se costretti a scegliere, è probabile che optino per la sicurezza piuttosto che per il commercio.

Ulteriore fattore è proprio quello delle garanzie di sicurezza, diretta e indiretta. Forse uno dei principali approcci che Pechino sarà costretta a mutare se vuole avvicinare a sé determinati paesi. Finora la strategia cinese non contemplava garanzie di sicurezza in stile americano. Eppure oggi, e soprattutto in Medio Oriente, queste sono una merce di scambio di indubbio valore che molti paesi vanno cercando. 

Anche per quanto riguarda la proiezione estera della propria forza militare, la Cina è ancora molto indietro rispetto agli Stati Uniti, anche se già da qualche anno ha iniziato a muoversi. In alcuni documenti di intelligence trapelati sulla piattaforma Discord nella primavera del 2023, si faceva riferimento al “Progetto 141” in base al quale il PLA avrebbe intenzione di stabilire almeno 5 basi all’estero e 10 siti di supporto logistico entro il 2030. Secondo tali documenti, le 5 basi dovrebbero essere: Guinea Equatoriale, Gibuti, Emirati Arabi Uniti, Cambogia e Mozambico. Per ora l’unica che si abbia certezza sull’operatività è quella di Gibuti. Ma tra i paesi candidati, ciò che balza all’occhio sono senza dubbio gli EAU. Questi, in un primo momento, a seguito di una forte pressione statunitense, avevano comunicato nel 2021 di voler interrompere il progetto. Tuttavia nel 2023, i documenti trapelati facevano intendere che i lavori stavano proseguendo.
In ogni caso, ciò che è rilevante, è proprio la tendenza in sé, ossia la volontà cinese di proiettare le sue forze armate ben al di là dei mari cinesi. In Cambogia la base navale di Ream è già in parte controllata da Pechino; in Tagikistan i lavori per una nuova base militare sembrano proseguire e tra i nuovi “candidati” che si affacciano sul Golfo Persico (forse proprio in alternativa a EAU), sembra che la Cina sia in trattativa con l’Oman.

Altro aspetto è la difficoltà di farsi portavoce di un “ordine” alternativo in Medio Oriente.
Che ci si inserisca schierandosi apertamente con una parte in gioco e contro un’altra, o che si metta piede in Medio Oriente come il grande “riappacificatore”, in ogni caso è necessario farsi portatore in una proposta di equilibrio in una regione in cui regna il caos. Trovare una soluzione che possa andare bene a tutti è impossibile, per questo è anche assai arduo convincere le parti, le quali ovviamente subirebbero la pressione statunitense per rifiutare qualsiasi proposta proveniente da Pechino.
Ma andare in Medio Oriente senza un’idea di come gestire gli innumerevoli conflitti etnici, religiosi e geopolitici, sarebbe altamente rischioso.
Da parte sua la Cina, secondo il sondaggio Arab Barometer condotto nel 2023-2024, può contare su un aumento del gradimento della popolazione araba nei suoi confronti, mentre la percezione positiva verso gli Stati Uniti è in calo. Aspetto questo che, se mantenuto e implementato, potrebbe essere d’aiuto a Pechino in futuro.

Infine il rischio di essere trascinati in conflitti. Se c’è una lezione che è possibile trarre da questi due anni di crisi, è che spesso sono i partner di minoranza a condizionare i partner di maggioranza, più che viceversa.
Minacciando di estendere i propri conflitti regionali, le medie potenze riescono a condizionare le azioni delle grandi potenze alleate. Lo abbiamo visto in particolare nella crisi mediorientale, con Israele che riesce a trascinare gli Usa verso le proprie posizioni e, dall’altra parte, con le milizie filo-iraniane che, agendo spesso in autonomia, costringono l’Iran ad intervenire.
Ovviamente questo, per la Cina, non è certo un incentivo a cambiare approccio.

Come abbiamo visto prima, però, il rischio per Pechino è che venga costretta in questa situazione dall’evolversi degli eventi. Per questo è necessario premunirsi.

Visto l’approfondimento delle relazioni con la Russia e soprattutto con l’Iran, la Cina può iniziare a sfruttarle per inserirsi con maggiore assertività negli affari mediorientali. 
La crisi tra Israele e Iran, infatti, potrebbe avere lo stesso effetto su Teheran che ebbe la guerra russo-ucraina su Mosca: un repentino scivolamento verso Pechino in termini di dipendenza economica, tecnologica e politica.
Anche l’Iran, come la Russia, non ama l’idea di essere dipendente da un altro paese. Ma già prima del 7 ottobre la Cina si è posta come utile stampella di Teheran, importando il 90% del greggio venduto dalla Repubblica Islamica e firmando nel 2021 un accordo di partenariato strategico di 25 anni tra i due paesi. Nell’incontro tra Xi Jinping e Pezeshkian, a margine del vertice BRICS di Kazan, il presidente cinese ha ribadito l’intenzione di proseguire su questa via.

L’acuirsi della crisi in Medio Oriente potrebbe avere un effetto acceleratore su tali relazioni.

Teheran, messo in seria difficoltà dalle azioni di Israele, potrebbe essere costretto ad aggrapparsi più intensamente a Pechino e con ulteriori richieste di supporto. Non più solo l’acquisto di greggio, investimenti in infrastrutture e vendita di componenti ad uso civile e militare, ma la fornitura di sistemi d’arma completi e presa di posizione pubblica in difesa di Teheran con maggiore pressione diplomatica.

Se ciò accadesse, a quel punto Pechino avrebbe un’ottima opportunità di inserirsi con forza nelle dinamiche mediorientali. Schierarsi con maggior decisione a supporto dell’Iran, come abbiamo già ricordato, comporterebbe numerosi rischi, ma anche vantaggi. La Cina, infatti, potrebbe avanzare diverse richieste all’Iran in cambio del suo aiuto: in termini logistici, visto l’interesse cinese di avere un punto d’appoggio per la propria marina in prossimità del Golfo Persico, Pechino potrebbe chiedere a Teheran l’utilizzo di una sua base navale – cosa che metterebbe in allarme gli Usa, costringendo a mantenere in loco una cospicua forza militare; ma soprattutto, avendo l’Iran un’enorme influenza in diversi stati mediorientali come Iraq, Siria, Libano e Yemen, la Cina potrebbe sfruttare questi canali per accrescere il proprio peso nella regione e poter così trovare un posto al tavolo in cui si tenta di definire gli equilibri mediorientali. 

Roma, Maggio 2024. XVIII Martedì di Dissipatio

I paesi del Golfo sarebbero ovviamente infastiditi dall’eventuale supporto cinese al rivale iraniano, ma al tempo stesso potrebbero ritenere che una Cina posta come “protettrice” della Repubblica Islamica possa avere un’influenza “moderatrice” nei confronti di quest’ultima. Pechino, infatti, ha tutto l’interesse a mantenere buoni rapporti con i paesi del Golfo, per cui è probabile che cercherà di rassicurarli sulle azioni dell’Iran.

Se tale scenario si concretizzasse, superando gli ovvi tentativi di sabotaggio statunitense, per gli americani sarebbe un duro colpo. Da quel momento, Pechino avrebbe una formidabile arma negoziale nei confronti di Washington, da tirar fuori in diverse partite, compreso l’Indopacifico. Ma soprattutto, la presenza in Medio Oriente costringerebbe gli Usa a tenere una forte presenza militare nella regione.

Ovviamente la Cina andrebbe incontro a sanzioni statunitensi, dovrebbe spendere risorse e mezzi per salvaguardare il nuovo ruolo, vedrebbe minata la relazione con importanti partners economici e rischierebbe di scivolare in un conflitto mediorientale. Ma quali alternative ha a disposizione?
La possibilità di seguire la strada della “hedging strategy” sta svanendo. Gli Usa ormai intendono l’asse Pechino-Mosca-Teheran-Pyongyang come un vero e proprio blocco che va trattato come tale, a prescindere dal fatto che sia veramente così oppure no. 

Il fattore determinante sarà il tempo. La Cina dovrà ottenere una maggiore indipendenza dal sistema occidentale prima che sia quest’ultimo a precluderle l’accesso, e al contempo dovrà espandere la propria influenza in aree strategiche e contese (come il Medio Oriente) per aumentare il proprio peso geopolitico, prima che la nascita di blocchi alternativi limiti le sue possibilità di azione. 

In questa corsa contro il tempo, l’equilibrismo pechinese rischia di essere la prima vittima.

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