Pensare la geopolitica trasversalmente permette di oltrepassare ogni orizzonte percorrendo vie lunghe e fertili; fili di seta e di cotone si dipanano paralleli da oriente, si librano su onde d’acqua, roccia e sabbia, innervano mani che si poggiano sui continenti bagnati dal Mediterraneo. Alla seta, imperiale e lucente, si affianca il più umile e tenace cotone; mentre Hervé Joncour partiva sempre dritto di là fino alla fine del mondo per il Giappone, il cotone di Sven Beckert tratteggiava le linee del capitalismo moderno, primo prodotto capace di caratterizzare un’economia globalizzata.
Non è un caso che le proiezioni di potenza egemoniche abbiano ripreso trame e denominazioni antiche: la politica nei suoi fondamenti non cambia, muta nelle espressioni evolute condizionate da fattibilità economica e variabili geopolitiche che incidono su sicurezza e realizzabilità infrastrutturali e che ora portano a valutare le implicazioni del conflitto tra Israele e Hamas in funzione degli Accordi di Abramo, dell’avvicinamento Gerusalemme-Riyadh e del contenimento iraniano. L’area mediorientale conferma la sua centralità: i confini di Gaza sono di fatto diventati le linee rosse che delineano una guerra fredda per il controllo di Asia centrale, Europa orientale e MO, che sta riscaldando cineticamente i fronti ucraino e israeliano con sviluppi anche tra Yemen e Arabia Saudita e Yemen e Iran.
Laddove le vie di comunicazione fortificano i legami strategico-politici, là si accresce la loro fattibilità economica e prende quota la connettività assicurata dai corridoi strategici: alla Via della Seta di Pechino si contrappone in Eurasia la Via del Cotone, l’IMEC, progetto rientrante nel PGII sostenuto da Washington, comunque vincolata all’esito delle prossime presidenziali, e interessante una New Delhi volta a MO ed Europa e legittima etoile dei Raisina Dialogue; un’iniziativa allineata alla Global Gateway europea del 2021, primo progetto infrastrutturale esteso del vecchio continente, iniziative che dovrebbero mobilitare capitali per circa 900 miliardi di dollari a fronte degli 885 finanziati dalla BRI dal 2013. Del resto le interruzioni dei flussi commerciali per pandemia e politiche zero Covid cinesi hanno imposto di disporre di fonti alternative, cosa che ha condotto prima al decoupling e poi al de-risking finalizzato alla riduzione delle dipendenze e necessario a convogliare capitale privato, purché la geostrategia non distolga dalla valutazione della sostenibilità economica e dalla negoziazione di un accordo di libero scambio tra UE e India.
L’obiettivo, incentrato su rotte più brevi agevolanti la connettività intercontinentale, è quello di rendere economicamente interdipendenti i Paesi interessati grazie ad una rimodulazione delle supply chain; il problema politico si pone in termini di coerenza e stabilità laddove si rammenti che, mentre nel marzo 2019 l’Europa designava la Cina quale rivale sistemico, l’Italia sottoscriveva un MoU con Pechino proprio sulla BRI, da cui ha receduto nel 2024 optando per IMEC. L’IMEC, che lambisce il Mediterraneo Allargato, va dunque a toccare eminentemente aspetti infrastrutturali e connettivi. Alla luce della teoria del rimland non è casuale che IMEC e BRI siano geograficamente assimilabili, vista la concentrazione demografica e di ricchezza; la ricerca di vie alternative distanti dal rimland, come la rotta artica, non è sostenibile nel breve-medio periodo. Tutto oro quel che luccica? No; a fronte del risparmio di tempi e costi si contrappongono oneri di carico e scarico ed instabilità del contesto securitario mediorientale; il successo scaturirà dalla crescita indiana, mediorientale ed europea, a loro volta dipendenti dalla ripresa economica globale. La condivisione tra Indo-Pacifico e Mediterraneo allargato discende dalle connessioni economiche e strategiche tra regioni mediterranea, mediorientale ed asiatica, un melting pot che obbliga a posture proattive in grado di preservare la valenza di regione strategica.
Dopo dieci anni di ruggiti il Dragone lascia spazio, obtorto collo, all’iniziativa occidentale, intesa a cercare sponde tra Golfo Arabico e Indo Pacifico; la sfida consisterà nel tenere vivo l’interesse di leader compressi tra il maglio della trappola del debito pechinese e l’incudine della fisiologica incostanza di un’Europa chiamata a programmare sul lungo periodo e ad abbassare l’asticella per attrarre clientes, forte sia dell’inedita moderazione cinese nel concedere prestiti di altrimenti sempre più difficile estinzione, sia del raffreddamento del mercato finanziario verso gli investimenti esteri.
I Paesi del Golfo vedono l’occasione per elevare la centralità nelle reti connettive e commerciali globali, divenendo hub ineludibili lungo una rotta est-ovest capace di aggirare Bab el Mandeb e Suez, ora sotto scacco Houthi; l’IMEC garantisce maggiore autonomia ed un più significativo potere contrattuale, consentendo di giocare sia in campo occidentale che in campo BRI ed addirittura in area BRICS, massimizzando i pesi geopolitici. All’India ora il compito di percepire l’Asia occidentale come un insieme di Paesi considerati non solo come produttori energetici ma anche attori disposti alla diversificazione. È un fatto: l’ascesa di Delhi ha attratto le multipolariste Riyadh e Abu Dhabi, tiepide verso la poco seducente Islamabad che blocca le direttrici terrestri a ovest: IMEC porta al de-risking negli approvvigionamenti ed all’inserimento indiano in value chain logisticamente diversificate; insomma, da un lato il potenziale per abbattere, dai porti europei fino a destinazione, i costi di trasporto fino al 40% con una crescita produttiva incrementale più lo sviluppo delle Zone Economiche Speciali, dall’altro le difficoltà connesse a creazione e gestione di vie di trasporto multimodali bilanciando gli interessi geopolitici.
Se la BRI è divenuta una sorta di moltiplicatore economico globale, IMEC è il prodotto di una globalizzazione regionale, malgrado lo scetticismo di Parag Khanna circa gli esiti di una ipotetica competizione. IMEC punta al duplice scopo, politico ed economico, di dimostrare la volontà americana di contenere la dipendenza da Pechino rassicurando gli alleati; lo stesso per l’India, refrattaria alla BRI sia per i ripetuti scontri confinari con Pechino, sia per la mal tollerata proiezione di potenza cinese. Il Golfo arabico inquadra invece l’IMEC come l’opportunità per diversificare un’economia fondata sulle risorse fossili, secondo le linee indicate dalla Saudi Vision 2030 che, pure, contempla la BRI sia secondo una logica di multiallineamento diplomatico, sia come un’opportunità per rafforzare la propria centralità mentre il baricentro geoeconomico planetario si sposta da ovest a est e a sud. Di fatto IMEC fornirà una visione egemonica via via diversa con l’India, inedito partner critico nella guerra fredda sino-americana, con sauditi ed emiratini che valuteranno la competizione in un contesto a somma positiva e con Pechino capace di esercitare una pressante influenza lungo il percorso. Rimane ancora insoluto il dubbio sulla conformazione geografica del tratto finale dell’IMEC, stante l’ingente percentuale di proprietà cinesi presso il Porto del Pireo che rendono l’Italia la possibile seconda testa di ponte dopo l’India purché emuli in fretta i dinamismi franco ellenici.
Dove Fukuyama nell’89, citando Kojéve, in The end of history ha interpretato in chiave temporale uno dei possibili scenari futuri chiedendosi se fosse giunto il momento di riconoscere l’esistenza di un’unica strada verso una rivoluzione liberal democratica, Huntington ha visto conflittualità capaci di contrapporre le varie civilizzazioni. Estendendo il concetto, l’espansione di vie e corridoi porta ad una prospettiva che, oltre gli aspetti connessi alle proiezioni di potenza, presuppone più civilizzazioni portatrici di istanze morali antitetiche legate a differenti visioni culturali. La volitività espressa da Terra di Mezzo e Indo Pacifico esprime chiaramente l’indirizzamento verso multipolarità desiderose di esprimersi. Il problema è che instabilità politica ed antagonismo hanno acuito linee di faglia che hanno rimarcato l’idea del tramonto dell’Occidente con mutevoli bilanciamenti del potere economico in area sinica e demografico in area islamica. Universalismo occidentale, integralismo musulmano e dinamismo cinese nell’essere destinati all’attrito, si rendono latori di plurimi ordini politici, ribadendo una volta di più che la storia non è terminata.