Xiaokang shehui significa «piccola tranquillità» o «società moderatamente prospera». Datong invece è traducibile come «grande unità», un mondo utopico senza crimine, cose futili, sofferenze inopportune o proprietà privata. Entrambi i termini animano la “contraddizione” antica e l’ultimo passaggio: dal lessico storico della filosofia confuciana, alla lingua moderna del socialismo con caratteristiche cinesi. Dove l’Occidente del progresso in linea retta, della logica verbale, dell’esame di coscienza, nota appunto la contraddizione. E dove l’Oriente del ciclo, del non detto, della saggezza, osserva l’armonia nelle dicotomie. Dove Alberto Bradanini – ex console generale a Hong Kong e ambasciatore d’Italia a Pechino – applica competenza diplomatica e mediazione culturale, per raccontare la Cina, nella sua irresistibile ascesa (Sandro Teti Editore, 2022).
Infatti proprio Deng Xiaoping rese popolari i due termini confuciani, dando seguito all’accordo politico dei primi anni Settanta tra Cina e Stati Uniti. Nella grande svolta che mantenne la sovranità nazionale, declinò il dominio del Partito Comunista Cinese in forma di stabilità politica e aprì ampi spazi di mercato al capitalismo occidentale. Riuscendo a migliorare la vita del popolo cinese come mai prima. Quando in pochi decenni, milioni di persone sconfissero la povertà estrema. In una delle realizzazioni morali e materiali più elevate di tutta la storia umana. A riguardo, la prospettiva chiara è quella globale. Ovvero tra il 1990 e il 2015: se le persone costrette a vivere con meno di 1.25 dollari al giorno sono passate da 1.9 miliardi a 836 milioni, la stragrande maggioranza di quanti scamparono il dramma era cinese, mentre aggiornata la soglia all’inflazione, il resto del mondo povero langue ancora (Graeme Maxton e Jorgen Randers, Reinventare la prosperità, 2016).
A riprova, contemporaneamente all’irresistibile ascesa, i paesi poveri che scelsero le politiche liberali promosse dall’occidente, rinunciando a mantenere sovranità nazionale e controllo politico dell’economia, sono rimasti sottosviluppati; pur soffrendo – diversamente dalla Cina – tutte le piaghe tipiche delle prime fasi d’industrializzazione tra baraccopoli, criminalità e degrado sociale. In una disparità, ostinatamente taciuta a Nord e ben conosciuta a Sud. Il che rende comprensibile come la dittatura autoritaria cinese goda di ampio consenso popolare. Prima, grazie alla raggiunta stabilità contro i torbidi otto-novecenteschi trascinati fino all’incubo della Rivoluzione Culturale maoista, quindi grazie alla crescita economica contro la miseria. Ovvero, il patto tra Stato e cittadini basa sulla formula: «sottomissione in cambio di stabilità (soprattutto) e di benessere (quando possibile)». Una linea di continuità.
Pertanto accenniamo solo brevemente agli aspetti più noti del miracolo economico, apertura di un mercato libero interno, privatizzazioni, investimento internazionale, costo del lavoro infimo, possibilità di sfruttare i lavoratori e inquinare a piacimento, esportazione dei prodotti finiti nei paesi ricchi. Quindi l’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (2001) e l’emersione della fabbrica del mondo, con profitti enormi.
Meno noto come la Cina abbia applicato le riforme, mantenendo una politica di investimento pubblico keynesiano a basso ritorno (immediato) e frenando dolorosamente la crescita di salari e consumi per mantenere la competitività internazionale, controllare l’inflazione e privilegiare il rinnovamento del capitale fisso. Affiancando una rete efficiente di trasporti e infrastrutture, al basso costo del lavoro. Mentre, persino la debolezza del welfare partecipava alla compressione del mercato interno, invitando le famiglie a risparmiare per l’istruzione dei figli, l’età avanzata, eventuali spese mediche. Tutte politiche che in sintesi rinunciano al massimo benessere subito, per arricchirsi più in fretta e di più in futuro.
Ancora oggi, nonostante la disponibilità ingente di risorse e il debito pubblico contenuto, l’estensione del welfare che permetterebbe di soddisfare i desideri della popolazione, sommare la domanda interna alla crescita economica e alleviare la dipendenza dall’estero, procede con estrema cautela. Nel timore dell’inflazione e di quella trappola del reddito medio, già scattata in altri paesi in via di sviluppo.
Così, nel 2019, il Pil continuava a dipendere dal commercio internazionale per oltre il 35%, con metà dell’export realizzato dalla produzione cinese delle aziende straniere. Evidentemente, il modello continuerà ancora per diverso tempo, sulla base del commercio internazionale; e nonostante alcune eccellenze o l’impegno degli ultimi piani quinquennali nei settori più avanzati, anche nella filosofia produttiva dell’80% della qualità al 60% del prezzo.
Altra persistenza è il controllo del Partito Comunista Cinese sulla società. I nuovi spazi di autonomia rimasero economici. L’apparato repressivo restò operoso. E alla fine, i dirigenti assistettero al peggio soltanto negli anni Novanta dell’(ex) Unione Sovietica. Mutando in Cina esclusivamente il criterio di selezione o meglio di cooptazione, della classe di stato. L’allineamento politico continuò a figurare un requisito importante ma non più l’unico, con il ritorno della competenza e del merito. In questo modo, gli ultimi quarant’anni hanno favorito l’emersione di una classe dirigente politico-amministrativa di notevole capacità.
Ma anche la sovranità politica sul campo economico ha superato le privatizzazioni. Il governo ha mantenuto una forte capacità di pianificazione. Le aziende di Stato controllano i settori fondamentali dell’economia (finanza, energia, comunicazioni, trasporti) senza ammettere concorrenza. E anche i privati devono seguire le indicazioni generali. In tal senso le autorità ricorrono tanto agli opportuni dispositivi legali, quanto a pressioni informali, innanzi le quali non esistono gli strumenti di tutela, propri dello Stato di diritto. I nuovi ricchi vengono sorvegliati attentamente; il governo tollera una certa fuga di capitali, pur di mantenere l’obbligo informale delle periodiche donazioni in favore di scuole e ospedali.
Il timore dello Stato è che la classe dei nuovi ricchi (partito americano) già raggiunta la condivisione dei circoli e dello stile di vita delle élite occidentali, prema per la resa definitiva nei confronti del capitalismo internazionale. Adeguando la Cina all’Occidente e ai propri interessi particolari, con la liberalizzazione dei prezzi dei servizi e ulteriori privatizzazioni.
Al momento l’occidentalizzazione politica è improbabile ma il futuro rimane aperto. Il che introduce allo scenario internazionale.
Nella storia cinese ricorre la paura del mondo esterno. Dopo la Guerra di Corea, Mao impostò la politica estera in modo da limitare ogni coinvolgimento. Tuttavia, proprio grazie all’appoggio americano, le Nazioni Unite riconobbero l’esito della guerra civile, trasferendo il seggio cinese nel Consiglio di Sicurezza, dalla Cina nazionalista ridotta a Taiwan, alla Cina comunista sul continente (1971). Mentre l’apertura al capitale occidentale sosteneva l’ascesa economica. Tanto che oggi, la dipendenza dal commercio globale sfida il pensiero isolazionista classico, imponendo tanto la pace, quanto la cura di interessi cinesi in tutto il mondo, tra mercati di sbocco e approvvigionamento delle materie prime. In un contesto di crescente ostilità con l’egemone, maturato a partire dagli anni Novanta.
Infatti, secondo Bradanini, gli Stati Uniti hanno preso la via di una nuova guerra fredda in ragione della «struttura politico-ideologica di un capitalismo onnivoro centrato sull’immenso potere di corporazioni private». Struttura che stride con le nazioni, ove il politico domina l’economia.
Gli anni Novanta furono decisivi. L’Unione Sovietica implose. La Cina smise di temere il confine siberiano. Gli Stati Uniti smisero di avere bisogno dell’alleata ingombrante. Contemporanee una finestra di possibilità per la conquista della Russia al sistema occidentale e l’ascesa della Cina, verso la posizione di rivale più insidioso. Nondimeno simili condizioni favorirono anche all’avvicinamento della Cina con la Russia. Tra il 1991 e il 1992, gli accordi sulla delimitazione di confine, cooperazione militare, vendita di aerei da caccia russi. Nel 1996 una vaga «partnership strategica». Nel 1997 la dichiarazione di Boris El’cin e Jiang Zemin a favore del «mondo multipolare». Soltanto il principio di una serie di trattati sempre più ravvicinati e approfonditi. In costante aggiornamento.
Poi con gli anni Duemila e la presidenza di Vladimir Putin, la Russia cominciò a riprendere la sua traiettoria usuale, invertendo il processo di omogeneizzazione all’Occidente. Emblematico il ritorno al controllo statale sul settore degli idrocarburi. Allora gli Stati Uniti giunsero al bivio, accettare che un soggetto esterno al loro sistema esercitasse larga influenza in Europa, o tornare alle ostilità.
Da prospettiva americana, l’indebolimento del controllo sull’Europa rappresenta la sciagura peggiore. Così, la prossimità di Cina e Russia ha ragioni profonde. Pressione demografica cinese sul confine siberiano, sovrapposizione delle influenze in Asia Centrale, bilancia commerciale squilibrata lasciano ampio spazio di compromesso.
In questo momento storico, la dottrina Kissinger funziona ribaltata. La dinamica che avvicina Cina e Russia, allontanandole dagli Stati Uniti, procede da trent’anni. Accelerata dalla sua stessa conseguenza più recente, la guerra in Ucraina.
Non di meno il rapporto tra Cina e Stati Uniti rimane un abbraccio, tra stretta dell’uno, guizzo dell’altro o viceversa. La priorità cinese è quella di continuare l’ascesa economica, ovvero di mantenere la pace necessaria al commercio estero e di proteggerlo. Con l’obiettivo insito nel patto sociale di diventare un paese moderatamente prospero a metà secolo. Ancora nel 2021 il Pil pro capite cinese, calcolato a parità di potere d’acquisto, oscillava attorno ai 19.000 dollari, lontani ad esempio dagli oltre i 43.000 italiani.
Comunque, nei primi anni Duemila, l’intento inclinò nella ricerca di una sorta di bipolarismo asimmetrico, con prevalenza americana e partecipazione cinese alla gestione delle istituzioni determinanti del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della Banca Asiatica di Sviluppo e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Quindi emersa l’indisponibilità degli Stati Uniti, a condividere le proprie istituzioni di governo economico globale, e a partire dalla presidenza di Xi Jinping, la Cina asseconda la tendenza multipolare: nella ricerca di aggregazioni alternative ma senza la disponibilità ad impegnarsi in alleanze minacciose di coinvolgimento in crisi lontane e senza l’abbandono delle ricche istituzioni americane. Fanno parte di questa circuitazione complementare le organizzazioni dei Brics con la loro banca, le Nuove Vie della Seta, la Banca Asiatica di Investimenti Infrastrutturali, la Rcep (Partenariato Economico Globale Regionale) e non solo.
Lo stesso commercio tra Cina e Stati Uniti è impressionante. Scambio bilaterale e disavanzo passivo americano oscillano rispettivamente attorno ai 560 e ai 310 miliardi di dollari. La Cina ha bisogno di mantenere l’abbraccio per continuare la crescita, il che invita a stemperare le tensioni. Gli Stati Uniti allentano, per esercitare il contenimento. Tuttavia il costo del lavoro americano è alto e il disavanzo partecipa al primato internazionale del dollaro, corrispondendo sostanzialmente alla concentrazione, presso il fornitore principale, delle importazioni che negli anni Novanta originavano da tutta la regione Asia-Pacifico. Così lo stato tenta di convincere le aziende americane a spostare le produzioni in altri pesi asiatici.
Quanto alla circolazione dei capitali, sulla sponda orientale, la presidenza Trump è riuscita ad approvare diverse restrizioni e frenare l’investimento cinese in America. Sulla sponda occidentale le restrizioni sono state allentate specularmente e l’afflusso di capitale americano continua. BlackRock, Vanguard, Jp Morgan hanno aperto uffici oltre Pacifico per vendere fondi comuni a una popolazione straordinariamente incline al risparmio. La camera di commercio americana in Cina registra quote di proprietà statunitense in decine di migliaia di imprese, dal fatturato annuo di oltre 700 miliardi di dollari. La propensione al ritorno è minoritaria. Fuori dai settori strategici, il disaccoppiamento ha passo incerto e lento.
D’altra parte, gli Stati Uniti restano nettamente superiori in termini militari, solidità delle alleanze, soft power, tecnologia avanzata e finanza internazionale. La Cina emergerà come grande potenza compiuta, soltanto a lungo termine. Gli stessi Stati Uniti superarono il Pil britannico già nel 1870 e divennero la prima potenza mondiale, più di settant’anni dopo.
Tra le isolette del Mar Cinese Meridionale, la posta è inferiore al rischio. L’innesco di Taiwan è pericoloso ma improbabile. Più ragionevole un futuro all’altalena di strappi e riavvicinamenti. Nell’era atomica, la trappola di Tucidide è narrazione. Innescata dagli ambienti accademici americani prossimi al complesso militare-industriale, per catturare spesa per la difesa, più che guerra.