Conoscenza è potere. Potere è voglia di sfida. E voglia di sfida è insofferenza rivoluzionaria, rovesciamento dello status quo. Ogni grande mito pedagogico sull’emancipazione dell’Uomo dal giogo asfissiante degli Dei ha a che fare con la conoscenza e il potere da essa derivante. Perché possedendo la prima giunge il secondo. Conseguenza logica e ineluttabile. La conoscenza è il motore del cambiamento, dell’invenzione, ma, molto più spesso, è stata ed è il motore della ribellione contro l’ordine imperante. Fu facendo leva sul fascino del sapere che il Serpente convinse Adamo ed Eva a nutrirsi dei frutti proibiti dell’Albero della conoscenza del bene e del male. Fu per la conoscenza che Prometeo donò il fuoco agli uomini. Fu per la conoscenza che Gilgameš si dedicò ad un’epopea alla ricerca di sé stesso e della verità ultima.
Nella realtà, proprio come nelle favole e nei miti, la conoscenza è fonte di un potere che spiana la strada a un mutamento trainato dalla ribellione. Fu per mezzo della conoscenza pervenuta dal contatto con l’esterno che il Giappone dell’era Meiji poté prima aspirare all’uscita dalla condizione di nazione agricola e feudale e dopo all’ingresso nel club delle grandi potenze. È stato per mezzo della conoscenza ereditata dalla sorella Britannia che l’America ha potuto costruire la globalizzazione e sottomettere l’Eurasia, riciclando e aggiornando lo stesso gioco del divide et impera. Ed è grazie alla conoscenza, tesoro dimenticato in larga parte del poststorico Occidente, che un impero rinato, la Cina di Xi Jinping, sta provando a riscrivere volto e anima del sistema internazionale ed è riuscita laddove nessuno aveva avuto successo: mettere piede nelle Isole Salomone.
La conoscenza come arma
La Repubblica Popolare Cinese nasce nel 1949, entra nel sistema internazionale relativamente tardi, e la sua giovane età ha spesso tratto in inganno coloro che l’hanno approcciata. Prima i sovietici, testimoni riluttanti della celebre “rottura” durante l’era kissingeriana e di una guerra di confine. E poi gli americani, che hanno a lungo considerato la Cina una sorta di India in salsa confuciana: un’enorme fabbrica a basso costo, priva di aspirazioni egemoniche tali da minacciare l’assetto del sistema internazionale, e addomesticabile per mezzo dello spettro del separatismo etno-religioso. La storia ha dato torto sia al Cremlino sia alla Casa Bianca. E pochi, ancora oggi, dimostrano di avere capito quello stato-civiltà che è la RPC.
La RPC non rappresenta che l’ultimo stadio evolutivo di un impero, un “impero della conoscenza”, la cui storia non inizia nel 1949, bensì nel 3000 avanti Cristo, le cui istituzioni hanno una lunga tradizione di attingimento all’esterno per adattarsi al mutamento dei tempi, emblematizzato oggigiorno dal “socialismo dalle caratteristiche cinesi” e dal “cristianesimo dalle caratteristiche cinesi”, e la cui identità risulta dalla perfetta combinazione di tre convinzioni: essere Terra di mezzo, ovvero la Cina al centro del mondo – idea imperiale, ma non imperialista; la continuità di ogni dinastia, cioè ogni forma assunta dall’impero viene ritenuta in linea e coerente con la precedente, nonostante le possibili e talvolta ampie differenze; il Mandato del cielo, ossia l’autorità come investita di potere e legittimità dal Divino; Conoscere le tre ossa portanti dello scheletro dell’Impero celeste è più che importante, è indispensabile, perché trattasi di un sapere in grado di sciogliere quel rebus avvolto in un mistero che è Pechino.
La Terra di mezzo è il motivo conduttore dell’irrefrenabile voglia di emancipazione della Cina dal Secolo americano: essa è nata per stare al centro del Sistema, se non da sola perlomeno all’interno di un concerto di nazioni, perciò non avrebbe mai accettato supinamente e passivamente di essere e rimanere l’eterna fabbrica di beni a basso costo del mondo sviluppato. La Continuità spiega la fame di rivincita della dirigenza del Partito Comunista Cinese. Il 1949 come il primordio di un nuovo ciclo, di rinascita, che ha sostituito il precedente, di declino. Compimento di un destino: la rivalsa dell’Impero risorto sui protagonisti del Secolo della grande umiliazione. Il Mandato del cielo è la ragione insormontabile che ostacola l’affermazione di una democrazia liberale all’occidentale nella Cina continentale.
I cinesi avranno sempre bisogno di un imperatore illuminato che li guidi, tenendo unita la nazione-mondo e proteggendola dall’ingiustizia e dalle orde che incombono sulla Muraglia. E un imperatore illuminato non può essere, per definizione, eletto a suffragio universale. Il Cesare della Cina contemporanea, Xi Jinping, è l’incarnazione dei tre volti dell’anima dell’Impero celeste. Uomo che crede ciecamente di possedere un Mandato del cielo – l’abolizione del limite del doppio mandato presidenziale –, che ritiene la RPC la sola e legittima erede della dinastia Qing e della Repubblica interguerra – l’agenda di riunificazione con Taiwan – e che vuole tornare al centro del mondo – la Nuova Via della Seta. E le Isole Salomone, all’interno di questa Trinità, giocano un ruolo-chiave.
L’importanza delle Salomone
Spiegare ai profani la Trinità cinese era indispensabile. Perché nelle Salomone, remoto, ricco e misterico raggruppamento arcipelagico che nell’antichità sarebbe stato una delle dimore dell’omonimo re di Israele, non è in corso un semplice braccio di ferro: qui è dove Xi sta combattendo per il ritorno dell’Impero celeste al centro del mondo. Le Salomone sono entrate nell’agenda estera del PCC per due motivi: Xi è un profondo conoscitore della storia, la Cina è, come spiegato nell’introduzione, un impero della conoscenza. Impero che agisce nel presente avendo come musa ispiratrice il passato. E quando si tratta di Indo-Pacifico, naturale spazio vitale della Cina, la bussola è costituita dal ricordo dell’età sinocentrica e dalla memoria dell’imperialismo del libero commercio delle potenze occidentali.
Il passato è custode dei segreti che spiegano l’importanza delle Salomone, fortezza dell’anglosfera che, in quanto localizzata tra l’oriente dell’Indonesia e il settentrione dell’Oceania bianca, dota il padrone del suo destino di capacità di proiezione (e di pressione) nel geostrategico Triangolo polinesiano, cuore pulsante del Pacifico. La Cina, allievo che ha fatto i compiti, ha capito che le Salomone sono un avamposto per ridurre il raggio d’azione dell’Australia, guardiano degli interessi dell’America nella regione. Sono un ostacolo lungo il percorso delle rotte delle globalizzazione che collegano Panama a Jakarta, Tokyo a Canberra, Washington all’Asia. Sono un modo per aggirare la prima cintura della catena di isole che da decenni contiene a terra l’incontenibile tellurocrazia cinese. E possono accelerare l’accerchiamento diplomatico di Taiwan, che nel vicinato salomonese continua ad avere appoggi – Marshall, Nauru, Palau, Tuvalu.
L’ingresso di Xi
Le Salomone sono uno dei pilastri fondanti della talassocrazia delle sorelle dell’anglosfera, nonché un contenitore di tesori – gas, nickel, oro, terre rare, zinco e molto altro –, e Xi è riuscito a mettervi piede, siglando uno storico patto di sicurezza globale col governo Sogavare – preceduto dall’adesione alla politica dell’una sola Cina –, perché, di nuovo, in qualità di dotto in storia, ha imparato dalle esperienze fallimentari di coloro che ivi provarono a sfidare l’egemonia angloamericana: i tedeschi di Bismarck e i giapponesi di Hirohito. Né i tedeschi né i giapponesi poterono nulla contro le armi segrete dell’Anglosfera, regina dell’Indo-Pacifico perché impareggiabile dominatrice dei mari, perché privi del potere navale necessario e incapaci, dunque, di battere il nemico ad un gioco dalle regole a loro sfavorevoli. Pechino, più saggiamente, ha utilizzato il potere morbido (soft power) come leva per conseguire quello duro (hard power): la storia come arma. La riscoperta dei mali e delle tragedie provocate dal colonialismo britannico, come la deportazione in Australia di migliaia di autoctoni ridotti in schiavitù, per conquistare il favore del popolo. L’enfasi sulla piena indipendenza mai ottenuta, a causa della sottomissione alla Regina e dei tentativi di balcanizzare lo stato arcipelago alimentando il terrorismo politico e il separatismo, per persuadere la classe dirigente a voltare le spalle all’Anglosfera. A fare da sfondo, naturalmente, delle ben calibrate diplomazie del commercio e degli aiuti umanitari. E ha funzionato.
La partita per il destino delle Salomone, dalla cui egemonizzazione dipende l’imperio dell’Anglosfera nel Pacifico, è tutt’altro che finita. Il 19 aprile 2022, giorno in cui il mondo è venuto a conoscenza del patto di sicurezza sino-salomonese, è semplicemente iniziato un nuovo tempo. E che cosa potrebbe accadere da ora in avanti, adesso che Xi ha voluto fare il passo decisivo (più lungo della gamba?), è stato illustrato dal portale specializzato InsideOver: la nuova fase, cominciata il 19 aprile 2022, comporterà, con elevata probabilità, un aumento del disordine nel mai quieto arcipelago. I moti sinofobici, la tre-giorni di inaudita violenza di fine novembre 2021, le proteste antigovernative culminate nella crisi politica di dicembre 2021, e il risorgere del separatismo, la proposta di tenere un referendum (illegale) sull’indipendenza svelata dalla (ricca) provincia di Malaita nel 2020, come prodromi di ciò che potrebbe accadere. Xi è avvertito: una battaglia è stata vinta, ma la guerra deve ancora cominciare. Guerra che probabilmente vedrà gli Stati Uniti far leva su pressioni diplomatiche, anarchia produttiva e strategia dell’indianizzazione di britannica memoria – la strumentalizzazione di identità e micro-nazionalismi per indebolire gli stati multietnici – per testare le effettive capacità della Repubblica Popolare Cinese. Perché un trattato di sicurezza è stato siglato e il suo contenuto, cioè la volontà di Pechino di tutelare la pace sociale a Honiara, verrà messo alla prova.