Lei è per la terza volta consecutiva sottosegretario agli Esteri. Conte I, Conte II, Draghi. Segno di fiducia e di competenza riconosciuta in un dicastero prestigioso e delicato. Alla luce dell’esperienza maturata, esiste davvero una politica estera italiana indipendente?
Esiste eccome e i fatti lo dimostrano. È sempre più evidente il ruolo dell’Italia come perno dell’Occidente e piattaforma protesa nel Mediterraneo. Oggi stiamo bene in questa Europa più verde e solidale e – anche per ragioni di affinità politica, di sicurezza, di sviluppo economico e tecnologico – riteniamo che mantenere ben saldo il legame atlantico sia fondamentale e prioritario. Questa nostra collocazione non deve essere vista come un limite alla possibilità di avere una politica estera indipendente, ma come un fattore abilitante che ci consente, in ogni scenario, di difendere i nostri interessi nazionali da una posizione di solidità. A riprova di ciò, il fatto che il nostro Paese sia attualmente ben profilato su tutti i dossier comunitari e internazionali di rilievo.
Draghi nel suo discorso di insediamento ha ribadito l’orientamento Atlantico dell’Italia. Serve ancora la NATO?
Sì, serve e le dinamiche geopolitiche globali degli ultimi anni ce lo confermano. È verosimile che, purtroppo, a trent’anni abbondanti dalla caduta del Muro di Berlino, il mondo stia nuovamente rientrando in una dinamica di blocchi animati da principi e ideali tra loro divergenti. Le azioni ostili da parte di determinati attori sono sempre più frequenti ed è necessario che l’Occidente sia compatto nel farvi fronte. Con questa prospettiva è quindi essenziale che la NATO non solo sia conservata, ma venga consolidata.
Tra le sue deleghe ci sono competenze riguardo l’Asia, l’Italia può avere un peso nelle relazioni fra Occidente e Russia o è legata alle decisioni di Bruxelles, intesa come “capitale” UE e NATO?
Chiariamo innanzitutto che, in questo tipo di dinamiche, l’Italia non è “vincolata da Bruxelles”, bensì contribuisce a pieno titolo, e con un ruolo spesso centrale, al formarsi nelle posizioni comuni in ambito UE e NATO. Quanto alla Russia, fino al 2013-14 le cose sono andate molto bene. Poi, con una tendenza acceleratasi a partire dal 2018, è intervenuta una serie crescente di episodi ostili francamente inaccettabili che ha portato le relazioni euro-russe e italo-russe a un punto molto basso. Nonostante ciò, in continuità col ruolo costruttivo di ponte politico ed economico tra est e ovest che l’Italia ha assunto sin dai tempi della Guerra Fredda, e con l’auspicio che gli amici russi possano presto ritrovare la voglia di migliorare i rapporti con l’Europa, il nostro Paese continua per quanto possibile a mantenere un’agenda positiva in tutte le sedi.
Asia, quindi Cina, quindi diritti umani; la via della seta passa sopra ogni cosa?
Assolutamente no. Già nel 2019, al momento della firma del Memorandum italo-cinese a Roma, si chiarì in modo netto che l’Italia non sarebbe mai scesa a compromessi relativamente al rispetto dei diritti umani e del principio di perfetta simmetria nei rapporti economici. Aggiungo che, nonostante tutto ciò che è stato detto e scritto, il documento sottoscritto con la Cina prevede solo spunti per possibili collaborazioni e non contiene impegni vincolanti, tantomeno nel settore delle reti strategiche. La retorica secondo cui l’Italia possa abdicare (o aver abdicato) al proprio ruolo di Paese promotore dei diritti fondamentali al fine di intrattenere relazioni economiche con partner come la Cina è quindi completamente fuorviante e tendenziosa. Sia a livello bilaterale che in Europa, pur sforzandoci anche in questo caso di mantenere un’agenda positiva e un canale di dialogo sempre aperto, non abbiamo mai lesinato critiche e misure politiche ed economiche, ove ritenute necessarie.
In Asia c’è anche il Medio Oriente. L’Italia ha sempre avuto buoni rapporti sia con Israele che con ANP. Possiamo essere concretamente utili per un processo di stabilizzazione in Palestina?
Quello che mi preoccupa, anche alla luce di quanto avvenuto recentemente, è la sensazione che, per come si è andata stratificando ed evolvendo negli ultimi anni, la situazione in Medio Oriente tenda solo a una contrapposizione sempre più radicale tra soggetti incapaci a dialogare. La soluzione da noi auspicata, quella dei “due popoli, due stati”, appare lontana se si guarda ai lanci di missili da parte di Hamas, all’incapacità del popolo palestinese di eleggere democraticamente i propri rappresentanti a 15 anni dall’ultimo voto, agli agghiaccianti scontri etnici che si sono verificati nelle città israeliane, all’atteggiamento delle autorità di Israele verso i palestinesi di Gerusalemme est e della Cisgiordania nonché al perdurare della politica di sfratto forzato. Tradizionalmente l’Italia e l’Europa hanno giocato un ruolo centrale nelle dinamiche del processo di pace in Medio Oriente. Io ritengo che questo patrimonio accumulato negli anni non vada dissipato e che un rinnovato impegno da parte europea nell’area sia oggi oltremodo necessario, anche solo per riportare dopo tanto tempo le parti a un tavolo.
I mercati asiatici sono un’occasione enorme per le imprese italiane. Lei sta facendo molto in questo senso. Questo genere di politiche sono realizzabili solo in un contesto UE o ci sono margini per interessi nazionali diretti?
Come prevedono i Trattati Europei alcuni interessi vengono perorati in primis a livello comunitario, come ad esempio quelli legati alla negoziazione di trattati commerciali e sulla protezione degli investimenti; altri hanno invece una dimensione principalmente nazionale e spesso capita che non coincidano con quelli di altri partner europei. Mi riferisco ad esempio alla concorrenza tra fornitori europei sui mercati esteri e alle dinamiche legate all’attrazione degli investitori extraeuropei nei Paesi dell’Unione. Su questo ogni Paese membro, Italia inclusa, fissa le proprie priorità di diplomazia economica e agisce di conseguenza.
Lei si occupa molto di temi economici in ambito internazionale. La politica estera si basa ormai solo su questioni di sviluppo o aspetti ideali e ideologici possono ancora influenzare gli orientamenti di una nazione?
Il fatto di orientare o meno il percorso di uno stato moderno verso una prospettiva di concorrenza, sviluppo e apertura rispetto alle opportunità del mercato globale è esso stesso una precisa linea di policy (più o meno ideologica). A mio avviso, soprattutto in quest’epoca di transizioni epocali (digitale, ecologica, industriale…) autoescludersi o rimanere tagliati fuori dalle principali dinamiche di sviluppo e transizione rappresenta il perfetto viatico per assicurarsi un declino economico nei prossimi decenni.
Quanto pesiamo davvero nel G7 e nel G20?
Al netto delle contingenze che possono rendere ogni vertice più o meno adeguato a raggiungere determinati risultati, posso dire che la nostra sincera propensione a propiziare il dialogo tra le parti senza portare avanti “agende nascoste” è molto apprezzata da tutti. Quello che mi auguro è che, grazie anche a questa nostra capacità di far raggiungere il compromesso, il G20 del 2021 che l’Italia presiede possa davvero produrre risultati storici come il raggiungimento di target vincolanti di decarbonizzazione da formalizzare poi alla COP26 e l’intesa sulla tassazione globale delle multinazionali che metta fuori gioco i paradisi fiscali fuori e dentro l’Europa.
Di tutti i governi di cui lei ha fatto parte quello di Draghi è il meno “politico” nel senso che si appoggia su una maggioranza molto allargata, che vede insieme forze tra loro antitetiche almeno sulla carta. Questo non rende l’opera del governo poco riconoscibile verso l’esterno sotto il profilo politico? In altre parole, il suo operato non rischia di diventare solo “tecnico”?
Il mio operato quotidiano alla Farnesina è necessariamente molto tecnico perché la maggior parte dei temi di cui mi occupo, pur avendo senz’altro implicazioni politiche, sono squisitamente tecnici. Fatta questa doverosa premessa, e guardando un po’ oltre le solite dinamiche di politica interna, faccio notare che questo governo italiano – che per usare una retorica da prima repubblica è sostanzialmente un governo sia di scopo che di unità nazionale – ha un peso internazionale notevolissimo. Dopo decenni di periferia, a partire dall’esperienza di Governo del Presidente Conte, l’Italia è, per una serie di concause, tornata protagonista nelle dinamiche europee e sta contribuendo a delineare come sarà l’Europa del futuro. L’asse atlantico è come dicevo in perfetta salute. Siamo protesi con un’agenda molto ricca e profilata verso il Nord Africa, il Medio Oriente, il Caucaso, l’Asia. Se questo non è un profilo (geo)politico riconoscibile non saprei proprio come definirlo.
Il sottosegretario è nominato dal presidente della repubblica ma giura nelle mani del ministro. Il legame personale col capo della Farnesina quindi è essenziale. L’aver condiviso tutta una carriera politica con Di Maio rende più fluida l’azione del suo ministero? Rende più incisivo il MAE all’interno dell’esecutivo?
Col Ministro Luigi Di Maio eravamo già buoni amici ed, essendo al suo fianco ormai da tempo, posso dire che adesso la simbiosi è totale. Sono davvero lieto di poter condividere questo percorso con lui e sono convinto che il nostro legame possa contribuire a rendere migliore l’azione del Ministero degli Esteri e la sua proiezione rispetto alle più ampie dinamiche governative.
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