La natura del potere trumpiano è alquanto semplice. È schmittiano, evoliano, putiniano. Potere come fine in sé stesso, questo è il principio del MAGA o dei progetti di Elon Musk. Si svela la natura puramente imperiale della presenza internazionale americana, che si incarni nell’immensa amministrazione di Washington o nelle corporations decollate nel mondo globalizzato sotto Reagan e Clinton. Non servono le articolatissime giustificazioni etico-legali del nuovo ordine internazionale, delle Corti, delle mille organizzazioni multilaterali, delle università liberalamericane: mero potere finanziario, mero potere informativo, mero potere bellico, senza se e senza ma. Non serve giustificare il potere agitando l’egalitarismo radicale o la superiorità morale dei gruppi minoritari: la realtà americana è la plutocrazia estrema, e pare giusto riconoscere anche ideologicamente la diseguaglianza tra le persone. Dall’altra parte dell’oceano questa idea non può passare. In Eurolandia poteri e contropoteri, limiti, regole e diritti sono la politica stessa, così come si è concretizzata dagli anni Ottanta in poi. La pace è tanto mezzo quanto fine delle relazioni internazionali, assieme al commercio; la cooperazione interstatale è un meccanismo imprescindibile. L’hard power americano, liberato dagli orpelli verbali dell’aristocrazia dei Democrats, ricorda all’Europa che esiste e che non è solo parte (minore) di un Occidente allargato. Tra l’incudine ed il martello, o a far da ponte, la Repubblica Italiana sotto la direzione Meloni.
Il 2024 è stato l’anno della non-Europa. Chi vive nella sfera mediatica italiana ha visto una completa scomparsa dell’Europa e dell’Unione come soggetto politico o prospettiva storica, dopo un periodo 2021 – 2023 di rinascita comunicativa. In politica l’esistenza verbale e retorica di miti, immagini, simboli e discorsi è strettamente necessaria all’esistenza del potere istituzionale. Testimonia la convinzione, da parte dell’élite, che quella forma storica soddisfi le proprie esigenze e visioni. La bulimia mediatica dell’Europa è un fatto rilevantissimo. Le cause superficiali sono numerose – ne elenchiamo tre.
Intanto, l’ossessione generalizzata per il conflitto in Medio Oriente ha rapito l’attenzione dai sanguinosi ma lenti movimenti del fronte ucraino. Seppur in Germania, Italia o Spagna non ci fosse alcun desiderio di erigere una cortina di ferro ai confini dell’Unione, la mobilitazione in difesa di Kiev, che fosse materiale o retorica, aveva sbloccato idee tenute nel congelatore almeno dal 2007: un destino comune da Lisbona a Tallin, la necessità di riarmarsi, una coscienza della propria incompatibilità con il mondo russo. Per quanto nel complesso siano stati gli anglofoni a supportare più di tutti l’Ucraina, qui in Continente ci si pensava responsabili della resistenza ucraina, se non anche di quella georgiana e moldava. In nome della sensazione, poi, gli sguardi sono stati spinti a osservare la distruzione di Gaza e l’erosione del sistema di deterrenza iraniano. Uno spostamento dello sguardo che ha restituito, in risposta, l’apparente impotenza del Continente laggiù, dove tra gli occidentali solo Israele e gli Stati Uniti hanno avuto qualcosa da dire. È tornata quella visione remissiva e spettatrice del rapporto Europa – NATO, dove i 27 non sono nulla più che comodi satelliti ed osservatori delle guerre altrui.
Due: come ogni volta, giornali e cittadini italiani hanno vissuto le elezioni europee come poco più che un midterm per il governo nazionale corrente e per tutti gli altri carrozzoni verbali messi in piedi da quelle fragilissime imprese di lobbying che chiamiamo partiti. C’è in verità una complicità tra Roma (e le altri capitali) e Bruxelles: non incentrare la campagna elettorale sulla politica dell’Unione, così da lasciare lo scettro in mano agli Stati Membri e a quella lontanissima oligarchia brussellese che si nutre della sua distanza dall’elettorato. È poi entrato in moto quel farraginosissimo sistema di costruzione della nuova Commissione, quel disastro di diritto costituzionale uscito dai compromessi del Trattato di Lisbona. Non si è parlato altro di quale “ministro” sarebbe stato assegnato all’Italia, invece di approfondire i desideri della burocrazia europea e del Parlamento. Moltiplicando ciò per 27, ne emerge una identificazione bassissima tra persone e personale, tra elettori e prescelti a guidare le istituzioni europee. A parte le lotte di potere personalistiche e l’attività incessante di think tanks e policy analysts sotto il grigio cielo belga, della politica rimane poco.
Terzo fatto fondamentale: l’Unione produce norme volte solamente ad influenzare il comportamento della classi dirigente. Regole per le imprese, finanziamenti per i ministeri nazionali, trattati commerciali… misure importantissime e di impatto storico, ma mai interessanti per il cittadino quanto la fiscalità, le pensioni o la scuola. Accordo con il MERCOSUR, dazi su base ambientale, grandi fusioni, politica monetaria, debito comune per la difesa determineranno la traiettoria dell’economia europea, ovvero la sopravvivenza del welfare state, ma collegare questa politica iperuranica alla realtà in una forma comunicativa efficace è difficile. Ne risulta il disinteresse assoluto e totale della stampa italiana e della propaganda elettorale per la legiferazione e il governare comunitari – una scelta di disinformazione di massa.
Il 2025 sarà invece l’anno dell’Europa, grazie alla presidenza Repubblicana. Con Europa si intende dare un solo nome e corpo a un insieme interconnesso di cose politiche che corrisponde circa ai popoli e agli stati del Continente, a sua volta definibile circa come Unione Europea. L’Unione non ha un forte scopo in sé per esistere e farsi sentire; in mancanza di input esterni cessa di avere slancio o significato ideale, derubata dalla pratica degli stati nazione. La costruzione legale ed istituzionale incentrata sui diritti umani e la pace interna ha sì valore, ma in primis trova la sua forza nelle pratiche dei singoli stati membri e trova esecuzione sotto l’ombrello NATO; il ruolo di gestione economica collettiva è, generalmente, uno di normale amministrazione. L’Europa torna realmente ad esistere solo sotto stress – il vecchio luogo comune dell’Europa costruita una crisi alla volta. Con la presidenza americana che, nella retorica e/o nella pratica, abbandona ogni principio di comunità internazionale, occidente unito, fratellanza maggiore nella NATO etc. cresce automaticamente il soggetto che, in un confronto di realpolitik brutale e kissingeriano, dovrebbe essere l’interlocutore degli Stati Uniti trumpiani e corporate driven.
Per l’insieme composito degli europeisti e degli anti-americani scocca l’ora di far combaciare il desiderio di distaccare dalla dipendenza d’oltreoceano gli interessi politici ed economici del Continente. Dei molteplici campi di battaglia se ne possono esemplificare due: l’energia e l’abbattimento delle emissioni di carbonio prima, l’oligopolio tech poi. Se questo fosse un libro si potrebbero anche toccare i dazi e i trattati commerciali, l’Artico, la guerra russo-ucraina, le migrazioni…
L’ossessione europea per la transizione energetica non è solo mossa da un imperativo etico, dalla necessità di gestire un disastro imminente o dall’inerzia degli interessi e del conformismo costituitisi attorno al green. È un fatto di sicurezza: avvicinarsi, per quanto possibile, al sogno storico dell’indipendenza energetica. È più di un secolo che la dipendenza dal petrolio prima, e poi in aggiunta dal gas naturale, ammanetta la politica estera degli Stati europei. Nel momento in cui il Presidente Trump critica acerbamente le politiche energetiche dell’Unione e i dazi basati sulla produzione di carbonio, si assiste ad una ingerenza massima nel desiderio di autonomia strategica del Continente. La contro-pressione sulle spese militari europee non è una forza contrapposta e di uguale peso, perché nessun inquilino di Washington mai desidererà una Europa realmente militarizzata. Si aggiunga che, indirettamente, pretendere un trattamento di favore per gli idrocarburi americani significa destabilizzare il Caucaso, il Golfo Persico ed il Nordafrica, dipendenti in parte o del tutto dalle esportazioni di prodotti petroliferi e GNL in Europa. E tra la via europea e quella trumpiana, non è detto che Total o ENI preferiscano necessariamente la seconda. Il fronte contrario al dominio del fracking americano sarà robusto, e sorprendentemente includerà la Repubblica Popolare Cinese – sì assetata di energia a basso costo, ma anche seconda potenza ad avere più scommesso sulla decarbonizzazione.
Aver perso il treno dell’informatica nel XXI secolo, dall’hardware al software, è un fallimento sul quale si rifletterà ancora tra decenni. Tornando alla descrizione iniziale del MAGA, l’unione mistica tra esecutivo americano e oligopolio tech si sta svelando al mondo nella sua pienezza, avendo tutti dimenticato l’incubo rivelato da Edward Snowden. Lo stile morbido e soffice della California liberal celava il brutale potere culturale di soggetti imprenditoriali la cui terra di conquista è stata la mente, anche europea ed italiana, ed il cui desiderio è la deregolamentazione completa. Al pubblico nostrano, in verità, non sono noti gli equilibri politici che hanno permesso il dominio di Microsoft, Amazon, Google o Meta in Europa, quindi quali garanzie potrebbero averci schermato dalla violenza algoritmica o dallo spionaggio straniero; gli scontri della Commissione Europea con X o Apple hanno preso le sembianze del teatro, più che dell’affermazione di sovranità. Fatto sta che la mancanza di social media o motori di ricerca europei richiama una posizione subordinata, una posizione che in luce delle tinte MAGA assunte dai giganti social apre le possibilità della polemica. Si è fatto avanti il premier spagnolo Pedro Sánchez, che nell’attuale equilibrio del sistema UE è l’unico Primo Ministro di un paese di un qualche peso che, ideologicamente, non può non guadagnare da un sano Trump-bashing. E il cui Stato ha scommesso tutto, come l’Italia, sull’ordine internazionale basato su diritto, multilateralismo e commercio. Sánchez ha definito i social media e i giganti tech “cavalli di troia” di tendenze antisociali e del dominio di massa; l’accusa volta alle piattaforme stesse, ai suoi oligarchi, di volontariamente condurre una guerra asimmetrica al potere europeo è pesantissima, inaudita in un contesto come quello di Davos, precedentemente zuckerbergiano. La proposta di Sánchez: portare al Consiglio dell’Unione la fine dell’anonimato sui social media e creare una pseudonimità europea, rendere noti gli algoritmi usando la piena forza del Digital Markets Acts, responsabilizzare a livello legale i proprietari delle piattaforme. Qualunque sia l’idea dietro il discorso, Sánchez ha indicato Bruxelles come il luogo dove costruire una nuova visione dei social media. La politica europea, dalla Commissione ai singoli Stati Membri, ha l’opportunità di costruire un discorso negoziale con gli Stati Uniti, che conduca effettivamente a una rottura o europeizzi i colossi o sia merce di scambio in difficili do ut des. Se la mossa funzionasse, l’UE potrebbe essere l’ente preposta a gestire una colonna portante della presente e futura civiltà, senza sottrarre direttamente sovranità alle singole nazioni, quanto all’ingombrante Alleato. Difficile dimostrare più chiaramente che il numero di telefono dell’Europa può esistere.
Passando da un capo del governo ad un altro, Giorgia Meloni si è posizionata forse perfettamente, forse disastrosamente per il prossimo quadriennio. La leadership accentrata e carismatica che oggi guida l’Italia replica, all’europea, taluni tratti del MAGA politico ed economico, e difatti è riuscita a curare rapporti speciali con il nuovo nucleo dirigente americano. C’è qualcosa di profondamente comune nell’assoluto culto del potere individuale del trumpesimo, titanico e smaccato, con quello del postfascismo italiano (tolkieniano, attivistico, vitalista, proletario, scalatore sociale) che negli anni 90 generò l’élite che da ormai tre anni sembra avere hackerato l’algoritmo elettorale italiano. E non c’è nessuna contraddizione tra questa nicchia ideale della destra italiana e il neoliberismo finanziario dei Musk, Fink e simili, in fila per firmare carte con Palazzo Chigi ed il Tesoro: dopo la Guerra Fredda è stata l’arena economica il luogo dove è rinato lo spirito di Napoleone III ed il neomonarchismo che desidera portare la piramide dell’azienda nella cosa pubblica.
La politica estera buona non si fa sull’ideologia, e i buoni rapporti personali devono restare un mezzo (e non farsi il fine delle relazioni internazionali). La pressione degli interessi e tradizioni politiche del Paese determinano la rotta. L’alzata di dazi con l’Europa sarebbe un cataclisma per l’economia italiana, che negli ultimi anni ha realizzato buona parte della sua relativa crescita con uno spostamento da Cina e Russia agli Stati Uniti, dove le imprese italiane vendono e investono bene. L’effetto poi sarebbe esponenziale, data l’interconnessione forte con le altre economie d’esportazione dell’Eurozona. Nuovamente, la controproposta di più bassi prezzi petroliferi non bilancia un danno dalle implicazioni profonde: il governo del centrodestra ha massimizzato il suo consenso nel far girare l’economia italiana al massimo del suo potenziale attuale. Tra l’altro, al netto dei proclami elettorali, il passaggio alle rinnovabili in Italia sta galoppando a piena forza, e il governo ha avuto successo nei rapporti con paesi estrattori di idrocarburi quali Algeria o Arabia Saudita, e perciò l’affondo trumpiano è semplicemente fuori fase. Si aggiunga che tra tutti i partiti d’Italia sono al momento al potere gli unici favorevoli all’aumento della spesa militare, e questo è sì avvenuto con nuove commesse, ma in una proporzione alquanto marginale. Se l’equilibrio degli interessi nella Penisola limita la spesa bellica in questo modo, il dito puntato da Trump non aiuterà la leadership meloniana, ma anzi ne infastidirà i compromessi difficilmente costruiti. Infine, attrarre investimenti da parte dell’ecosistema Musk convincendone il vate personalmente è una mossa scaltra, ma non priva di pericoli. L’Italia, ad esempio, ha bisogno di tenere a galla l’automotive, ma tra Tesla, BYD o nuovi assist a Stellantis è difficile scegliere il male peggiore. Se essere amici di Musk è il metodo necessario ad avvicinarlo per fare affari, non è detto che (ipoteticamente) compromettere l’immagine del Paese o la sicurezza dello Stato siano prezzi proporzionati.
La connessione Meloni – MAGA aiuterà probabilmente l’Italia, ma in maniere che non sono chiare ed univoche. Il peso italiano in Europa non è tale da imporre il proprio volere, ma un veto di Roma non è accettabile nell’ottica di durissimi negoziati con gli Stati Uniti o con la comunitarizzazione di campi politici fondamentali, come la difesa o i mercati di capitali. Se la Commissione Von der Leyen fiuta l’opportunità storica per rafforzare la soggettività dell’Unione, e gli altri Membri maggiori non sono sulla stessa lunghezza d’onda di Washington (Spagna, Francia, Germania, Polonia) e potrebbero scegliere la via di Bruxelles, è Roma a controllare le chiavi del processo. La tradizione politica della destra di governo vuole la ricerca di legami stretti e preferenziali con Washington e uno scetticismo nei confronti dell’Unione già dai tempi del primo Silvio Berlusconi, ma allora tale strategia era in consonanza con una parte importante dell’economia e l’ordine internazionale appariva inequivocabilmente americano. Lo Stato potrebbe scegliere di godere dei benefici d’essere, in sostanza, l’unico partner NATO con un vertice vicino a Donald Trump, da preziosi ruoli di mediazione alla rottura di iniziative altrui. Gli USA potrebbero rivelarsi la sponda perfetta per piegare l’Unione in quella Europa delle Nazioni teorizzata nella sfera sovranista italiana – una rinazionalizzazione della politica che, con l’appoggio del maggiore alleato, potrebbe non essere sinonimo di disastro economico, ma di speciali garanzie offerte a Roma. L’altra possibilità è una scelta italiana di persecuzione attiva dell’interesse nazionale centrista, bipartisan, seguendo politicamente il prossimo tandem Von der Leyen – Merz. Il vento del MAGA spingerebbe di fatto la nave in una direzione, mentre l’Italia si potrebbe permettere di comunicare pubblicamente una vicinanza con la Presidenza e di fare da Mercurio tra Washington e le capitali europee, guadagnando anche sul Continente i dividendi dovuti al prezioso doppiogiochista.
I rapporti personali e le affinità elettive sono mezzo o fine delle relazioni internazionali? Cosa muoverà la politica estera dell’Italia, il desiderio di cambiare la realtà o quello di adattarvisi? La libertà è insita nell’accettazione del destino atlantico o europeo?