Ad ogni ricorrenza la sua cerimonia e ad ogni cerimonia i suoi preparativi. Il 25 aprile non è una ricorrenza, ma la ricorrenza sui generis per eccellenza. Se dalla Francia al Pacifico si festeggia la vittoria alleata l’8 maggio o giù di lì, l’entusiasmo italiano per la liberazione anticipa il mondo ogni anno con caotica, affollata, contraddittoria e unica cerimonia, nella quale il governo di turno rinnova la pace armata con il proprio passato, e quella dis-armata verso il proprio maggiore alleato, aggiornando simbolicamente le proprie credenziali di affidabilità, ovvie e scontate. Ma questa è un’opaca primavera, fitta di ombre pericolose e imbarazzanti sul piano internazionale, e prima di un cessate il fuoco con i nemici interni del presente, occorre una pace definitiva con il passato. Proprio per la festa della Liberazione, dunque, il governo avrebbe già preso in considerazione la possibilità di costituirsi come parte civile nel processo che si è riaperto attorno alla Strage di Brescia.
Il discorso di Giorgia Meloni alla CGIL (17 marzo) ha messo in chiaro la volontà dell’esecutivo di prendere le distanze più nette dall’estremismo di destra, condannando pubblicamente l’attacco da parte dei militanti neo-fascisti al sindacato romano nel 9 ottobre del 2021. Ciò nonostante, non sono mancati i passi falsi del Presidente del Senato sulla questione di Via Rasella, dove il forte imbarazzo di Meloni e Crosetto non ha tardato ad emergere, portando La Russa a ritrattare, sebbene quelle stesse parole sarebbero dovute servire a spalleggiare la premier sulla polemica delle Fosse Ardeatine (24 marzo). Nonostante i passi indietro del vice premier, la vicenda mette in risalto come gli anziani della vecchia guardia Fdi segnalino più o meno volontariamente una linea rossa che Meloni farebbe bene a non oltrepassare. La difficoltà del Presidente del Consiglio nell’accordare gli strumenti di governo – onde evitare nuovi casi Anastasio (15 marzo) – ad una tensione ideale tra esigenza di non tradire sul piano ideologico parte dell’elettorato e insieme ad esso la geografia trasversale delle posizioni più radicali in seno ai tre partiti della coalizione, è evidente. Ad ogni commemorazione si ricompone il trito e ritrito schema per cui l’attuale opposizione, per quanto risicata, riesce a riaccendere le polemiche e a riorientare l’agenda narrativa del governo attorno al tema dell’antifascismo, capace di logorare, nel lungo periodo, la coalizione dall’interno, suscitando tafferugli intestini destinati ad ingigantirsi qualora non si riesca a trovare una soluzione al problema. Il piede di porco della narrativa di opposizione fa perno sulla sporgenza dolente del Presidente del Consiglio che vorrebbe contenere e moderare il proprio partito – e collateralmente gli altri della coalizione – , e fa leva sul fatto che Meloni sa quanto prendere le distanze da tali componenti sia questione spinosa e di difficile realizzazione definitiva.
Alla recente conferma, da parte dei giudici francesi, del no all’estradizione degli otto ex brigatisti residenti oltralpe, all’indignazione della squadra di governo si è contrapposta, parallelamente, quella di Manlio Milani (presidente dell’Associazione familiari vittime della strage di piazza della Loggia a Brescia) in merito alla mancata costituzione della Presidenza del Consiglio nel nuovo processo per la Strage di Brescia, insieme con le reazioni politiche di Luana Zanella – come ha fatto notare Carmine di Niro sul Riformista del 23 marzo – capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera che ha fatto appello “alla sensibilità del sottosegretario Mantovano affinché sia rivista questa scelta”. Anche il sindaco di Brescia, Emilio Del Bono, ha aggiunto che si è trattato di “una pessima notizia. La Presidenza del Consiglio è opportuno e politicamente rilevante che si costituisca parte civile nel processo in corso sulla strage di Piazza della Loggia”. Con il divampare della polemica è arrivata dunque la replica del governo, che tramite il sottosegretario Alfredo Mantovano, ha affermato che “la Presidenza del Consiglio non ha ricevuto nessun avviso riguardante la fissazione dell’udienza preliminare del processo a carico di Roberto Zorzi e Marco Toffaloni, imputati per la strage di piazza della Loggia a Brescia. Per questo, l’Avvocatura dello Stato, su mandato della stessa Presidenza del Consiglio, chiederà al Gup di Brescia la rimessione in termini ai fini della costituzione di parte civile, che seguirà non appena la rimessione sarà concessa”. Attualmente Roberto Zorzi, cittadino statunitense e potenzialmente estradabile – da non confondere con Delfo Zorzi, non estradabile in quanto cittadino giapponese e già assolto in precedenza per la medesima strage – risulterebbe indagato, come terzo esecutore, insieme con Marco Toffaloni, oggi cittadino svizzero. La notizia di questa evoluzione arriva per altro il giorno seguente alla fuga di Artem Uss, lo scomodo ospite sino al 22 marzo in detenzione domiciliare vicino a Milano e che ha già creato forte imbarazzo del governo italiano di fronte a Washington.
La vicenda non è affatto collegata con le recenti evoluzioni del processo quater per la Strage di piazza della Loggia, ma certamente è un caso che si aggiunge come ostacolo al difficile equilibrio che l’attuale esecutivo deve mantenere tra le pressioni interne all’Italia e quelle esterne, in un momento storico in cui le credenziali atlantiche del governo sono continuamente messe alla prova. Dunque non tanto per ribadire la propria fedeltà a Washington – che è inutile ricordare scontata – quanto nuovamente per rimarcare la propria moderazione sul piano interno e dunque per non offrire sul piatto d’argento all’opposizione una scusa per farsi attaccare, il governo potrebbe costituirsi parte civile nel processo per la strage di piazza della Loggia proprio in occasione del 25 aprile e contemporaneamente chiedere l’estradizione di Roberto Zorzi a Washington, in una dimostrazione di cesura con il passato senza precedenti.