OGGETTO: Nvidia, videogiochi, Dune
DATA: 08 Gennaio 2025
SEZIONE: Recensioni
FORMATO: Letture
Umanità e hardware sono le due componenti fondamentali nella corsa tecnologica del XXI secolo. Alessandro Aresu, nel suo ultimo libro "Geopolitica dell'intelligenza artificiale" (Feltrinelli, 2024), ricostruisce le storie e le lotte intestine di potere degli uomini che stanno rivoluzionando il mondo: videogiocatori incalliti come Musk e spesso megalomani come Palmer Luckey o Peter Thiel, prodotti della stessa ferocissima etica del capitalismo e del sogno americano che ha gemmato le loro aziende.
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L’intelligenza artificiale è quanto di più concreto possa riguardare il destino e gli obiettivi delle collettività umane. Al di là di qualsiasi retorica catastrofista o dalla sua cieca esaltazione, la partita in corso è squisitamente umana e materiale. La chiave di volta è la tendenza fondamentale del nostro tempo, ovvero la concentrazione crescente di uomini, idee e innovazioni nei due più importanti poli attrattivi del pianeta: Stati Uniti e Cina.

Leggendo “Geopolitica dell’intelligenza artificiale” di Alessandro Aresu, non si può che rimanere colpiti e incantati da questa lenta, costante danza concentrica che toccando i diversi angoli dell’Occidente allargato o del Sud Globale, dell’America profonda e costiera, della Vecchia Europa e dell’Estremo Oriente, si dipana attraverso intuizioni prodigiose e lotte per il potere. Tra individui come tra aziende o imperi. La visione che si prospetta è quella di un intricato labirinto dai tratti romanzeschi, in cui milioni di piccoli tasselli delineano il volto della sfida tecnologica globale.

A muovere i fili del discorso, centro essenziale dell’opera, è uno sconosciuto ragazzo di origine taiwanese, emigrato a Oneida in Kentucky e divenuto noto ai suoi nuovi concittadini statunitensi come Jensen Huang. Oggi un autentico mito. Prima ancora vi è il lunghissimo viaggio della ricerca umana intorno all’intelligenza artificiale, già negli anni Quaranta a partire dal gioco dell’imitazione e dal test di Alan Turing e portato materialmente a sbocciare proprio dal ragazzo di Oneida, giunto da perfetto sconosciuto negli anni Settanta negli Stati Uniti, e dalla sua passione per i videogiochi.

Si può dire che alle origini della nostra idea di intelligenza artificiale ci siano le schede grafiche dei videogiochi. Dalla necessità sempre più richiesta di far svolgere simultaneamente la stessa operazione, come ad esempio il far riconoscere al sistema visivo e al sistema nervoso un pezzo di grattacielo, si attiva il percorso della memoria. Ovvero, ciò che si definisce calcolo parallelo:

“Con l’arrivo della GPU (Graphic Processing Unit) di NVIDIA e la sua capacità di calcolo parallelo, improvvisamente si poterono creare mondi di gioco con grafiche complesse e dettagliate, ogni “decorazione” (elemento grafico) veniva elaborata in parallelo per creare un’esperienza immersiva che prima sarebbe stata impensabile.”

NVIDIA, la creatura di Jensen, è il cuore del processo. Il sole al centro del sistema. Ma altre storie si intersecano con la sua e con il suo clamoroso successo. Il calcolo parallelo si intreccia con la ricerca intorno alla coscienza e all’intelligenza umane, fin dagli albori di un’umanità moderna. 

Che cosa sono effettivamente? Comprenderlo è basilare per giungere a una più chiara imitazione del cervello umano. E viceversa. 

Apparentemente è l’addestramento a determinare la qualità e a modellare gli strumenti di apprendimento delle reti neurali. Meccanismo che attraverso esperienze ed errori determina anche il proliferare delle GPU. Sull’errore si regge l’intera storia dell’umanità e la continua rimodulazione del suo rapporto intellettivo nei confronti dello scibile. Sull’errore si reggerà anche il destino ultimo di queste reti neurali artificiali, scandite dall’infinito mosaico dell’hardware

La nuova “esplosione del Cambriano”, come analizzato da una brillante ricercatrice di origine cinese, Fei-Fei Li, altra protagonista dell’avventura dell’intelligenza artificiale, è il trionfo di una nuova “forma di vita” attraverso la vista, come avvenuto proprio milioni di anni prima. Vedere e saper riconoscere, mediante addestramento e con inciampi continui, traduce in realtà il gioco dell’imitazione. E prerogativa che si è perfezionata nell’uomo e nella macchina che gradualmente impara e traduce in contenuti. 

Ma la macchina non è nulla senza l’apparato umano da cui dipende. Destino manifesto della crepuscolare civiltà globale occidentale a trazione statunitense e forse cinese sta nel ruolo sempre più imponente assunto dai fabbri divini, dai moderni Prometeo che Spengler (citato in Aresu) suggerisce al culmine del ciclo euro-occidentale:

“Non solo il livello ma la stessa sussistenza dell’industria dipendono dall’esistenza di centinaia di migliaia di menti qualificate e ben addestrate che dominano e fanno progredire incessantemente la tecnica. L’ingegnere è propriamente il silenzioso dominatore e il destino dell’industria meccanica. Il suo pensiero è come possibilità quello che la macchina è come realtà.”

Il livello simbolico e metafisico sembrano intrecciarsi indissolubilmente nella materialissima antropizzazione della vicenda geologica terrestre. E forse nel superamento stesso dell’umano. Spengler definì la filosofia e la matematica di Cartesio e Leibniz come la chiara esemplificazione dello sbocciare definitivo di una nuova civiltà in nulla simile a quella classica greco-romana. Il senso dell’infinito numerico e spaziale emana dal calcolo infinitesimale. Riecheggia e culmina nell’incompletezza di Gödel. Si innesta nella spaventosa ammirazione leibniziana nei confronti di quel grande calderone della religione e del pensiero tradizionale cinese che è l’ I-Ching. Linee continue e linee spezzate come sistemi binari. Il calcolo del destino che si traduce nella ricerca del vero, mediante conversione in schemi. 

Lo schema tuttavia è nulla senza la spinta scientifica e poi industriale che edifica le civiltà delle macchine. 

Aresu, che ha dedicato al rafforzamento del capitalismo politico in salsa statunitense e cinese già due libri prima di quest’ultimo, evidenzia come l’industrialismo e l’accelerazione si innestino nella profondità antropologica, culturale e storica delle singole collettività, come necessaria alla loro stessa sopravvivenza. Evitare di conoscerle significa mancare l’appuntamento con la principale sfida del momento.

Se il Giappone per primo, dinanzi alla potenza dell’Occidente, scelse di apprendere “senza soggezione” e di farsi potenza industriale per non soccombere, oggi un destino simile accomuna le grandi collettività asiatiche. Con la Cina in testa. 

Una sfida manifatturiera, fatta di ricerca di talenti, innovazione continua, regolamentazione pubblica e sicurezza nazionale.

Se NVIDIA ha capacità di travalicare i confini nazionali dell’impero americano e di fare affari anche con i cinesi, laddove buona parte delle commesse dei giganti high-tech dipendono da commesse pubbliche, la sicurezza nazionale esercita solo in questo caso una funzione di contenimento. Le catene di approvvigionamento e la reciproca dipendenza che in seno alla globalizzazione americana hanno garantito un paio di decenni di ordine globale unipolare, oggi non hanno più ragione d’essere.

Il Celeste Impero e l’Occidente crepuscolare, siano essi metafisicamente giunti al proprio stadio terminale, meccanicamente sorretti dai soli apparati tecnici, oppure siano essi ancora vitali e rinvigoriti dalla propria stessa essenza antropologica e storica, si sfideranno. Servendosi dell’AI. 

Con i cinesi ferocemente desiderosi di aprirsi a quel vasto infinito dominato dalle flotte germaniche, normanne e inglesi, convertitesi in americane, scaturito dalla ricerca d’illimitato matematico e filosofico della civiltà euro-occidentale. E con gli americani che sono il cervello verso cui convergono tutte le rimanenti energie dei propri soci e satelliti e alleati europei.

Un turbinare sempre più accelerato di menti giovani e ambiziose fuggono dalla regolamentazione della vecchia e sfinita Europa, sostenuta dal proprio montante benessere materiale che è diretta conseguenza del disimpegno dall’istinto di sopravvivenza, assicurato dalla protezione militare e tecnologica americana, per andare negli Stati Uniti. Alimentando sempre di più il suo prodigioso divario da qualunque possibile rivale.

Distribuendo semmai i dividendi tra gli alleati moribondi:

“E allora, qual è il ruolo dell’Europa? Quale volete che sia? Siamo morti che camminano. Per darci un tono, ci definiamo sonnambuli. Il divario rispetto agli Stati Uniti era vasto dieci anni fa: è cresciuto, e non c’è alcuna ragione per pensare che non aumenti ancora.”

Roma, Novembre 2024. XXI Martedì di Dissipatio

Talenti e maestri italiani, cinesi, israeliani, e in fuga dall’Europa sono attratti dagli Stati Uniti. L’intelligenza artificiale, prodotto della mente e del genio anche europeo non trova voce in capitolo nel Vecchio Continente. Al netto di studi e centri di ricerca. Di eccellenze tecniche e umanistiche. Ciò che manca è l’elemento più importante e decisivo che sfugge a un continente che si crede ancora potenza e che rifugge ancora, sempre di più, al ritorno della Storia: manca l’hardware. Manca la manifattura. L’industria, nel senso più stretto del termine. Nonché la volontà o la capacità anche finanziaria di sostenerla.

Senza “prendere sul serio” l’industria del videogioco, piuttosto che il ruolo di personaggi (e videogiocatori) come Elon Musk e Peter Thiel, al di là della natura a suo modo pittoresca di questi ultimi, fatte di sparate pubbliche e di deliri transumanisti, si rischia di guardare al dito e di perdere di vista la luna. La luna sono i microprocessori. Le componenti tecniche che più di qualsiasi pur legittimo timore di una “rivolta delle macchine” e di un’estinzione della razza umana “soppiantata dall’intelligenza artificiale” sono il vero nucleo della questione. 

E al tempo stesso la produzione di microprocessori, la Chip war tra Cina e Stati Uniti, accompagnano le ambizioni spaziali di Starlink e la guerra dei dati e dei social networks in corso tra le due superpotenze. 

Accompagnano, ma non sono decisive. Prima vi è la geopolitica, la geografia, le condizioni economiche, materiali, antropologiche e politiche; e poi viene l’intelligenza artificiale in ogni sua applicazione o protagonista. Dagli investimenti (anche politici) di Elon Musk, le sue indubitabili capacità industriali, alla ricostruzione di una cintura manifatturiera statunitense, tale da constrastare con maggiore efficacia la gigantesca capacità produttiva della Repubblica Popolare. Dalla valorizzazione dei talenti migrati negli Stati Uniti tra cui Jensen Huang, ai finanziamenti massicci alle ricerche scientifiche, strettamente connesse con la produzione e l’imprenditoria e mai fini a se stesse. 

Entrare nella dimensione geopolitica e materiale dell’attuale sfida all’intelligenza artificiale significa perciò attribuire a quest’ultima il giusto valore e il suo limite più grande che resta, indubitabilmente, l’uomo. Umani i geni, umane le convergenze politiche e i poli attrattivi, umane le collettività in lotta per l’egemonia tecnologica e forse globale:

“L’intelligenza artificiale sta esattamente dove la mettiamo, può fare solo ciò che la addestriamo a fare, e può influenzare solo ciò a cui sono connessi i suoi output. Di conseguenza, saremo sempre noi esseri umani a decidere quanto potere decisionale cedere ai modelli di intelligenza artificiale. Essi non prenderanno mai il potere da soli. Avranno solo il potere che diamo loro”

Citato nel testo, assieme a numerosi altri riferimenti letterari frutto della sterminata conoscenza dell’autore a testimoniare ancora l’indissolubile (a noi dimentico) legame tra sapere umanistico-filosofico-letterario e produzione tecnico-scientifica, è il capolavoro di Frank Herbert, Dune. Consacrato oggi, nuovamente, nelle sale cinematografiche, stupisce per il profondo fattore umano insito nelle sue scenografie fantascientifiche.

A guidare l’aspirazione alla liberazione dell’umanità è l’ordine religioso femminile delle Bene Gesserit. Non le macchine che superano l’umano, né l’asservimento di altri umani mediante macchine, bensì lo sviluppo della mente degli uomini, che lungi dal rattrappirsi e lasciarsi assuefare dalle proprie servili creature artificiali, si spingono continuamente oltre: “Non costruirai una macchina che contraffaccia una mente umana” asserisce la Reverenda Madre delle Bene Gesserit nel primo colloquio con i giovane Paul Atreides. 

“La Grande Rivolta ci ha liberati da una stampella. Ha costretto la mente umana a svilupparsi.”

La mente umana di oggi sono i centinaia di migliaia manutentori umani sparsi negli ultraenergivori data center e nelle fabbriche (“mulini satanici”) di tutta l’Asia Orientale, dalla Malesia, al Vietnam, a Singapore, sicurezza nella supply chain e guerra commerciale tra Washington e Pechino, con centro nella “capitale” dei microprocessori: Taipei, l’isola dell’apocalisse nucleare forse prossima.

E umani sono anche gli “eroi” della rivoluzione del nostro tempo, vestiti con giubbotti di pelle come Jensen, videogiocatori incalliti come Musk e spesso megalomani come Palmer Luckey o Peter Thiel, prodotti della stessa ferocissima etica del capitalismo e del sogno americano che ha gemmato NVIDIA.

Umana e dalla forte implicazione geopolitica, è anche la fuga di cervelli dall’Europa e sua riduzione a “potenza della regolamentazione”, mentre la Storia la ingoia senza troppi complimenti assieme alla propria miopia in settori sempre più nevralgici come nella stessa AI, piuttosto che nelle crypto o nel controllo dei dati e nello sviluppo di una propria seria industria spaziale: unici partecipanti alla contesa globale convinti che la lotta sia conclusa, quando invece è appena cominciata. Una lotta da cui nessuna cellula del grande organismo antropico terrestre potrà forse sottrarsi:

“L’integrità del corpo dipende dal flusso sanguigno e da quello nervoso, sensibili alle più minute necessità di ogni cellula… ogni cosa, cellula, essere, non è permanente… lotta per la continuità del flusso interno”

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