La scorsa settimana Elon Musk si è recato in visita ufficiale in Italia; ora sta facendo lo stesso in Francia: serve scegliere la locazione della prossima Gigafactory di Tesla (una se l’è già aggiudicata la Germania), e ampliare il raggio della sua politica estera personale all’Europa. Il Vecchio Continente a suo insindacabile giudizio troppo vecchio e decisamente farraginoso, con tutti quei suoi lacci e lacciuoli di regole e burocrazia di cui negli States si fa spesso e volentieri a meno, e con quella tendenza alla denatalità. Non si può dire nemmeno che parli dal pulpito sbagliato: il sogno americano riesce ancora a tenere a distanza la crisi demografica; Mister Tesla di origini sudafricane ed emigrato dal Canada, ne è tutto sommato un buon esempio. Protagonismo imprenditoriale e bacchettate politiche: c’è chi fa della modestia il suo marchio, questo qualcuno non è certo Musk.
A Roma ha potuto interloquire a tu per tu col Ministro degli Esteri Antonio Tajani, e poi ancora privatamente, per oltre un’ora, con la Presidente Giorgia Meloni. Molti Capi di Stato anelerebbero un tale privilegio; e non perché si parla dell’Italia, ma se le due massime cariche del potere esecutivo ti dedicano una giornata intera di incontri bilaterali, significa che vali tutto il loro tempo e le loro attenzioni. È così nel mondo globalizzato, che muove imprese su scala intercontinentale mentre la politica combatte ancora in camicie di forza nazionali, strette e limitanti, eppure ancor le uniche pienamente legittimate dai popoli.
Il successo economico, il magnate sudafricano, l’ha sperimentato a sufficienza perché non rischiasse di diventare routine; il ruolo di imprenditore-superstar visionario della Silicon Valley è il suo pane, ma mancava ancora qualcosa. È il desiderio primordiale del cittadino occidentale: l’influenza politica. Non nel senso del contatto col potere politico, quello lo coltiva già, connaturato al suo ruolo di imprenditore in settori strategici. C’è della pura ambizione, quel senso di avanguardia della società che Elon già coltiva ampiamente nel suo settore, ma che coerentemente al suo spirito vitale, vuole espandere a tutto tondo, fino a non lasciare più vuoti. Il nuovo pallino di Musk è la politica americana, per questo si è tuffato di testa nella campagna elettorale per la presidenza dello Stato più potente al mondo, nel momento più fragile della sua storia recente.
Ma non l’ha fatto come politico, anzi, ha già rifiutato il posto da Presidente per un futuro prossimo: troppo poco potere, ma soprattutto troppa poca libertà. Come fosse un vestito stretto. Dichiarazione di una tale sfacciataggine da imbarazzare per un attimo perfino sé stesso. Il ruolo più modesto che si è ritagliato è quello di maxi-finanziatore e influencer di punta per la prossima campagna presidenziale. Qui sfiderà altri magnati-superstar – tra cui, ancora una volta, la famiglia Soros – in una competizione vertiginosa fatta di fiumi di denaro e potere mediatico. Due pesi massimi del lobbismo internazionale che han fatto della politica il proprio hobby spingono i propri cavalli verso il traguardo.
Il candidato democratico alle elezioni 2024 sarà l’ottantenne Joe Biden. Moderato, politico professionista di lunga data, tra i più carismatici della sua generazione. Incarna il prototipo dell’americano che ha vinto la guerra fredda: showman quanto basta, con tutta l’autostima di chi si vede sul tetto del mondo. Eppure, a guardarlo prevale quella sensazione di anacronismo, di incertezza, di un leader ormai troppo anziano, fautore di un modello superato dai tempi, inadeguato a condurre l’America fuori dalle secche di una crisi d’identità che promette violenza. In ogni momento di difficoltà della storia statunitense si è sempre imposto un leader che ha rivoltato la nazione, ha fatto tutto il contrario di quanto si era sempre fatto, ed è riuscito a darle nuova linfa vitale: Roosevelt, Nixon, Reagan. Dai traumi della guerra al terrorismo alla paura della Cina, fino alla polarizzazione razziale con contorni di guerra civile, si cerca un nuovo deus ex machina. Ma persino agli occhi di molti strateghi a lui affini, Biden non pare proprio l’uomo che sarà in grado di offrire risposte nuove, o di tentare quelle strade ancora non battute che rivoluzioneranno ancora una volta l’impero a stelle e strisce. Visto il momento storico, e viste le alternative, i milioni della famiglia Soros – che ha trovato nuovo condottiero nel secondogenito Alex – hanno comunque preso la sua direzione.
Dall’altra parte abbiamo l’ex-Presidente Donald Trump: l’anticristo per lo Stato profondo americano, scomunicato in sincrono da tutte le pubbliche piazze virtuali e riabilitato a cinguettare solo da Mr. Musk. Lui ci ha provato a fare “tutto il contrario” di quanto fatto da chiunque fosse venuto prima: ha portato all’attenzione trend economici rovinosi e colpevolmente ignorati dall’establishment, ma per il resto si è mostrato parte della crisi. Ovvero, ha concentrato le sue energie esclusivamente verso la pars destruens: l’ha fatto con una miriade di accordi internazionali, con le violenze della polizia, le disuguaglianze razziali, la Corte Suprema, solleticando teorie del complotto di ogni fattura, fino ad attentare al sistema politico americano. Musk vuole una competizione aperta, a differenza del sistema giuridico americano che sta provando in fretta e furia ad abbatterlo prima delle prossime elezioni (intanto Donald ringrazia), ma non punta su questo cavallo: astrategico, guidato dagli impulsi, in caso di vittoria (ma anche di sconfitta) rischia davvero di scatenare il collasso interno dell’America. Era tutto fatto in famiglia: il braccio destro doveva essere il genero Jared Kushner, che però si è defilato, e non avrà ruoli in un eventuale secondo mandato del tycoon: impegnato a tener non annegare nello tsunami giudiziario legato a Capitol Hill, impantanato dai suoi legami col principe saudita Bin Salman, ed esiliato da New York. Decisamente troppo per Jared e Ivanka.
In mezzo a questi l’underdog repubblicano Ron De Santis. Potrebbe rappresentare l’alter ego americano di Giorgia Meloni: fieramente conservatore, ma non antisistema; anti-woke, liberista, ma non esattamente un libertario. È il campione muskiano, anche se lui non si sente di destra, dice che sono gli estremisti woke ad aver spostato il baricentro della politica. Ha letto il trend politico mondiale, il vento in poppa dell’etica conservatrice, ma come prima mossa ha sfidato le logiche ferree del bipolarismo americano. Lo ha presentato – tragicomicamente – sulla sua piattaforma, in un comizio virtuale che risoltosi in farsa, tra problemi coi server e cacofonie di fondo degli utenti collegati in quel Twitter Space. Ovviamente, Trump non si è fatto scappare il boccone succulento, raccattando dal web tutta la derisione che gli è capitata a tiro. Pubblicizzare per distruggere: se suo malgrado ha funzionato col proprio protégé, vale anche di riflesso. Ecco che allora trova il virtuosismo e ospita Robert Kennedy jr sulla sua piattaforma personale: complottista, no-vax, sommo imbarazzo per i Democratici, di cui però sta tentando la scalata ostile.
Musk e Soros – i primi uomini con una politica estera individuale – hanno scelto i loro campioni; e il terzo, The Donald: antieroe per eccellenza, non ha più altri che non sé stesso e il suo popolo. Una pazza corsa a tre: dal cancelletto di sinistra il cavallo in pensione, che prova a sorreggere un fantino da 300 milioni di abitanti arrabbiati, cercando al contempo di nascondere i segni della fatica. All’estremo destro l’animale imbizzarrito: il conduttore parte torcia accesa alla mano, e nasconde una Smith&Wesson sotto la sella. Tra i due Ron De Santis, la scommessa di Musk, uomo dotato di un potere mediatico enorme – quello di Twitter – e una capacità finanziaria on par rispetto ai suoi rivali, ma l’americano medio cosa ci trova? Ce lo diranno presto le primarie repubblicane. Pronti allo sparo, quello di starter.