«Andiamo a fermare Cristoforo Colombo, se no scopre l’America e ci rovina tutti!». Prima ancora che una battuta, era un avvertimento a tempo sonoramente scaduto, quello lanciato del Benigni di Non ci resta che piangere. Nelle parole rivolte al compagno di avventura Troisi era distillato l’atteggiamento che ha accompagnato e continua ancora ad accompagnare ogni sguardo gettato oltre Atlantico. Accompagnare, o anche turbare, o infastidire. Perché noi italiani, diciamo la verità, con l’America, complici anche gli storici, proverbiali contrasti interiori del Nuovo continente, non è che si sia stati tanto onesti, fin da quel fatidico 8 settembre 1943 in cui diventò, da un giorno all’altro, da nemica giurata fraterna alleata, conservando però sotto il crostone della nuova ufficialità tutte le distanze, i dubbi e i pregiudizi di antica data.
Antonio Gramsci dal carcere aveva avvertito, «l’antiamericanismo è comico, prima di essere stupido», Massimo Bontempelli aveva cercato di ragionare: «Tra i tanti luoghi comuni di natura ossessiva nei quali inciampiamo uno dei più fastidiosi è la paura dell’americanismo», ma le loro erano state parole nel vuoto. L’America continuava ad essere l’avamposto della modernità, attraente per alcune sparute avanguardie artistiche o per i tanti che avevano deciso di imbarcarsi in cerca di fortuna. Per la cultura dominante, cattolico-crociana o comunista-socialista che fosse, quella d’oltreoceano era una modernità da guardare quantomeno con sospetto: il luogo dei grattacieli informi, dell’industrializzazione frenetica, dell’incultura, affetto da quella sindrome dell’esagerazione à la P.T. Barnum che alla fine degli anni Venti aveva portato nel buio di una depressione che nessun Freud aveva potuto curare. E Mussolini si sentiva autorizzato a pensare che un’eventuale entrata in guerra degli Stati Uniti sarebbe stata assolutamente ininfluente vista l’irrilevanza della sua capacità produttiva nel settore bellico.
Il bello è che dopo l’8 settembre del 1943 non è che fossero cambiate le cose. Il guru degli intellettuali italiani, Benedetto Croce, poteva scrivere Perché non possiamo non dirci “cristiani”, ma nessuno si azzardava a sostituire quel “cristiani” con americani. Il capo incontrastato del partito comunista Togliatti dava loro dei «cretini», e il mondo cattolico sotto sotto non pensava cose tanto diverse a proposito di un popolo fondato sulla libertà di pensiero e religiosa che sembrava aver eletto solo il dollaro a proprio unico dio. Eppure, sotto le maglie della censura e dell’irrisione fascista o parafascista, il mito d’oltreoceano era già entrato nelle vene della società italiana. I romanzi tradotti dalla premiata ditta Pavese-Vittorini, la musica ma soprattutto il cinema – la più pervasiva e potente delle armi di fascinazione di massa – si erano rivelate infallibili nel conquistare cuori e menti, capaci di ridicolizzare qualsiasi blocco, qualsiasi censura, qualsiasi pregiudizio. I giovani, intellettuali o no che fossero, ne erano stati catturati. All’immagine degli invasori se ne stava sostituendo un’altra, quella dei liberatori dell’immaginario.
Da noi non c’erano come a Parigi gli zazou che esibivano la loro dissidenza attraverso l’amore per il made in USA, ma lo swing, il jazz, la moda avevano già cominciato a fare vittime, anche illustri. Da Napoli, la prima città americanizzata della penisola, Renato Carosone cantava Tu vuò fa’ l’americano, che in sostanza descriveva le stesse voglie e al contempo la stessa distanza raccontate in Un americano a Roma dall’Alberto Sordi parossistico e stracitato «sceriffo del Kansas City», quello infine così facilmente arrendevole alle domestiche lusighe dal “maccarone”.
Stringi stringi, l’atteggiamento di Ferdinando Mericoni non differiva troppo da quello di gran parte degli intellettuali nostrani, per i quali l’America restava quella amara descritta da un letterato come Emilio Cecchi: un Paese ontologicamente infantile, popolato di anime sempre alla ricerca di denaro, di industrie, di caccia al successo in tutti gli ambienti possibili, da quelli cinematografici hollywoodiani ai gangster del proibizionismo, fino ai minatori della febbre dell’oro. Per quanto inseguita e goffamente imitata, l’America, che in epoca paranoica di Guerra fredda si era messa alla guida del mondo occidentale, continuava a restare lontana. Lontana e impossibile. Rifiutata e perfino sbeffeggiata sotto il fascismo, più o meno apertamente sprezzata anche dal mondo cattolico meno bacchettone. Nel nuovo ordine imposto dalla DC e accettato dal PCI (a voi la cultura a noi tutto il resto), gli Stati Uniti continuavano ad essere guardati se non proprio come il diavolo, come un inconoscibile Altro da sé. Il fatto nuovo era però che la pioggia di denaro del Piano Marshall obbligava ufficialmente a ingoiare il rospo a stelle e strisce. Con l’Unione sovietica ad assolvere da par suo l’utile ruolo di spauracchio.
Nonostante qualche precoce innamoramento destinato a svanire presto (Papini e Prezzolini, per esempio) si può dire che in casa nostra il pragmatismo insegnato da James e Dewey – quella filosofia pratica che non ammette verità immutabili con la V maiuscola né sistemi, ma solo l’elaborazione funzionale dell’esperienza – non avessero messo nemmeno una radice. Il concetto di una filosofia pubblica che mettesse tutti gli uomini in condizione di migliorarsi non era contemplata, e Dewey poteva essere facilmente retrocesso alla condizione di pedagogo.
La lezione di Gramsci, che nella società industriale americana era stato tra i pochi ad aver intravisto l’embrione di una possibile egemonia culturale nata in fabbrica e quindi un’auspicabile sintesi tra Stato e società «tanto più inedita e sorprendente quanto più affidata non a una versione del primato dello stato ma a una innovazione e pluralizzazione delle occasioni della politica e delle possibilità di concentrazione statuale», era praticamente già andata a farsi benedire, e con essa il sogno di avvicinare alla società civile gli intellettuali europei, o staccati dal popolo e formanti «una casta a sé, senza radici nella vita nazionale-popolare», diventati di fatto agenti della classe dominante. I filosofi-padroni sia pure poi divisi Croce e Gentile avevano saputo creare un clima d’isolamento nel nostro Paese, illudendo gli intellettuali che il loro neoidealismo fosse la migliore filosofia europea, trovando alleati anche sulla sponda marxista conservatrice che anche laddove si mostrava esente dalla cupa ortodossia filo-sovietica, in quell’antifilosofia pret-à-porter vedeva solo l’inaccettabile espressione dell’imperialismo statunitense, in un circolo vizioso che chiudeva in se stessa l’identità culturale italiana con il recupero, sia pur critico, della sua storia.
L’élite marxista più concentrica – i Cases, i Fortini, tanto per fare due nomi – a Gramsci mostrava di preferire un Lukàcs o un Adorno: gli rimproveravano di star fuori da un capitalismo sviluppato oppure l’appartenenza a quel popolo dal quale ci si voleva sentire aristocraticamente lontani. Di qui l’ombra di un populismo che a parere di un Asor Rosa si allungava fino a Pasolini, rendendo impossibile che in Italia prendesse forma una politica, e una politica culturale, autenticamente rivoluzionaria. In un Paese segnato dall’idealismo, le idee non potevano che far premio sulla realtà. Come rivendicava Cases, più che sulla svolta della storia, ci si soffermava sulle sue categorie speculative. Ortodossi o no che si fosse alla fede comunista, l’America continuava ad essere il luogo dell’orrore, del macchinismo, dell’ignoranza, della vacanza del pensiero, peccato senza remissione, in un’epoca in cui il far ridere, la leggerezza erano di per sé segni indubitabili del vituperato commercialismo. Solo dalle porte della seriosità poteva passare l’arte. La commedia all’italiana oggi universalmente esaltata era vista come il fumo negli occhi, quasi quanto l’antropologia che pretendeva di interpretare le cose senza partire dalla lotta di classe. Bruno Rizzi, l’autore in Francia de La burocratizzazione del mondo che aveva osato sostenere la conciliabilità di marxismo e libero mercato prevedendo l’asfissia statalista dell’Unione sovietica, dopo essere stato confinato dal fascismo, era stato espulso anche dal partito comunista. Pasolini, che a New York sosteneva di aver scoperto la sinistra più bella che un marxista oggi possa scoprire e tra i pochissimi fraternizzare con il vitale antagonismo della Beat Generation, faceva come sempre corsa a sé.
La pittura astratta che il Dipartimento di Stato tra mille resistenze aveva scelto come emblema della libertà americana contro il realismo sovietico era più lodata che capita, ma ogni forzatura, ogni imposizione stava per sciogliersi definitivamente sotto il sole della controcultura, della pop art e di una Nuova Hollywood, dove a dettare legge erano arrivati giovani registi e giovani sceneggiatori chiamati da un’industria in crisi che faceva fatica a interpretare i gusti della nuova generazione. Dopo gli Sherwood Anderson e gli Steinbeck, i Salinger e i Kerouac, dopo Glenn Miller e Duke Ellington, il bebop di Charlie Parker e Dizzy Gillespie, dopo il rock di Little Richard e il rithm & blues di Presley, il folk-rock di Bob Dylan e il rock psichedelico dei Jefferson Airplane. La generazione dei critici agelasti che aveva fatto resistenza in tutti i modi per impedire quella cosa che Adorno chiamava il «gergo dell’autenticità», alla fine si era dovuta arrendere. La pop art era letteralmente esplosa, Warhol stava per diventare il commediante e martire per antonomasia o forse meglio lo specchio perfetto di una contemporaneità prodotta in serie. Sulle sguerguenze dei cosiddetti urlatori che aggredivano le abituali, cullanti melodie, su quel pre-punk che Clem Sacco trasformava nel più brutale Spacca, rompi, spingi, e poi su capelli, collanine e droghe dei figli dei fiori si poteva ironizzare finché si voleva, ma il giovanile gemellaggio transatlantico per quanto superficiale poteva dirsi più o meno felicemente compiuto. Tanto erano stati in bianco e nero gli anni Cinquanta, tanto apparivano a colori i Sessanta. Seguendo il percorso compiuto da Allen Ginsberg e compagni, la West Coast, la California e San Francisco erano diventate la nuova frontiera del mondo libero, sotto lo sguardo severo di un’intellighenzia che nei confronti degli alleati-padroni continuavano a mostrare antiche diffidenze.
Sì, nella storia del travagliato rapporto tra italiani e americani, gli anni Sessanta furono quelli dell’innamoramento, ma un innamoramento che non riusciva comunque nemmeno allora, specie sul versante sinistro, ad abbandonarsi, a consegnarsi completamente. Il perché era chiaro: l’America restava quella della guerra in Vietnam, della pena di morte, del razzismo, degli attentati e della violenza à gogo, il Paese che appoggiava colpi di Stato in mezzo mondo, che molti scrivevano col kappa, il Paese che ci aveva salvato ma anche quello che pretendeva di dirci che cosa si poteva o non si poteva fare (le storie diversamente inquietanti di Adriano Olivetti e Enrico Mattei sono lì a raccontarcelo). Grazie all’arrivo di balle su balle nei porti di Napoli, Civitavecchia e Livorno, la gioventù degli anni Settanta poteva vestirsi con magliette, camicie, jeans e felpe e pullover di seconda mano e a prezzi irrisori, senza sentirsi minimamente imbarazzata nell’andare poi così vestiti a protestare sotto l’ambasciata americana. Superate le chiusure preconcette della generazione precedente, americanismo e antiamericanismo sembrava avessero trovato un felice ma schizofrenico modus vivendi, a confermare quella verità celebrata da Warhol: ognuno si prende l’America che vuole. Con la musica e il cinema a fare da formidabili collanti, sonori, visionari, colorati bosoni di Higgs capaci di tenere insieme sogni e bisogni, materia e antimateria.
A conquistare la generazione successiva dovevano arrivare il rap e il grunge, segni inequivocabili della diffusione di mode e comportamenti metropolitani che partiti dal basso vengono fatti propri dall’industria culturale. Portatori incappucciati di un malessere sociale destinato a essere rimesso in piega da una moda hipster che al di là del nome poco o nulla ha a che spartire con l’originale newyorkese degli anni Cinquanta, jazzistica fusione di tre identità distinte: il nero, il bohémien e il delinquente metropolitano. Per rompere questo nemmeno troppo magico equilibrio ci voleva un cambio di millennio o una guerra intercontinentale, o forse bastava anche un presidente come George W. Bush. Il «chi non è con me è contro di me» da lui lanciato dopo l’attacco alle torri gemelle rimetteva sul tavolo, l’uno contro l’altro armati, americanismo e antiamericanismo, con gli organi dell’informazione tanto attratti dalla nuova contrapposizione da non preoccuparsi di capire che filoamericanismo poteva anche non coincidere con filobushismo. Improvvisamente, in una congiuntura che molto aveva del paranoico, essere contro la guerra in Iraq e in Afghanistan voleva dire essere contro la libertà dei popoli e contro una democrazia che si poteva, anzi si doveva esportare anche laddove non era arrivata la civiltà; professare pacifismo altro non era che una dimostrazione di sciagurato antiamericanismo.
La guerra per la libertà dei popoli: lo schema era sostanzialmente lo stesso usato a suo tempo per il Vietnam (se possibile incattivito dalla rabbia per il clamoroso smacco terroristico subito in casa propria), ma non lo era il riverbero pratico e mediatico, in un mondo che proprio gli Stati Uniti avevano voluto globalizzare, convinti che ciò significasse americanizzare e non magari cinesizzare. Tutti quelli – ed erano davvero tanti: politici, giornalisti, accademici e intellettuali versione discount – che in quegli otto anni scesero in guerra al fianco dei Cheney e delle Condoleezza Rice, di fronte ai disastri scatenati si sono ben guardati poi dal riflettere sugli errori commessi, sulle sciocchezze stampate. Ma quell’infelice congiuntura aveva finito col rimischiare le carte e i ruoli dell’americanofilia. Nemmeno la novità di Obama (destinato a passare alla storia in fondo solo per due motivi: l’essere stato il primo presidente di colore e aver ricevuto un Nobel per così dire sulla fiducia, proprio a inizio mandato), né tantomeno la presidenza Trump, propostasi fin dall’inizio come la più personale ed eccentrica rispetto a ogni schema fino ad allora avuto, sono riuscite a rimettere per così dire in ordine il nostro sguardo “americano”. Ma forse non dipende solo da noi, dall’incostanza e dalla faciloneria di noi italiani. Dipende in gran parte proprio dall’America, che con le sue isterie, le sue idiosincrasie e le sue turbolenze da tempo non sembra far altro che lanciare grida disperate per la fine del proprio dominio nel mondo. Decennio più decennio meno, non era questa in fondo la teoria dei 150 anni di prevalenza di una cultura (l’Europa, poi gli Stati Uniti, ora la Cina) che il tanto bistrattato Spengler aveva a suo tempo prospettato?
Dal Bestiario degli Italiani n.14. Abbonati qui.