Intervista

«Per fortuna la vita è più grande dell’intelligenza e da un certo punto di vista sono le cose a fare noi più che noi a fare le cose». Il senso del romanzo oggi secondo Claudio Gallo

Cani di Carta è la storia di Rodolfo Rodrick, giornalista della Gazzetta di Moralia, il quale scopre che la nuova rete idrica di Bengodi è costruita con materiali altamente cancerogeni. Ma un fatto dev’essere riconosciuto dalla società per esistere, e il governo tace per non indisporre l’Impero alleato di Aurelia dove si producono le tubature. La fonte della notizia è un dirigente della Società Acque Potabili, che poco dopo si uccide. È la prima di una serie di morti sospette che coinvolge chiunque incroci la rivelazione. Per scrivere lo scoop della vita, Rodolfo dovrà sopravvivere alla censura invisibile dei media e al mondo letale dei servizi segreti.
«Per fortuna la vita è più grande dell’intelligenza e da un certo punto di vista sono le cose a fare noi più che noi a fare le cose». Il senso del romanzo oggi secondo Claudio Gallo
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Per scrivere di retroscena, di mondi paralleli, di oscure dinamiche politiche, è fondamentale avere contezza di come tutto ciò si sviluppi nella realtà. Claudio Gallo – per trentasette anni giornalista de La Stampa, divenendo dopo poco responsabile del desk esteri – si è per lungo tempo buttato a capofitto nelle trame di potere mediorientali (con una particolare predilezione per l’Iran), cercando di carpirne l’essenza. Il fattore umano, dietro ai riti e alle posture, è ciò che permette di entrare in contatto con una cultura: l’unico modo per restituire l’ossatura ideologica a un pubblico che parte da zero.

Non c’è così premio migliore dello scoprire che un uomo di lettere di siffatta natura decida di dedicarsi alla stesura di romanzi. Proprio perché i reportage, nel loro implicito tentativo di umanizzare gli abitanti di una terra aliena, possono funzionare fino a un certo punto. Indossare i loro abiti, pur nella fantasia meditativa propria della lettura, arriva alla mente molto più della raccolta di centinaia d’informazioni. L’ultimo romanzo di Claudio Gallo, però, non parla di mondi lontanissimi, ma di luoghi a noi vicini. Così vicini da sembrare italiani. Politica, potere, corruzione, omertà: Cani di Carta racconta una storia di casa nostra, sebbene sentirselo ricordare, alle volte, può dar fastidio. Abbiamo raggiunto il suo autore per fargli qualche domanda.

– Come nasce l’idea per Cani di Carta?

Dopo quasi quarant’anni di giornalismo, volevo dire qualcosa su quell’ambiente. Specialmente perché l’immagine generica circolante è molto lontana dalla realtà. Non si tratta di denigrare il giornalismo, sarebbe soltanto il contrario di una lode acritica. M’interessava far vedere perché il risultato è l’opposto di quello che si proclama, qual è la funzione principale dell’informazione, cosa c’è sotto la maschera. Certo, più le cose sono complesse meno sono definite, quindi se è giusto individuare nel giornalismo un core business che è essenzialmente la funzione propagandistica, c’è poi intorno una nuvola grigia e contraddittoria da cui possono uscire anche cose positive per la società. La gerarchia tuttavia non si può rovesciare completamente, nell’informazione comanda il signore di questo mondo, come dice il Vangelo di Giovanni.

Diciamo, un po’ paradossalmente, che il male del giornalismo è frutto del calcolo mentre il bene viene più dal caso o da una mancata composizione degli interessi predominanti ai vertici della società. Quello del giornalismo insomma non è un mondo a parte di spassionati osservatori della realtà, è un’articolazione della società così com’è e ne condivide sia i fini nascosti sia quelli apparenti. Poi per fortuna nostra le macchine non funzionano mai perfettamente. Non che rimpianga quei tempi, ma quando il pianeta era diviso in due blocchi il panorama mediatico nel cosiddetto occidente era molto meno asfittico di quello odierno, in cui tutti sembrano essere sostanzialmente d’accordo. Gli spunti critici esistono sempre, ma nel mondo dei social media sono polverizzati, resi invisibili dentro una specie di rumore di fondo che una persona normale si sente in dovere di ignorare. Uno si potrebbe chiedere perché non ho scritto un saggio. Il fatto è che volevo divertirmi e la scrittura romanzesca è molto più appagante di quella saggistica. Ora vedremo se si divertono anche i lettori. Sulla storia in sé del romanzo, mi piaceva l’idea irrealisticamente macabra di un mondo dove chi avvelena le menti, il giornalismo e la politica, è in combutta con chi avvelena i corpi in nome del sacrosanto profitto e dell’ordine globale costituito. Per fortuna un mondo così brutto è solo una fantasia. 

– Le tue esperienze sembrano focalizzarsi più sugli esteri, in particolare verso l’Oriente. Invece questo è un libro che parla del nostro Paese: senti che serve dire qualcosa sull’Italia che oggi viene, volutamente o meno, ignorato?

In Italia si può essere nazionalisti soltanto nello sport. Come dire, puoi essere libero solo in galera, tutto il resto serve a farti passare per pazzo o criminale. Se uno chiede a un giovane a caso, patria al massimo è il nome di un bar. Anche qui, nella società, nel mondo dei rapporti umani, non c’è niente di granitico. Le idee, le identità, si formano lentamente nel corso della storia e nella storia si dissolvono. Però nel presente esistono, con gradi diversi d’intensità e indicano cose reali, legami reali che dovrebbero dare un senso (limitato sin che si vuole) alla vita comunitaria. In questo quadro, che cosa resta oggi dell’Italia? Ben poco. Siamo una provincia dell’impero, dove si è inventato persino il sovranismo senza sovranità. Siamo di fatto una colonia. I vecchi governanti democristiani, con tutte le loro orribili colpe, lo avevano capito e avevano usato la nostra ambiguità costitutiva per allungare una catena troppo corta. Una cosa da fare tenerezza. Il mondo dell’informazione moderna ha ucciso il popolo, ne ha fatto una massa di lotofagi, ognuno chiuso nel suo delirio personale, incapace di dire noi e per questo sommamente controllabile. L’Europa è stata l’ultima occasione perduta di costruire un noi. Dopo secoli di guerre e discordie c’era la possibilità di ammettere: siamo quelli che non concordano su nulla, ma a forza di odiarci abbiamo qualcosa in comune. Potremmo amarci per stanchezza. Invece no. L’Europa di Bruxelles è oggi la più grande nemica dei suoi popoli.

 – La condizione contemporanea sembra contraddistinta da un overdose di due elementi. Il primo è lo spettacolo. Quale senso può avere allora continuare a scrivere storie quando esse sovrabbondano?

Guy Debord lo disse genialmente e confusamente alla fine degli anni sessanta, siamo immersi, in procinto di annegare, nella società dello spettacolo. Credo che si possa tradurre così: viviamo in un mondo dove le cose reali (e siamo d’accordo che «realtà» è un concetto ambiguo, più un buco nero di una categoria, qui si parla delle realtà su cui possono concordare due amici in osteria, o alla riunione del partito) sono state sostituite da immagini. È come se alla scatola cinese della caverna di Platone si fosse aggiunto uno scompartimento, ancora più lontano dalla luce del fuoco. Noi non siamo buoni: ci immaginiamo di esserlo. Non siamo cattivi: ci immaginiamo di esserlo e così via. Senza che questo impedisca alle forze che costituiscono il nostro mondo di mescolarsi  secondo immemorabili scenari archetipici. Soltanto, la nostra consapevolezza è indebolita, quasi dissolta, siamo diventati degli automi orgogliosi della loro falsa libertà.

All’inizio del novecento Hegel aveva decretato la morte dell’arte, Walter Benjamin aveva fatto l’autopsia all’Aura. Bob Dylan, per giocare all’alto e al basso, scriveva sul retro della copertina di Bringing It All Back Home nel 1965: «Non vorrei essere Bach, Mozart, Tolstoy, Joe Hill, Gertrude Stein o James Dean, sono tutti morti. I Grandi Libri sono stati scritti, le Grandi Frasi pronunciate». E il post-modernismo ha cercato di convincerci che non solo “non c’è niente di nuovo sotto il sole” ma che le ossessioni ripetitive della nostra cultura sono un gioco ordinato da regole astruse ma senza alcun senso. Potrei anche non essere d’accordo ma non posso non tenerne conto. Perché allora raccogliere il testimone anonimo del milionesimo autore di romanzi? Perché per fortuna la vita è più grande dell’intelligenza e da un certo punto di vista sono le cose a fare noi più che noi a fare le cose. Come le immagini che guidano la mente nascono sfolgoranti e poi perdono progressivamente la loro forza finché non ne nasce una nuova, così le narrazioni si usurano e vanno continuamente ripetute.  Non credo però che il nostro orizzonte sia immutabile: nella nostra società la funzione simbolica, anche soltanto i vecchi modelli sociali da emulare e rinnegare, è asfittica e prossima alla morte. La nostra vita scorre così in fretta (non devo certo scoprire oggi l’accelerazione sociale) che i simboli non riescono più a cristallizzarsi. La maggiore ricchezza  materiale (ma anche quella sta rapidamente declinando) corrisponde a un progressivo impoverimento umano. 

Il secondo elemento è la tecnologia. La tecnica si è impadronita di tutto: c’è ancora speranza per il vecchio mondo o il trend non può essere invertito?

Esteticamente l’atteggiamento reazionario ha il suo innegabile fascino. Ma purtroppo non funziona, dobbiamo provare a portare tutto quello possiamo del nostro bagaglio personale nella contemporaneità. Niente di assoluto però. Non ci si può adattare a tutto, a volte si può anche scegliere di dire semplicemente no, finché si può, finché dura. Ci sono diversi esempi nella storia. Se non concordo con la Thatcher sul fatto che la società non esiste ma esistono solo gli individui, non sono neanche sicuro che esista solo la società. Il fatto che ognuno sia solo davanti al proprio nulla credo sia un’esperienza incontestabile. La tecnica è un tipo di pensiero riduzionistico che ha nella sua efficacia una forza e un fascino diabolici. Un paio di occhiali che ti fanno vedere il mondo in un certo modo. Heidegger diceva che la scienza non pensa. Indietro non si torna, disfarci della tecnica (magari sarà la tecnica a disfarsi di noi) è impossibile. L’unico controveleno apparentemente possibile è la sua relativizzazione, specialmente in contrasto con la forma di grossolana verità religiosa che la scienza e la tecnologia stanno diventando a livello popolare. Bisogna rendersi conto che dietro a un gadget che apparentemente ti semplifica la vita c’è un intero universo pronto a imprigionarti. 

 L’intelligenza artificiale è il grande tema del momento. Secondo te è un bluff? Le sue possibilità sono ingigantite oppure può davvero rappresentare un pericolo per l’umanità?

L’intelligenza artificiale non è per niente un bluff, rischia di essere l’ultima schiavitù tecnologica. Dire che è utile non significa niente in un una civiltà organizzata intorno all’idea di produzione e profitto illimitati. Al di fuori del principio costitutivo dell’idea di umanità che è e sarà per sempre  il limite, l’uomo è limitato, il mondo è limitato, non può che diventare uno strumento distruttivo e antiumano. A cominciare dei posti di lavoro che andranno perduti nel campo della medicina, della giurisprudenza del giornalismo, dell’intrattenimento e così via. E’ interessante che questa rivoluzione, certo senza consapevolezza e ancora meno complotti, è stata preparata dalla de-alfabetizzazione delle masse, con l’incoraggiamento attraverso i media dell’uso massiccio di cliché, pensieri preconfezionati, morali del gregge. Quando si tratta di cliché infatti l’AI è imbattibile, perché, come hanno fatto notare molti, tra cui ultimamente Noam Chomsky,  l’intelligenza artificiale non pensa ma assembla un numero stratosferico di statistiche e analogie, imitando così il pensiero. L’uomo massa inconsapevole e super-controllato della nostra finta democrazia sarà la sua prima vittima.

A proposito di tecnica, qualche mese fa ci ha lasciati Gianni Vattimo. Tu ha avuto modo di collaborarci per lungo tempo: vuoi condividere con noi un suo ricordo?

Non collaboravo con lui, ero suo amico. Ovviamente, Vattimo era straordinariamente intelligente, ma soprattutto era capace di pensare con una chiarezza inusuale nel mondo accademico. Non stava sadicamente a vedere l’effetto che le sue parole astruse avevano su di te, ma si forzava di farsi capire con grande umiltà e ironia. Non condivido necessariamente il suo “pensiero debole” ma è impossibile non riconoscerlo come un percorso molto consequenziale attraverso la filosofia del Novecento.  Pensiero debole è stato un nome felice-infelice,a livello mediatico si dimentica spesso che l’aggettivo debole voleva esprimere una forza, la forza dell’umanità caratterizzata dal dialogo e dalla continua interpretazione della realtà all’interno della comunità. Il fatto che dicesse ciò che pensava gli valse, nell’ultima parte della sua vita, la scomunica perenne nel mondo dei media. Era una persona molto generosa, persino all’eccesso.

– Il Medio Oriente, di cui hai scritto per anni, oggi è una polveriera pronta a esplodere. Forse anche più di quanto non fosse vent’anni fa. Siamo diretti verso un punto di non ritorno?

Dal dopoguerra  Medio Oriente, inchiavardato in un sistema internazionale bipolare, è passato attraverso gli sconvolgimenti di un sistema unipolare e adesso sta vivendo le conseguenze della crisi del sistema che si articola intorno all’unica superpotenza, l’impero del dollaro, come lo chiamano gli strateghi cinesi, per capirci. Il sistema di cui facciamo parte, pur in periferia. Che gli Stati Uniti stiano per crollare, come qualcuno un po’ frettolosamente annuncia, è tutto da vedere. Vale sempre la vecchia battuta: gli Usa hanno i secoli contati. Però è vero che la situazione internazionale non è mai stata così instabile dal dopoguerra e che nel nostro mondo i cambiamenti sono così rapidi da scoraggiare qualsiasi previsione. La Palestina, tradizionale miccia di tanti conflitti, è più in fiamme che mai, i Paesi del Golfo cercano chi garantisca loro il business eterno e l’invisibilità interna, l’Iran vuole essere una potenza regionale e il  bonus di intoccabilità morale di Israele  durerà ancora ma non sarà infinito.  Ma non solo il Medio Oriente, focolai di crisi si aprono in tutto il mondo, dal Nagorno Karabakh, alle isole del mar della Cina, alle Curiili alla Corea a Taiwan e così via.  C’è di che farsi venire una certa ansia. Inutile fare previsioni, meglio incrociare le dire e sperare in un governo marziano che riscopra l’interesse nazionale.

Dopo “Cani di carta” c’è già un’altra idea che ti stuzzica per il prossimo romanzo?

Sto pensando a un romanzo di formazione per vecchi. Ho l’età in cui potrei scriverlo. Anche se nella fase della vita che Dante chiamava lunare, la vecchiaia, la forma bisognerebbe imparare a perderla. Il problema di oggi è che non si può perdere una cosa che non si ha. 

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